2020-11-21
La maggioranza tenta l’agguato in manovra al federalismo fiscale. Ma la Lega lo sventa
Massimo Garavaglia (Ansa)
Salta il blitz del governo che avrebbe rinviato al 2022 la riforma Il pressing del Carroccio impone lo stralcio. Per il momentoParla Luca Mancinelli, lavoratore nell'enclave inglese: «Da noi non ci sono controlli».Lo speciale contiene due articoliVittoria procedurale della Lega nella Commissione Bilancio della Camera, dopo una battaglia condotta da Massimo Garavaglia. Nelle pieghe della manovra, la maggioranza aveva provato a realizzare l'ennesimo blitz: il «delitto» era all'articolo 151. Ecco il testo: «Nelle more del riordino del sistema della fiscalità locale, al decreto legislativo 6 maggio 2011 n. 68, sono apportate le seguenti modificazioni: all'articolo 2, comma 1, la parola “2021", ovunque ricorre, è sostituita dalla seguente: “2022"». Traduzione: un rinvio. Qualcosa doveva avere finalmente attuazione tra poche settimane, e invece il governo proponeva di rinviare tutto di un altro anno. Ma di che stiamo parlando esattamente? La rubrica, cioè il titoletto dell'articolo 151, ci fa capire la materia del contendere: «Rinvio del federalismo fiscale». Dunque, quello stesso governo giallorosso che già tiene in ostaggio il tema dell'autonomia differenziata, aveva concepito un ulteriore rinvio di quei margini di federalismo fiscale che furono pensati nel 2009 e che poi, tra una dilazione e l'altra, erano già stati accantonati per undici anni. Così, nell'ufficio di presidenza della Commissione, la Lega ha dato battaglia. Già il governo ha presentato la manovra con quattro settimane di ritardo (avrebbe dovuto inviarla alle Camere il 20 ottobre): quanto meno - questo è il punto fatto valere da Garavaglia, che tiene a ringraziare per la sua correttezza il presidente della commissione, Fabio Melilli - adesso, per rimediare almeno in parte, i giallorossi devono espungere dalla finanziaria tutto ciò che non dovrebbe starci: per un verso le norme cosiddette ordinamentali (cioè quelle non finanziarie) e per altro verso quelle con effetto sulla dimensione locale e territoriale. È dunque maturato lo stralcio di alcune parti, tra cui l'articolo 151. Naturalmente, nulla esclude che il governo ci riprovi in un altro provvedimento (il Milleproroghe è il più indiziato), ma il primo round l'ha vinto l'opposizione. Tornando al merito, tutto nasce da una legge del 2009 (la numero 42), accompagnata da un decreto delegato (il 68 del 2011): la legge aveva per oggetto proprio il federalismo fiscale, e il successivo regolamento stabiliva che, per le regioni ordinarie, il federalismo fiscale sarebbe scattato - appunto - a partire dal 2013. Si trattava, in teoria, di un'autentica svolta all'insegna dell'autonomia e della responsabilizzazione fiscale dei territori: si assegnava alle Regioni autonomia di entrata (sia con tasse proprie sia con la compartecipazione ai tributi statali, contemporaneamente abolendo i trasferimenti dallo stato); si fissavano paletti per garantire unitarietà e armonia in tutta Italia (livelli essenziali di assistenza e prestazioni); si stabiliva un percorso di progressivo adeguamento ai mitici costi standard; e, in nome della solidarietà per i territori meno dinamici, si istituiva un fondo perequativo. A questo punto, dinanzi a norme scritte - per una volta - in modo così chiaro e inequivocabile, che strada rimaneva al legislatore centralista per impantanare tutto? Elementare, Watson: il rinvio. E così, anno dopo anno, la partenza dell'operazione (prevista, lo ripetiamo, per il 2013) è stata differita al 2017, poi al 2018, poi al 2019, poi al 2020, poi al 2021. E adesso? E adesso il tentativo del governo era di rinviare al 2022. Vedremo come finirà questa partita, ma intanto ci sono almeno due riflessioni da fare. La prima: è evidente che, se applicato davvero, il federalismo fiscale avrebbe portato a una piena responsabilizzazione regionale nella gestione economica, con immediate conseguenze in primo luogo rispetto ai trasporti e alla sanità. Per capirci: non ci sarebbe stato bisogno di commissari nazionali (alla Arcuri), di interventi da Roma, né le Regioni sarebbero state costrette a subire l'umiliazione di dover pietire e domandare al governo nazionale. Semmai, si sarebbe innescato un meccanismo di piena assunzione di responsabilità dei governatori, con relativa possibilità di giudizio da parte degli elettori. Caro governatore regionale, mi hai abbassato le tasse e mi hai garantito buoni servizi? Sì? Ti rivoto. No? Ti mando a casa. Seconda osservazione: dal punto di vista dei neocentralisti, ci vuole una bella faccia tosta a incolpare le Regioni delle difficoltà attuali, rese più evidenti dalla crisi del Covid. Costoro, i centralisti, accreditano l'idea che il federalismo sia già realizzato, e che i governatori abbiano pieni poteri, quando così non è. Morale: Roma con una mano tiene fermi i provvedimenti che darebbero alle Regioni poteri veri, e con l'altra incolpa di tutto i governatori. Peggio ancora: i giallorossi lanciano una campagna sulla necessità di «ricentralizzare» poteri e funzioni che sono tuttora nelle mani di Roma. Oltre al danno, anche la beffa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-maggioranza-tenta-lagguato-in-manovra-al-federalismo-fiscale-ma-la-lega-lo-sventa-2648997332.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="spagna-e-gran-bretagna-chiudono-qui-a-gibilterra-non-si-teme-il-covid" data-post-id="2648997332" data-published-at="1605909335" data-use-pagination="False"> «Spagna e Gran Bretagna chiudono? Qui a Gibilterra non si teme il Covid» Mentre Spagna e Regno Unito applicano misure molto severe per limitare i contagi, a Gibilterra regna l'anarchia. Il piccolo territorio britannico d'oltremare nella penisola Iberica, appena sei chilometri quadrati d'estensione con poco più di 33.000 abitanti e un aeroporto la cui pista di atterraggio è attraversata dalla strada principale, rimane una delle destinazioni preferite dagli spagnoli che vogliono sfuggire alle restrizioni. Oltre che dai tanti turisti che ogni giorno attraversano il confine a La Línea de la Concepción, cittadina dell'Andalusia, per far rifornimento di liquori e sigarette senza dover pagare l'Iva. «La maggior parte gira senza mascherina», racconta Luca Mancinelli, 21 anni, che da due mesi lavora da Bruno's, bar ristorante inglese a dispetto del nome. «Solo in un paio di strade principali è obbligatoria ma anche lì non c'è polizia a controllare». Originario di Pescara, si è trasferito a Milano per studiare economia e management poi, dopo la prima ondata del Covid, ha pensato di «cambiar aria» e di trovarsi un lavoro alla Rocca, o el Peñón come viene chiamato il piccolo promontorio che sorveglia lo Stretto. «Tanto le lezioni si seguono online», spiega. Fa dunque parte dei 15.000 frontalieri che lavorano nell'ultima «colonia spagnola» in Europa, ma la cui sovranità Londra non ha mai accettato di condividere con Madrid. «Casa l'ho trovata in Spagna, perché gli affitti alla Rocca sono molto più cari», spiega Luca. «Dalla Línea in venti minuti a piedi, dieci in monopattino, arrivo sul posto di lavoro e non devo mettermi in attesa assieme agli automobilisti che vogliono entrare a far spesa o a bere con pochi soldi». Gibilterra cerca di sfuggire alla Brexit che entrerà in vigore il prossimo gennaio, pochi giorni fa è stato raggiunto l'accordo secondo il quale i frontalieri manterranno gli stessi diritti dei lavoratori dell'Unione europea. Il 96% dei residenti ha votato per il Remain al referendum sulla Brexit, però in altre due consultazioni (del 1967 e del 2002) avevano respinto una gestione condivisa con la Spagna. Vogliono rimanere sudditi di Elisabetta II, ma dalle restrizioni poste in atto nel Regno Unito prendono le distanze. Il lockdown nazionale imposto da Boris Johnson ha chiuso pub, bar, ristoranti e negozi non essenziali e ai cittadini è fortemente consigliato di rimanere a casa, mentre a Gibilterra i sudditi inglesi possono girare tranquillamente e andare in bar o ristoranti senza limitazioni di orario. «L'unica regola che viene osservata è quella di non servire alcolici dopo le 23», spiega Luca. Il mio locale ha un centinaio di posti, il fine settimana si riempiono tutti e chiudiamo anche all'una di notte». Per tornare a casa, percorrendo quei pochi chilometri, porta con sé un'autocertificazione in cui spiega che si muove per lavoro. In Spagna, infatti, dopo l'impennata dei contagi bar e ristoranti chiudono assieme ai negozi alle 18 e il coprifuoco inizia alle 22 fino alle 7 del mattino seguente. «Gli spagnoli vengono a bere nei nostri bar a partire dal primo pomeriggio e ripassano la frontiera prima delle 22». Poche mascherine, molti turisti mentre il resto della Spagna, come l'Italia, soffre perdite enormi. Eppure, malgrado le maggiori libertà, i contagi sono pochi. I dati aggiornati al 19 novembre segnalano 101 nuovi positivi, per un totale di 931 da inizio pandemia. I tamponi eseguiti sono stati 81.726 su 33.627 abitanti. Una dozzina i ricoverati, un solo paziente in terapia intensiva. Tre i morti in totale, tutti in questa seconda ondata: si trattava di ultranovantenni con più patologie. Chiedo a Luca se gli abbiano mai fatto il tampone da quando lavora nel ristorante. «No. Pensavo di fare il test perché ho trascorso le vacanze in Sardegna ma qui non lo chiedono. Nessuno sembra preoccupato».
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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