2021-09-19
«La mia mente non ha cancellato il sequestro ma la mia vita prima»
Vittima dell'Anomina sarda, racconterà la prigionia in tv: «Non so nulla di chi ero da 0 a 10 anni. Non chiedo pietà, io ce l'ho fatta».La storia di Augusto De Megni affonda radici in un'epoca lontana. Era il 1990, una serata calda di inizio ottobre. Augusto, allora, era un bambino: dieci anni e un'esistenza oggi definita «normalissima». «Era il tempo dell'Anonima sarda, dell'Anonima calabrese. In famiglia, tutti sapevano cosa volessero dire quelle parole, ma nessuno pensava sarebbe potuto succedere a noi. Perciò, ero un bambino come tanti, facevo quel che facevano gli altri». Solo, sotto i riflettori. A Perugia, i De Megni erano gente in vista: imprenditori, personaggi di spicco nella politica e nell'economia della regione Umbria. «Non vivevamo sotto scorta. Si pensa sempre che certe cose, i rapimenti, non possano succedere a noi. L'avessimo visto arrivare, ci saremmo preparati diversamente». L'ammissione non tradisce alcuna richiesta di compassione. Augusto De Megni, che l'Anonima sarda ha portato via con i fucili dalla casa del padre, Dino, non ha mai chiesto pietà. «E non voglio farlo oggi», dice, spiegando cosa lo abbia indotto a ripercorrere in televisione i 113 giorni di prigionia. Giorni assurdi, in cui solo le lacrime di un aguzzino gli hanno evitato il taglio di un orecchio. Giorni spesi in una grotta scavata nel tufo, nei pressi di Poggio la Rocca, a Volterra. «Non vorrei entrare nei dettagli, non qui. Credo che chi non voglia debba avere il diritto di non sapere. Gli altri, invece, potranno rivivere quei giorni nel documentario cui ho accettato di partecipare», Ostaggi, su Crime+Investigation (canale 119 di Sky) dalle 22 di martedì. Ostaggi ripercorre la stagione dei grandi sequestri italiani, tra gli anni Settanta e Novanta. Perché riaprire questa ferita? «Questo ventennio è un capitolo della nostra storia che credo debba essere conosciuto anche da chi non ha avuto modo di viverlo o di studiarlo. Non si tratta del mio caso, di un caso isolato. Si tratta di un periodo storico, e poco importa non esista più. La cronaca del nostro Paese merita di essere raccontata». Perciò ha accettato di ripercorrere la sua storia?«Sì. E con gli autori del programma sono stato molto chiaro». Cosa vuole dire?«Ho detto loro che non avrei parlato di quel che mi è successo con le lacrime agli occhi, con il tono caritatevole della vittima. Sono stato rapito, e questo è un fatto. Ma ho avuto la fortuna di salvarmi. Dunque, ne avrei parlato come ho poi fatto: con il sorriso sulle labbra, senza chiedere pietà». Ma come si sopravvive ad un sequestro lungo 113 giorni?«Non è facile spiegarlo a parole. Credo davvero che solo chi abbia vissuto lo stesso incubo possa capire. Dentro ognuno di noi, però, campeggia una forza, un istinto latente che emerge quando siamo messi alle strette. Durante la mia prigionia, ho scoperto un lato del mio carattere che non sapevo esistere». Stando alle mode di oggi, si parlerebbe di «resilienza». «Forse, “resilienza" è un termina abusato. Tuttavia, fa riferimento ad un aspetto esistente dell'essere umano, qualcosa di vecchio quanto il mondo». Non è mai infastidito da chi abusa di questa retorica, magari senza aver vissuto granché?«No, mai. Non mi permetterei mai di giudicare gioie e dolori di terzi. La sofferenza interna di una persona non è, necessariamente, legata ad un fatto, ma all'interpretazione soggettiva di quel fatto. Ciascuno vive a modo proprio i sentimenti». E questo relativismo si applica anche alla «pornografia del dolore», quel filone mediatico che si regge sulle tragedie?«In parte. Dipende tanto dal taglio che si decide di dare ad un racconto. Ma, in generale, credo che su sé stessi e il proprio dolore nessuno dovrebbe mai mettere bocca. Io ho deciso di attenermi alla cronaca, in Ostaggi, di non chiedere pietà perché non la merito. L'ho deciso, però». Cosa ricorda del suo sequestro?«Ogni cosa. Ho ricordi molto nitidi di quella serata. Facevo caldo, sembrava quasi fosse ancora estate. Era ottobre, invece, ed io ero appena rientrato a casa». Si dice che davanti ai grandi traumi la testa possa dimenticare, cancellare.«A me, però, è successo l'opposto. La mia mente non ha cancellato il sequestro, ma tutto quel che sono stato prima. La memoria fa scherzi, ed è vero. Ma chi sono stato fra gli zero e i dieci anni io non lo ricordo più». E non ha mai recuperato nulla?«Pochissimo. Ho qualche flash della mia vita com'era prima del sequestro, ma non saprei dire se si tratti di ricordi veri o suggestioni derivanti da fotografie, filmati, racconti». Com'è cambiata la sua vita quando è tornato a casa?«Non è cambiata. I bambini hanno tante capacità più degli adulti, e una di queste risiede nel loro essere malleabili. Dopo tanta sofferenza, un bambino conserva la propria forza, la capacità di ripartire con naturalezza da dove è stato interrotto». Ma la paura, quella non si cancella.«No, ma credo non esista un solo caso al mondo di persona rapita due volte. Io sono tornato alla normalità. Non sono stato un adolescente cresciuto sotto una campana di vetro, anzi. Sono andato via di casa molto presto, ho cominciato a viaggiare: ho preso in mano la mia vita con la consapevolezza di quello che mi è successo, senza che il passato però definisse il mio futuro».E nel 2006 ha fatto e vinto il Grande Fratello. Perché?«All'epoca, ero un ragazzo di 25 anni e, come tanti miei coetanei, ero attratto da un'esperienza televisiva. Sarebbe stato sciocco rinunciarvi perché 15 anni prima ero stato vittima di un sequestro. La differenza tra me e gli altri è che le mie sofferenze sono state pubbliche. Tutto qui». Perché poi non ha proseguito con la carriera televisiva?«Perché credo ancora nella meritocrazia e so di non avere un particolare talento artistico». E nella politica, che ha permeato il ventennio di cui racconta Ostaggi, ci crede ancora?«Non sono mai stato un'attivista. Mi informo e mi interesso di politica nella misura in cui questa riguarda tutti noi, la nostra dimensione personale. Quel che posso dire è che la politica nella stagione dei sequestri è stata fondamentale. Io sono stato il primo caso in cui è stato applicato il blocco dei beni, un provvedimento che ha fatto sì che la piega dei rapimenti andasse scemando». Cosa fa oggi?«Ho una società e mi occupo di immobiliare. Lo spettacolo è stata una parentesi, com'è iniziata è finita».
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)
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