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2022-01-29
La Lucania è un Klondike gastronomico
Peperoni cruschi (IStock)
Come accennato nella puntata precedente scorrere le pagine del nuovo libro Confesso che ho mangiato del Goethe Gastronauta, alias Davide Paolini, porta alla scoperta di prodotti che, altrimenti, resterebbero nelle loro nicchie di storie e sapori, ma di indiscutibile eccellenza. Nella piccola Lucania ci eravamo lasciati con le melanzane rosse, e che dire del peperone di Senise, piccolo borgo di poco più di 7.000 anime immerse nelle bellezze del parco nazionale del Pollino, il più esteso d’Italia. Un gemello diverso del peperone classico a tutti conosciuto, in quanto non è piccante, ma dotato di aromi intensi, tanto da essere anche chiamato «zafaran», rimando al più blasonato zafferano che pure viene coltivato in queste vallate. Giunto con gli Aragonesi dalle natie Antille si è ben presto acclimatato nella sua nuova patria. Ne esistono tre tipologie, appuntito, a tronco e ad uncino. Una nota identitaria di queste terre in quanto, nei piccoli borghi si possono vedere le «serta di puparuli», sorta di collane di un rosso intenso, ovvero messe ad essiccare all’ombra delle case, tanto da «essere un tutt’uno con l’architettura del posto». «Collane» che richiedono una «abilità ed esperienza tutta femminile, frutto di lunga tradizione», come testimonia Roberto Caravaggi. Altra nota che le rende uniche. Per capire se sono arrivate al punto giusto di essicazione vanno leggermente scosse. Semaforo verde quando «suonano», ovvero emettono uno schiocco caratteristico. Peperone che, durante la sua essicazione, non va mai lavato, ma pulito dalla polvere con un panno asciutto. Va macinato in polvere «zafaran p’sat». Ne deriva un condimento molto aromatico dalle proprietà conservanti, tanto da essere tradizionalmente usato nella preparazione degli insaccati, su tutti il salame pezzente. Peperone «crusco», cioè croccante, che può anche essere consumato intero, fritto nell’olio in padella. Uno spettacolo vederne la trasformazione. Da grinzoso si gonfia e si colora di amaranto. Croccante ed inebriante poi al consumo. Negli ultimi anni da prodotto di stretta tradizione locale è diventato anche golosa pepita ricercata dai pellegrini del gusto. È stato salvato, anni fa, da agricoltori che si sono presi cura di lui. Le coltivazioni stavano per essere smantellate per la costruzione di una diga. Seminate e coltivate pochi campi più in là, in piena sicurezza. Altra ricchezza delle piccole Dolomiti lucane (così vengono chiamate le cime appenniniche da queste parti) il canestrato di Moliterno, nella val d’Agri, uno dei più antichi formaggi italiani. Orgoglio identitario di uno storico borgo di neanche quattromila residenti. L’etimo dal latino mulcternum «luogo dove si munge e si fa coagulare il latte». Questo avveniva nei fondachi, magazzini seminterrati dei palazzi nobiliari del tempo. Un formaggio versatile, a seconda dei pascoli. In estate, più vicini al mare, dai sentori più grassi. In inverno, con i pascoli dell’entroterra, meno grasso e più aromatico. Dal XVIII secolo diventa un’attività a sostegno dell’economia locale, poiché, come ha scritto a suo tempo Giuseppe Bianculli, docente accademico, «il merito è della qualità dell’aria, ricca di particolari germi che agiscono sulla fermentazione del formaggio». La controprova che le stesse maestranze femminili, di riconosciuta esperienza, una volta esportate per la lavorazione a valle, non erano in grado di realizzare lo stesso prodotto. Una testimonianza viva di transumanze senza se e senza ma, con Moliterno caput mundi per produzione e affinamento, come ben descritto tempo addietro dal padre Daniele Murno, un francescano in missione permanente sulle Dolomiti lucane: «Lunghe carovane di muli, da Moliterno, nel periodo invernale e primaverile, scendono alle marine in cerca del prezioso carico del pecorino fresco. Il loro viaggio dura dai quattro ai sei giorni, fra andata e ritorno, con innumerevoli insidie tese dagli uomini e dalla natura, oltre il pericolo della malaria». Quando si dice tenacia e resistenza umana, legate al territorio. In compenso il canestrato lucano è un prodotto ambito e ricercato anche oltreoceano, negli Usa, e non solo dai nipoti dei migranti del secolo scorso. Molto curiosa la procedura. Dopo una prima maturazione le forme venivano lavate con acqua e ripulite con un mazzetto di erba ruvida, il «vrungo», calate nelle fuscelle di vimini che gli danno il caratteristico aspetto, salate e, poi, levigate con pietra pomice per eliminare le parti ruvide. Pezzature importanti, che possono arrivare anche a otto chili. Un misto ovi caprino, con le capre locali molto produttive, mentre la pecora gentile di Lucania è un incrocio «di necessità» avvenuto nel XV secolo, per ottenere lana (dalla merinos spagnola) e carne (la pecora locale). Una razza, quindi, fonte di multiformi ricchezze. Scarsa produttrice di latte, ma di ottima qualità. Canestrato eclettico in cucina. Le forme giovani ottime in insalata con le mele della val d’Agri. A media stagionatura ottimo con i cavuzuni, ravioli con ricotta e ragù o i ferricelli, pasta modellata con un ferretto, condita con mollica di pane e peperoni cruschi. Con stagionature ancora più mature, oltre i 12 mesi, accompagna di golosa grattugia i trisciddi, sorta di orecchiette con ragù di maiale e pomodoro. Scendendo sulla costa calabra incrociamo il caviale di Crucoli, un paesino di neanche tremila abitanti. Qui la pepita golosa sono i piccoli avannotti delle sardine, marinati con peperoncino piccante e semi di finocchio selvatico. Un’autentica goduria spalmata su crostini di pane. Ogni famiglia depositaria della sua ricetta, frutto di sapiente memoria orale. È una sorta di versione marina della più nota ’nduja suina, roba da palati palestrati. Anche qui la lavorazione testimonianza di riti ancestrali. I piccoli avannotti lavati su ripiani di marmo, messi in salamoia nei terzaruli, appositi recipienti di terracotta. Sul fondo il peperoncino, le neonate aromatizzate con finocchietto a strati alterni con il sale. Ci si dimentica del tutto per sei-sette mesi e dopo si pappa in libertà. Un ricettario variegato per questo «caviale» alla portata di tutti. Ingrediente di pizze e frittate, ma anche a farcire le pitte, morbide focaccine, assieme alla cipolla di Tropea. Non poteva mancare la versione tarocca dagli occhi a mandorla, ma basta osservare bene le etichette tipiche dei piccoli produttori artigiani per tutelarsi. È tempo di varcare il canale di Sicilia. Trinacria felix, di particolare fascino. Goethe Paolini, romagnolo verace, è sempre stato attratto dall’isola di Giovanni Verga e Luigi Pirandello, tanto da compiere, quando possibile, spedizioni mirate in questa terra che ha visto alternarsi, nei secoli, sette civiltà, a partire dai fenici. È un viaggio che porta a conoscere non solo dei prodotti, piccole Cenerentole solo perché nulla o poco conosciute al di fuori dei confini patri, ma anche autentici maestri dei fornelli, uno per tutti Carmelo Chiaramonte, di Modica, città del cioccolato, che si autodefinisce cuoco errante, posto che ha prestato il suo talento in varie cucine nella penisola, sempre con la memoria dalle salde radici patrie. Un personaggio che «punta ad una sintonia tra il nome della ricetta e quanto si va ad assaggiare». Ad esempio con gli arancini «vulcanici», detti così perché assemblati anche con il nero di seppia che ne dà un aspetto che rimanda alla lava dell’Etna. Oppure «un pezzo di cioccolato in barca» laddove troviamo contrasti di aromi e sapori che in bocca diventano armonici, ovvero ricci di mare crudi serviti con cioccolato al peperoncino. Ma non serve essere estrosi come Chiaramonte per il viaggiatore goloso in Sicilia, perché è la natura stessa ad essere culla, da sempre, di prodotti spesso fuori spartito dai canoni classici.
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Le ricchezze di questa terra vanno dal peperone crusco (rischiava di sparire) al formaggio canestrato, che cambia d’aroma in base agli spostamenti delle bestie fra litorale e montagna. E poi una chicca: il caviale di Crucoli, ossia una sorta di «’nduja marittima»Come accennato nella puntata precedente scorrere le pagine del nuovo libro Confesso che ho mangiato del Goethe Gastronauta, alias Davide Paolini, porta alla scoperta di prodotti che, altrimenti, resterebbero nelle loro nicchie di storie e sapori, ma di indiscutibile eccellenza. Nella piccola Lucania ci eravamo lasciati con le melanzane rosse, e che dire del peperone di Senise, piccolo borgo di poco più di 7.000 anime immerse nelle bellezze del parco nazionale del Pollino, il più esteso d’Italia. Un gemello diverso del peperone classico a tutti conosciuto, in quanto non è piccante, ma dotato di aromi intensi, tanto da essere anche chiamato «zafaran», rimando al più blasonato zafferano che pure viene coltivato in queste vallate. Giunto con gli Aragonesi dalle natie Antille si è ben presto acclimatato nella sua nuova patria. Ne esistono tre tipologie, appuntito, a tronco e ad uncino. Una nota identitaria di queste terre in quanto, nei piccoli borghi si possono vedere le «serta di puparuli», sorta di collane di un rosso intenso, ovvero messe ad essiccare all’ombra delle case, tanto da «essere un tutt’uno con l’architettura del posto». «Collane» che richiedono una «abilità ed esperienza tutta femminile, frutto di lunga tradizione», come testimonia Roberto Caravaggi. Altra nota che le rende uniche. Per capire se sono arrivate al punto giusto di essicazione vanno leggermente scosse. Semaforo verde quando «suonano», ovvero emettono uno schiocco caratteristico. Peperone che, durante la sua essicazione, non va mai lavato, ma pulito dalla polvere con un panno asciutto. Va macinato in polvere «zafaran p’sat». Ne deriva un condimento molto aromatico dalle proprietà conservanti, tanto da essere tradizionalmente usato nella preparazione degli insaccati, su tutti il salame pezzente. Peperone «crusco», cioè croccante, che può anche essere consumato intero, fritto nell’olio in padella. Uno spettacolo vederne la trasformazione. Da grinzoso si gonfia e si colora di amaranto. Croccante ed inebriante poi al consumo. Negli ultimi anni da prodotto di stretta tradizione locale è diventato anche golosa pepita ricercata dai pellegrini del gusto. È stato salvato, anni fa, da agricoltori che si sono presi cura di lui. Le coltivazioni stavano per essere smantellate per la costruzione di una diga. Seminate e coltivate pochi campi più in là, in piena sicurezza. Altra ricchezza delle piccole Dolomiti lucane (così vengono chiamate le cime appenniniche da queste parti) il canestrato di Moliterno, nella val d’Agri, uno dei più antichi formaggi italiani. Orgoglio identitario di uno storico borgo di neanche quattromila residenti. L’etimo dal latino mulcternum «luogo dove si munge e si fa coagulare il latte». Questo avveniva nei fondachi, magazzini seminterrati dei palazzi nobiliari del tempo. Un formaggio versatile, a seconda dei pascoli. In estate, più vicini al mare, dai sentori più grassi. In inverno, con i pascoli dell’entroterra, meno grasso e più aromatico. Dal XVIII secolo diventa un’attività a sostegno dell’economia locale, poiché, come ha scritto a suo tempo Giuseppe Bianculli, docente accademico, «il merito è della qualità dell’aria, ricca di particolari germi che agiscono sulla fermentazione del formaggio». La controprova che le stesse maestranze femminili, di riconosciuta esperienza, una volta esportate per la lavorazione a valle, non erano in grado di realizzare lo stesso prodotto. Una testimonianza viva di transumanze senza se e senza ma, con Moliterno caput mundi per produzione e affinamento, come ben descritto tempo addietro dal padre Daniele Murno, un francescano in missione permanente sulle Dolomiti lucane: «Lunghe carovane di muli, da Moliterno, nel periodo invernale e primaverile, scendono alle marine in cerca del prezioso carico del pecorino fresco. Il loro viaggio dura dai quattro ai sei giorni, fra andata e ritorno, con innumerevoli insidie tese dagli uomini e dalla natura, oltre il pericolo della malaria». Quando si dice tenacia e resistenza umana, legate al territorio. In compenso il canestrato lucano è un prodotto ambito e ricercato anche oltreoceano, negli Usa, e non solo dai nipoti dei migranti del secolo scorso. Molto curiosa la procedura. Dopo una prima maturazione le forme venivano lavate con acqua e ripulite con un mazzetto di erba ruvida, il «vrungo», calate nelle fuscelle di vimini che gli danno il caratteristico aspetto, salate e, poi, levigate con pietra pomice per eliminare le parti ruvide. Pezzature importanti, che possono arrivare anche a otto chili. Un misto ovi caprino, con le capre locali molto produttive, mentre la pecora gentile di Lucania è un incrocio «di necessità» avvenuto nel XV secolo, per ottenere lana (dalla merinos spagnola) e carne (la pecora locale). Una razza, quindi, fonte di multiformi ricchezze. Scarsa produttrice di latte, ma di ottima qualità. Canestrato eclettico in cucina. Le forme giovani ottime in insalata con le mele della val d’Agri. A media stagionatura ottimo con i cavuzuni, ravioli con ricotta e ragù o i ferricelli, pasta modellata con un ferretto, condita con mollica di pane e peperoni cruschi. Con stagionature ancora più mature, oltre i 12 mesi, accompagna di golosa grattugia i trisciddi, sorta di orecchiette con ragù di maiale e pomodoro. Scendendo sulla costa calabra incrociamo il caviale di Crucoli, un paesino di neanche tremila abitanti. Qui la pepita golosa sono i piccoli avannotti delle sardine, marinati con peperoncino piccante e semi di finocchio selvatico. Un’autentica goduria spalmata su crostini di pane. Ogni famiglia depositaria della sua ricetta, frutto di sapiente memoria orale. È una sorta di versione marina della più nota ’nduja suina, roba da palati palestrati. Anche qui la lavorazione testimonianza di riti ancestrali. I piccoli avannotti lavati su ripiani di marmo, messi in salamoia nei terzaruli, appositi recipienti di terracotta. Sul fondo il peperoncino, le neonate aromatizzate con finocchietto a strati alterni con il sale. Ci si dimentica del tutto per sei-sette mesi e dopo si pappa in libertà. Un ricettario variegato per questo «caviale» alla portata di tutti. Ingrediente di pizze e frittate, ma anche a farcire le pitte, morbide focaccine, assieme alla cipolla di Tropea. Non poteva mancare la versione tarocca dagli occhi a mandorla, ma basta osservare bene le etichette tipiche dei piccoli produttori artigiani per tutelarsi. È tempo di varcare il canale di Sicilia. Trinacria felix, di particolare fascino. Goethe Paolini, romagnolo verace, è sempre stato attratto dall’isola di Giovanni Verga e Luigi Pirandello, tanto da compiere, quando possibile, spedizioni mirate in questa terra che ha visto alternarsi, nei secoli, sette civiltà, a partire dai fenici. È un viaggio che porta a conoscere non solo dei prodotti, piccole Cenerentole solo perché nulla o poco conosciute al di fuori dei confini patri, ma anche autentici maestri dei fornelli, uno per tutti Carmelo Chiaramonte, di Modica, città del cioccolato, che si autodefinisce cuoco errante, posto che ha prestato il suo talento in varie cucine nella penisola, sempre con la memoria dalle salde radici patrie. Un personaggio che «punta ad una sintonia tra il nome della ricetta e quanto si va ad assaggiare». Ad esempio con gli arancini «vulcanici», detti così perché assemblati anche con il nero di seppia che ne dà un aspetto che rimanda alla lava dell’Etna. Oppure «un pezzo di cioccolato in barca» laddove troviamo contrasti di aromi e sapori che in bocca diventano armonici, ovvero ricci di mare crudi serviti con cioccolato al peperoncino. Ma non serve essere estrosi come Chiaramonte per il viaggiatore goloso in Sicilia, perché è la natura stessa ad essere culla, da sempre, di prodotti spesso fuori spartito dai canoni classici.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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