2021-03-25
La guerra sottomarina degli Usa contro il furto di pesci della Cina
L'intelligence suggerisce di sostenere i Paesi del Sud America per contrastare la pesca di frodo di Pechino. Il Dragone, con le sue reti, non rovina solo l'ecosistema ma estende anche l'influenza su aree sensibiliIl braccio di ferro tra Washington e Pechino avviene anche sulla pesca. Secondo quanto rivelato dal sito Axios, l'intelligence americana avrebbe suggerito alla Casa Bianca di creare una coalizione multilaterale, insieme alle nazioni del Sudamerica, per combattere il fenomeno della pesca illegale cinese. «I Paesi sudamericani probabilmente apprezzerebbero uno sforzo di coalizione per aumentare la pressione commerciale sulla Cina e l'applicazione degli standard di pesca», recita un documento, datato 5 febbraio, dell'Office of intelligence and analysis. A livello generale, il problema della cosiddetta «pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata» non è nuovo ed è stato in passato affrontato da accordi e convenzioni delle Nazioni Unite. Nel 2018, la Fao riportò che la pesca illegale avrebbe un costo annuale di circa 23 miliardi di dollari e riguarderebbe un quinto del pescato a livello complessivo. Tra i danni principali di questa pratica si annoverano problemi ambientali, entrate fiscali in fumo, posti di lavoro persi ed esaurimento di rifornimenti alimentari. In particolare, si tratta di una prassi che riguarda principalmente la Cina (e non soltanto in riferimento alle acque dell'America Latina). Cominciamo col sottolineare che, almeno dal 2013, Pechino consideri altamente strategico il settore della pesca: un settore che riceve pertanto cospicui sussidi dal governo cinese. In questo quadro, la Repubblica popolare possiede una poderosa flotta di pescherecci che, secondo stime riferite dall'Università di Yale, andrebbe dalle 200.000 alle 800.000 imbarcazioni. Ebbene, come riportato - tra gli altri - dalla rivista Foreign Policy, la Cina risulta leader mondiale nella pratica della pesca illegale. Una pratica che, del resto, il Dragone coltiva per conseguire vari obiettivi. Da una parte, si scorgono motivazioni commerciali, a partire dalla volontà di soddisfare il mercato interno, oltre a fette di quello internazionale. Dall'altra parte, è presente anche una dimensione di carattere geopolitico: conducendo un'attività di pesca aggressiva, Pechino rafforza infatti la sua influenza ben oltre le proprie coste, mettendo tra l'altro sotto pressione gli Stati più piccoli e deboli. Le aree maggiormente interessate da questo controverso comportamento sono le Filippine, la Guinea e finanche uno stretto partner della Cina come la Corea del Nord (con conseguenze pesanti sull'approvvigionamento ittico di Pyongyang). Tornando poi al Sudamerica, il problema si sta facendo sempre più urgente tanto che - lo scorso novembre - Cile, Colombia, Ecuador e Perù hanno unito le proprie forze nel tentativo di arginare le razzie ittiche cinesi. Del resto, a luglio, proprio l'Ecuador aveva protestato contro l'attività illecita di circa trecento pescherecci della Repubblica popolare al largo delle Galapagos. E lo Zio Sam che cosa c'entra? C'entra, perché questa pratica illegale lo danneggia sotto svariati punti di vista. In primis, si ritiene - secondo Foreign Policy - che circa un terzo del pesce importato negli Stati Uniti venga pescato illegalmente, violando il Lacey Act: una legge del 1900 che vieta l'import e l'export di prodotti animali ottenuti in modo illecito. In secondo luogo, si riscontrano problemi ambientali e commerciali: la pesca illegale cinese danneggia l'ecosistema oceanico e riduce la fauna ittica a disposizione dei pescatori americani. Senza poi contare le ripercussioni in materia di concorrenza sleale. In terzo luogo, lo abbiamo visto, Pechino usa questa leva anche in termini geopolitici. È quindi in tal senso che già Donald Trump aveva deciso di agire. A maggio, l'allora presidente statunitense siglò infatti un ordine esecutivo per la «promozione della competitività e della crescita economica dei prodotti ittici americani». Un decreto che, tra le altre cose, mirava a «prevenire, scoraggiare ed eliminare la pesca illegale». Tutto questo, mentre - ad agosto - l'allora segretario di Stato americano, Mike Pompeo, si pronunciò criticamente sulle attività illegali di pesca cinesi nelle Galapagos. Qualora Joe Biden dovesse quindi seguire i suggerimenti dell'intelligence sul Sudamerica, non si discosterebbe di fatto dalla linea del predecessore. Anzi, in un certo senso la rafforzerebbe. Innanzitutto, la Casa Bianca inserirebbe questo dossier nel più ampio quadro del suo confronto con Pechino. Un quadro che si articola in vari fronti: dal rispetto dei diritti umani al tentativo di avviare un contenimento in funzione anticinese. D'altronde, appena l'altro ieri, Washington si è schierata con Manila sull'indesiderata presenza di circa 200 pescherecci cinesi in acque filippine, accusando Pechino di intimidazione e violazione della sovranità altrui. In secondo luogo, Biden potrebbe anche approfittarne per tentare di arginare la crescente influenza politico-economica cinese su vari Paesi sudamericani: un'influenza che avviene a suon di investimenti e - soprattutto in Cile e Colombia - diplomazia vaccinale. La «guerra della pesca», insomma, potrebbe presto cominciare.