
Sabina Antonini De Maigret, direttrice della missione archeologica italiana, operativa fino a due anni prima del conflitto: «Oltre 80 cittadelle, fortezze e siti devastati. Responsabili sono i Paesi del Golfo, Al Qaeda e Isis».Il problema della distruzione del patrimonio artistico e archeologico in tempi di guerra non riguarda soltanto Iraq e Siria: lo Yemen, al centro dell'ostilità fra Arabia Saudita e Iran, conta ormai almeno sessanta siti rasi al suolo dai bombardamenti, un numero allarmante e destinato a salire. «All'inizio del conflitto hanno tagliato le gambe agli yemeniti distruggendo siti, scuole, musei archeologici», commenta Sabina Antonini De Maigret, direttrice della Missione Archeologica Italiana In Yemen, operativa fino a due anni prima della guerra. «Questo conflitto, di cui si è parlato poco, nasce da una scissione, anche tribale, tra gli Houthi, una popolazione appoggiata dall'Iran che si trova a Sa'da, al nord al confine con l'Arabia Saudita, e il potere centrale, e piano piano ha coinvolto tutto il Paese. Poi sono intervenute altre forze, perché il presidente ha chiesto aiuto a Riyadh e i Sauditi hanno formato una coalizione, coinvolgendo tutti i Paesi del Golfo, tranne l'Oman, per risolvere la situazione. C'è di mezzo anche Al Qaeda, e l'Isis: è anche una questione religiosa, ma soprattutto è giusto che si sappia che lo Yemen, sia dal punto di vista umanitario che dal punto di vista del patrimonio archeologico e culturale è, se non peggio, ridotto come la Siria. Quali sono i problemi per il patrimonio artistico?«Intanto, le distruzioni. Nel maggio del 2015 la coalizione ha inspiegabilmente distrutto obiettivi che non sono militari. Per esempio, il museo di Dhamar, raso al suolo dai bombardamenti. Oppure Marib, la capitale dei Sabei, e a Baraqish, un'altra città del deserto dove abbiamo lavorato tantissimi anni e in cui abbiamo impiegato tantissime risorse, anche economiche, per gli scavi e il restauro di due templi, che sono stati inspiegabilmente rasi al suolo. La città vecchia di Sana'a è patrimonio dell'Unesco, ci sono 6.000 case, molte distrutte, e circa 3.000 rese inagibili. Ma perché radere al suolo musei e siti archeologici?».A suo parere, perché l'hanno fatto?«Ho una lista fornita dal Goam (General organization for antiquities and museums): i siti archeologici, le cittadelle, le fortezze rovinati sono 62. Alcuni distrutti al 100%, altri danneggiati gravemente. Distrutti sia dalla coalizione che dagli Houthi. Invece, 19 siti sono stati distrutti da Al Qaeda e Isis: si tratta più che altro di mausolei e luoghi di culto prevalentemente islamici. Naturalmente, sono aumentati gli scavi clandestini, perché non c'è più controllo centrale. Nello Yemen ci sono sempre stati scavi clandestini e traffico di opere d'arte. Ci sono zone, per esempio, dove noi lavoravamo, in cui non ci si poteva addentrare tre chilometri oltre il deserto. Sapevamo che c'erano scavi illeciti, addirittura con i bulldozer. Tutte le opere d'arte partono per il Golfo e l'Arabia Saudita. Paradossalmente, le vendono ai loro carnefici». Come è strutturata la missione archeologica italiana in Yemen?«La missione nasce nel 1980, fondata e guidata da Alessandro De Maigret che l'ha condotta fino al 2011, quando è morto. Io sono entrata nella missione nel 1984 e abbiamo lavorato continuativamente fino all'inizio degli anni Novanta, quando c'è stata l'unificazione tra Yemen del Nord e Yemen del Sud. Dopo un'interruzione di due anni per la guerra civile che ne è seguita, abbiamo continuato fino al 2015. Abbiamo fatto anche molta formazione sia sugli scavi, sia con borse di studio per ragazzi yemeniti che poi sono andati ad occupare posti chiave nello Yemen. L'ultima formazione è stata nel 2014: non siamo potuti andare, per cui abbiamo fatto venire loro qui». Da parte del governo c'era volontà di salvaguardare il patrimonio artistico?«Certamente: avevano un'Università in cui fare formazione e non lavoravano solo italiani, ma anche tedeschi e francesi. Lo stesso governo, con il Social fund for development of Yemen, ha finanziato restauri e scavi. Gli yemeniti stessi gestivano scavi archeologici: c'era la facoltà di archeologia e ogni regione ha un piccolo museo. C'era sensibilità e collaborazione, a tutti i livelli. E poi ci sono le tribù locali, che si sentono proprietarie dei siti archeologici, come a Baraqish: è una città dove passava la via carovaniera, e se la contendevano due famiglie locali. Il Goam pagava dodici guardiani, sei per parte. Quindi, anche i siti archeologici avevano i loro guardiani, per evitare che ci fossero scavi clandestini e per tutelare il patrimonio».Come immagina il futuro del Paese?«Non mi rassegno assolutamente: bisogna sempre essere positivi e propositivi. Quello che è stato distrutto al 100% non si può ricostruire, ma ciò che è recuperabile deve essere recuperato. Tutti noi archeologi siamo prontissimi a ritornare e ad aiutare, lo facciamo già da lontano». In che modo?«Sono stati dati dei fondi per inventariare tutto ciò che c'è nei musei archeologici, per comprare infrastrutture, ed è già qualcosa. L'Unesco e alcuni privati hanno dato il necessario per poter acquistare la strumentazione necessaria per fotografare e inventariare tutto e mettere in sicurezza quello che c'è nei musei archeologici. Alla prima riunione a Parigi nella sede dell'Unesco, lo scorso 15 luglio, erano convocate tutte le missioni archeologiche e tutti quelli che si occupavano anche del patrimonio intangibile, come la musica: stiamo parlando del patrimonio culturale, non solo archeologico. Abbiamo fatto molte mostre fotografiche sullo Yemen in Italia e all'estero. E poi conferenze, convegni, noi continuiamo a fare un convegno annuale, ogni anno in una città diversa. Quest'anno sarà a Parigi, a giugno. Quando possiamo, facciamo partecipare anche gli yemeniti. È importante non perdere il patrimonio culturale yemenita: il mio terrore è che si ricostruisca facendo una tabula rasa di quello che era. Lo Yemen è la culla della civiltà araba ed è l'unico Paese la cui cultura antica non si trova in altri Paesi del Golfo. Io sto inventariando tutto l'archivio della missione, l'archivio analogico, gli anni Ottanta e Novanta, perché è quello che rimane adesso di molte cose che sono andate distrutte: è l'unico patrimonio che poi rimarrà e a cui fare riferimento». Perché distruggere i siti archeologici: tabula rasa o iconoclastia?«Noi archeologi abbiamo dato all'Unesco, fin dall'inizio del conflitto, le coordinate di tutti i siti, che sono state passate ai sauditi: parlo di loro perché erano a capo della coalizione. Veder colpiti proprio musei e siti di cui abbiamo fornito loro una lista completa, affinché fossero tutelati, è terribile. Non voglio credere che lo abbiano fatto appositamente, però il dubbio c'è. Bombardare questi simboli fa pensare che effettivamente ci fosse una volontà politica. Le moschee a Sa'da erano antichissime e non si potranno più ricostruire, risalgono agli albori dell'Islam». L'Onu ha lanciato un allarme per le condizioni in cui è costretta a vivere la popolazione.«La crisi umanitaria non è da poco e deve essere sottolineata: la popolazione è ridotta allo stremo. Le guerre ci sono, però la vita va avanti: l'importante è dare una speranza agli yemeniti e dire che siamo loro accanto e che li aiutiamo».
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