
Le fiabe, come i sogni, non fanno altro che mostrarci le semplici verità della condizione umana, che ignoriamo perché scomode. Leggere oggi grandi autori come La Fontaine serve a ricordarci di tenere i piedi per terra e di proteggere la nostra identità.Servono ancora le favole, quelle curiose storie dove animali, uomini, piante e a volte perfino personaggi divini o quasi combinano e dicono cose inaspettate e sorprendenti? E soprattutto a cosa si deve il fatto che i popoli continuino a raccontarsele e ad ascoltarle fin dal VI secolo prima di Cristo, con modeste variazioni dalle versioni più antiche, ormai risalenti a più di 2.600 anni fa? Ci può aiutare a capirlo, ad esempio, l'ultima edizione di una scelta di fiabe di Jean de La Fontaine, che nel Seicento aveva messo in rima episodi spesso già narrati dal latino Fedro e dal poeta greco Esopo prima di lui (Jean de La Fontaine, Marc Chagall, Favole a colori, traduzione di Maria Vidale, Donzelli editore). Storie brevi, narrate o sceneggiate per secoli nelle veglie serali, o nelle merende o giochi pomeridiani. Tutte tramandate senza interruzione, mentre si nominavano re e papi, si disfacevano imperi, e si arrivava a scoperte tecniche straordinarie, dalla polvere da sparo a quella della stampa ad altre che (si diceva) avrebbero cambiato il mondo. Il ruolo degli animaliIl popolo, come la borghesia e i nobili, partecipava all'avanzare della storia e godeva della scienza e delle sue meraviglie. Poi però si dilettava nel raccontarsi e ascoltare le antiche fiabe, via via riproposte da poeti e artisti, come appunto Jean de La Fontaine, Charles Perrault, e altri, e ritrovate anche in alcune saghe popolari come quelle raccolte nell'Ottocento dai fratelli Grimm e altri studiosi. Perfino i mass media della modernità pescarono nelle fiabe per trovare i principali caratteri delle loro storie, e ancora lo fanno. In fondo Gambadilegno, il cattivo di Walt Disney, pur acciaccato dalle derive buoniste, è ancora il vecchio lupo imbroglione di tante fiabe millenarie, e Clarabella è sempre una mucca un po' pazza...Ancora oggi le grandi produzioni modellano i loro personaggi sui tipi psicologici delle fiabe e le loro massime. Per esempio: «No! Provare no! Fare o non fare! Non c'è provare!», la celebre frase di Yoda, autorevole Gran Maestro dalle orecchie a punta dell'Ordine Jedi, incaricato dell'istruzione di Luke Skywalker nel film L'Impero colpisce ancora, ha la tipica atmosfera didattica delle fiabe di formazione. Una delle caratteristiche delle fiabe che hanno suscitato maggiore diffidenza nella cultura razionalizzante della modernità è la presenza contemporanea di uomini e animali e il fatto che parlino tra loro come niente fosse. Quale sarà mai la ragione di questa stranezza? La risposta, soprattutto dopo l'utilizzo delle fiabe fatto da Walt Disney e l'industria del fumetto, è stata: per far divertire i bambini. L'obiettivo delle fiabe, però, la cui diffusione fu appoggiata dai gruppi dirigenti di ogni epoca, non fu mai quello. Il bambino e i suoi diritti sono stati «scoperti» solo nel'Ottocento. Il fatto è che l'animale è un aspetto antico e non eliminabile dell'uomo, la cui comprensione è tuttavia indispensabile allo sviluppo umano. In particolare l'animale è la parte depositaria degli aspetti vitali più legati agli istinti. Vale a dire quelle azioni che l'uomo non deve apprendere da altri, ma sa già fin dalla nascita quando, come e perché compiere: alla fine dell'Ottocento Sigmund Freud li chiamerà pulsioni. Si tratta però di un bagaglio di nozioni e comportamenti che nell'essere umano (che in compenso ha un grande cervello) è meno sviluppato, mentre nell'animale è lì da sempre: basta guardarlo, ascoltarlo e ce lo insegna. Per questo le fiabe ce lo mostrano. Anche se non sempre, pure nelle fiabe, gli animali sono saggi: non sono esenti da nevrosi e prendono le loro cantonate. Ma vedendole negli animali diventiamo più capaci di riconoscerle in noi stessi. Come appunto ci racconta Fedro, il più grande favolista latino e inarrivabile psicologo: «Zeus ci mise addosso due sacche. Dietro alla schiena (dove non vediamo, ndr) quella dei nostri vizi. Davanti al petto quella degli altri». Anche da qui l'utilità delle fiabe dove, vedendo i nostri errori rappresentati negli animali, forse riusciamo a riconoscerli meglio e a convincerci ad abbandonarli.Le favole, infatti, vogliono insegnarci qualcosa. I loro lontani autori, il greco Esopo e il latino Fedro, erano schiavi che della vita ne sapevano più di tanti filosofi. I loro padroni li resero liberi proprio per premiare la loro capacità di raccontare i vizi umani, consentendo alle persone di riconoscerli e liberarsene e favorire così un migliore ordine nella società. L'origine della fiaba, in Occidente come altrove, è di natura morale: si tratta di veloci riti di iniziazione. O, visti dal punto di vista della psicologia contemporanea, di «terapie brevi» capaci di farti riconoscere i tuoi errori e «complessi», e correggerli rapidamente. Il loro scopo principale è quello di tutta la filosofia morale realista, cui da sempre appartengono: mostrare il «mondo della vita, dell'esperienza, della storia» della relazione tra le persone, di cui parla, ad esempio, il filosofo morale Francesco Botturi nei suoi lavori, contrapponendolo al nichilismo, all'emotivismo, al prescrittivismo, tutte modalità distanti dalla realtà come è. Nella fiaba invece, senza tirare in ballo principi ideologici astratti, la verità è intuitivamente evidente e subito percepita. Ad esempio nella famosa La volpe e l'uva (narrata da Esopo e ripresa da Fedro e La Fontaine) la volpe dopo aver inutilmente cercato in ogni modo di prendere l'uva, più in alto sopra di lei, se ne va, e per darsi un contegno e consolarsi dice che era troppo acerba. (Come raccontò la Fiat quando non riuscì a comprarsi la General Motors). Già Esopo aveva notato che è per intrinseca debolezza che la volpe, pur immagine dell'astuzia, si pone obiettivi che non è in grado di raggiungere, e poi, invece di riconoscerlo, maschera lo scacco con la frottola dell'uva troppo acerba. La sua non è una vera forza. Che invece richiederebbe, come ricordano sempre le «morali» in fondo alle fiabe, di riconoscere il proprio limite personale, sempre narrato dal seguito della storia. Riconoscere il limite illustrato dalle fiabe è il modo migliore per stare bene ed essere felici, anche perché ci convince ad accettare le nostre differenze dagli altri. La grande difficoltà della vita è infatti proprio lì: reggere la fatica di non essere «come gli altri» (o come noi ce li immaginiamo), di essere un cigno e non un anatroccolo (come il protagonista scopre nella fiaba di Andersen) o viceversa (come in tante altre). Le nostre forze, invece, si sviluppano appunto prendendo le cose come stanno e partendo dalla situazione come è, senza raccontarcene un'altra. Questa è la morale, di tipo stoico, della fiaba in Occidente, ma anche in quelle del resto del mondo. Lezioni di vitaInutile fare i furbi. Le due serve che per dormire un po' di più tirano il collo al gallo che dà la sveglia al mattino, lo rimpiangeranno dopo, quando verranno svegliate ancora prima dalla padrona che, senza più il segnale naturale del gallo, ora vuole cominciare in piena notte le pulizie, sua grande passione. E il piccolo topo che si impermalosisce per l'attenzione che il popolo presta al grande elefante pieno di baldacchini (perfetta immagine della psicologia delle manifestazioni anti Trump), si distrae e non bada all'arrivo del gatto, che se lo mangia in un boccone (chi sarà poi il nostro gatto, lo vedremo). Occorre invece, raccomanda La Fontaine con i grandi favolisti, essere fedeli e attenti alla propria identità, natura e collocazione nel mondo.Le fiabe, come i sogni, non fanno altro che mostrarci le semplici verità della condizione umana, che ignoriamo perché scomode e critiche verso gli aspetti vanitosi e superficiali dai quali l'Io è continuamente tentato e sedotto. Questi animali a metà tra (detto in psicanalese) le pulsioni e i nostri tratti caratteriali, sono le nostre potenziali forze, che vanno riconosciute e educate. Non saranno «grandiose», ma ci possono fare compagnia, e nutrire. Meglio essere una gallina qualsiasi oggi, che non trovare nessun uovo a colazione domani.
Giancarlo Tancredi (Ansa)
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