2023-01-22
La Lagarde ci costa 3,3 miliardi al mese
Il sindacato dei bancari avverte: dopo cinque anni da formiche, il carovita asciuga i conti correnti al ritmo di 3,3 miliardi ogni 30 giorni. E i cittadini corrono a indebitarsi.Tra errori e ideologia la Lagarde alimenta l’incendio. La Bce non ha previsto la malattia e ha sbagliato la cura alzando i tassi. Teorizzando una missione green, che la Fed rifiuta.Lo speciale comprende due articoli.L’inflazione sta mangiando i soldi degli italiani. Quanti esattamente? Circa 20 miliardi di euro (in sei mesi, da giugno a novembre 2022). A dirlo è un’analisi della Fabi, il primo sindacato italiano dei bancari, secondo cui dopo cinque anni di costanti aumenti, nella seconda parte del 2022 il saldo totale dei conti correnti delle famiglie italiane è diminuito di 3,3 miliardi al mese. Gran parte della colpa è da imputare alla scarsità di intervento da parte della Bce che, di fatto, non ha visto arrivare la tempesta inflattiva gestendola solo con un repentino aumento dei tassi. Da agosto a novembre si è registrato, infatti, un calo di 18 miliardi da 1.177 miliardi a 1.159 miliardi, con una riduzione dell’1,5%. Già a giugno, rispetto a maggio, c’era stata una prima diminuzione di 10 miliardi. Come spiega la Fabi, la vistosa inversione di tendenza sulla capacità di accumulo dei correntisti arriva dopo un lungo periodo di incremento dei saldi dei depositi bancari: a fine 2017 l’ammontare complessivo era a quota 967 miliardi, a fine 2018 a quota 990 miliardi (+23 miliardi), a fine 2019 a 1.044 miliardi (+54 miliardi), a fine 2020 a 1.110 miliardi (+66 miliardi) e a fine 2021 a 1.144 miliardi (+34 miliardi). I dati evidenziano quasi cinque anni di risparmi (da dicembre 2017) da «formichine», ma con un preoccupante cambio di rotta nella seconda metà del 2022: i conti degli italiani sono infatti sempre cresciuti negli ultimi quattro anni superando quota 1.000 miliardi, con una tendenza all’accumulo che ha oltrepassato i 212 miliardi di euro (somma del risparmio accumulato dal 2017 al maggio 2022). La variazione annuale è stata, quindi, sempre positiva e con un bilancio totale di 1.044 miliardi a fine 2019, a 1.110 miliardi a fine 2020, a 1.144 miliardi a fine 2021 e a 1.179 miliardi a maggio 2022. Poi, il declino. Se nei primi sette mesi del 2022 la liquidità accumulata dalle famiglie ha quasi sfiorato i 1.180 miliardi di euro, con una crescita - seppur più lenta rispetto al passato - dello 0,9% da inizio anno, i dati dei quattro mesi successivi confermano i timori di un crollo di potere di acquisto che ha costretto gli italiani ad attingere alle loro riserve per far fronte ai maggiori costi. Secondo i dati della Fabi, da luglio a novembre, il totale dei conti correnti è calato di poco meno di 20 miliardi di euro. Il valore complessivo era di 1.178 miliardi di euro a luglio e di 1.159 miliardi di euro a fine novembre, con una riduzione di quasi due punti percentuali (-1,53%), cifra che dimostra come il prezzo della crisi inizi a essere tutto nelle tasche degli italiani.«L’inflazione resterà ancora a livelli particolarmente elevati per i prossimi due anni: un primo calo si registrerà solo alla fine di quest’anno, ma dovremo aspettare il 2025 per veder tornare l’indice dei prezzi al consumo al 2% medio nell’area euro», spiega il segretario generale della Fabi, Lando Maria Sileoni. «Vuol dire che nel 2023 e nel 2024 i prezzi continueranno a salire a un ritmo importante, con evidenti conseguenze negative per tutti gli italiani. La risposta non può essere soltanto l’aumento dei tassi di interesse da parte della Banca centrale europea che, anzi, corre il rischio di diventare un boomerang sul credito», puntualizza. L’inflazione fuori controllo quindi sta purtroppo spingendo gli italiani a indebitarsi sempre più, con un incremento dei prestiti per il consumo e una tenuta dei finanziamenti a scopo personale. Nel complesso, a novembre l’ammontare dei prestiti per entrambe le categorie si è attestato a 256 miliardi, spiega la Fabi, in crescita rispetto a gennaio dello stesso anno (+1,5 %) e superando la tendenza al costante aumento dal 2017, pari all’1,2%. Infine, continua la federazione guidata da Sileoni, l’aumento dei tassi d’interesse, causato dall’incremento del costo del denaro e innalzato dalla Bce al 2,5%, sta portando conseguenze sul mercato dei mutui: con i tassi più alti, sale anche l’importo delle rate e il maggior costo dell’indebitamento potrebbe frenare sia le richieste da parte dei consumatori sia le erogazioni da parte delle banche.Come se non bastasse, poi, l’ossigeno manca anche per le imprese, come testimonia anche il centro studi di Confindustria. Anche in questo caso, a fare da zavorra è il forte rialzo dei tassi che toglie spazio a risorse, investimenti e consumi, colpiti chiaramente anche dall’inflazione.In particolare, a novembre il costo del credito per le imprese italiane non ha smesso di salire a livelli preoccupanti. Nell’undicesimo mese del 2022 era al 3,37% per le pmi, quando a inizio dello scorso anno era all’1,74%. Lo stesso vale per le grandi aziende, il cui costo per finanziarsi è passato dallo 0,75% al 2,67%. A livello trimestrale la variazione negativa è dell’1,7%, valore che fa seguito alla flessione dello 0,6% nel terzo trimestre dell’anno. È insomma la tempesta perfetta: gli ordini continuano a diminuire, le scorte ad aumentare con l’indice pmi (quello basato sui sondaggi ai manager che acquistano i materiali destinati alla produzione industriale) attorno alla parità (da 48,4 a 48,5) e la fiducia delle imprese di nuovo in discesa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-lagarde-ci-costa-33-miliardi-al-mese-2659291849.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="tra-errori-e-ideologia-la-lagarde-alimenta-lincendio" data-post-id="2659291849" data-published-at="1674350146" data-use-pagination="False"> Tra errori e ideologia la Lagarde alimenta l’incendio Da un lato, c’è un clamoroso problema di comunicazione che investe Francoforte. Inutile girarci intorno: ogni volta che Christine Lagarde apre bocca, c’è da tremare, a partire dall’indimenticabile «Non siamo qui per ridurre gli spread, non è compito nostro» di inizio mandato. Dall’altro, c’è un macroscopico problema di decisioni discutibili in sé e per sé: dal rialzo dei tassi alla restrizione degli acquisti di titoli, passando per i connotati molto discrezionali dei futuri programmi di acquisto riferiti a Paesi eventualmente in crisi. A ben vedere, tuttavia, sia la prima che la seconda categoria di errori risalgono - come causa primigenia - a un’ancora più grave manchevolezza di Francoforte: l’aver sbagliato analisi su troppe cose, a partire dalla reiterata quanto sciagurata convinzione del carattere «transitorio» della fiammata della salita inflazionistica iniziata alla fine del 2021. Chi non sa prevederli, ben difficilmente potrà governare i fenomeni: e così la Bce, «leggendo» male la realtà, è riuscita nel doppio miracolo negativo di mancare clamorosamente uno dei suoi obiettivi principali (e cioè il controllo dell’inflazione) e contemporaneamente di sabotare la crescita dell’economia del Continente. E il paradosso è che proprio ora che un qualche avvio di calo nel costo dell’energia dovrebbe portare con sé, come conseguenza, una discesa complessiva dell’inflazione, l’Ue (che è un grande importatore di energia) dovrebbe beneficiare più vistosamente di questo recente trend: e invece le cose non stanno ancora così. Il che evidenzia il fallimento strutturale del mandato della Lagarde. Forse però sbagliamo noi a collocare i termini della questione entro un quadro troppo razionale: fatto di previsioni errate e decisioni discutibili, di analisi non a fuoco e di inevitabili conseguenze negative. Quando invece - c’è da temere - molti degli orientamenti di Francoforte derivano da precise scelte politiche, devastanti nel merito e assolutamente inappropriate nel metodo. Mi riferisco alla recente sortita di Isabel Schnabel, componente del comitato esecutivo della Bce, che si è lanciata nell’avventurosa tesi secondo cui Francoforte non esiterà a rialzare i tassi in nome di un supporto totale alle politiche green e alla relativa transizione. L’11 gennaio scorso La Verità criticò opportunamente, con Giuseppe Liturri, quel comizio fuori luogo, contrapponendo giustamente alla tirata ideologica della Schnabel il ben più saggio intervento del presidente della Fed, Jerome Powell, che richiamò i banchieri centrali a non fare politica. Un grande quotidiano britannico come il Telegraph sparò in prima pagina il sacrosanto monito di Powell, con il titolo «Salvare il pianeta non è il nostro lavoro». Powell richiamava un punto fondamentale: non tocca ai banchieri centrali sostituirsi ai parlamentari democraticamente eletti nel perseguire (abusivamente) un’agenda tutta politica. Nella medesima conferenza, una figura leggendaria come lord Mervyn King, già governatore della Bank of England, supportò pienamente l’approccio di Powell, richiamando i banchieri centrali alla loro indipendenza e alle loro responsabilità e aggiungendo lapidariamente: «C’è una quantità di altra gente che può prendere misure per affrontare il tema climatico. E mi preoccupo che (qui il riferimento non poteva che essere ai banchieri centrali fulminati dalla causa green, ndr) persone prese dall’entusiasmo per fare il bene stiano mettendo a rischio l’indipendenza delle banche centrali». Attenzione: è stato Yi Gang, il governatore centrale di Pechino, a supportare la tesi opposta a quella di Powell e King, sostenendo che «una banca centrale possa fare molto per aiutare la transizione». Capito lo spartiacque geopolitico e geoeconomico? Probabilmente sta qui il cuore del problema: qualcuno a Francoforte ha un disegno, e non si preoccupa se a pagare il conto saranno l’economia e i consumatori europei (magari a beneficio di Pechino). Sarà il caso di iniziare a discuterne, prima che sia troppo tardi.