
Per realizzare le vetture elettriche servono metà dei componenti di quelle a benzina. Con ricadute tragiche in termini occupazionali. Che Berlino compenserà con il Recovery fund, mentre il nostro comparto è già stato smantellato. E oggi avremmo ben altre priorità.«Vedo l'Unione europea come la nostra assicurazione sulla vita», affermava testualmente la Cancelliera Angela Merkel in un'intervista al Financial Times un anno fa; a un mese di distanza dallo scoppio della pandemia. «La Germania è troppo piccola per esercitare da sola un'influenza geopolitica, ed è per questo che dobbiamo sfruttare tutti i vantaggi del mercato unico». Missione compiuta, verrebbe da dire. Da sempre chi governa la Germania ha infatti dimostrato di avere due grandi doti: (1) riconoscere le priorità della propria economia (2) condividere i rischi e i costi di ogni decisione con gli altri condomini europei, trattenendo per sé i vantaggi. La perfetta declinazione della massima di Indro Montanelli: «Quando si farà l'Europa unita i tedeschi ci entreranno da tedeschi, i francesi da francesi e gli italiani da europei». Ne è un plastico esempio tutto ciò che si cela dietro la cosiddetta «transizione verde», che ovviamente deve essere l'architrave del piano di «recupero e resilienza» di ciascun Paese europeo. Vi siete mai chiesti da dove nasca la fissazione tutta europea per ciò che è verde? La salvezza del pianeta? Diciamo prima di tutto l'industria tedesca, prendiamola più stretta che è meglio.È la priorità nell'agenda economica e industriale di Berlino, azionista di controllo del progetto europeo. Si stima infatti che un'auto a benzina o a gasolio sia composta da 30.000 pezzi diversi. Che si riducono del 50 per cento circa nel caso di un'auto elettrica. Che poi questa salvi il nostro pianeta dall'inquinamento è tutto da dimostrare, sia chiaro. «Una batteria della Tesla appena prodotta è già “costata" 17,5 tonnellate di diossido di carbonio. Quanto emette una normalissima auto alimentata a carburante in otto anni di vita», scriveva già tre anni fa il nostro Riccardo Ruggeri. Uno che di settore automobilistico se ne intende prima ancora che di case editrici, avendo guidato in prima persona la riorganizzazione e il rilancio del gruppo Case New Holland su scala mondiale. Ma la riduzione del numero dei componenti e semplificazione del prodotto auto porta naturalmente con sé pesanti riduzioni sul piano occupazionale. Cosa che ormai non preoccupa più il nostro Paese visto che ha scientemente optato per la deindustrializzazione selvaggia nel settore. Nel 1989 - con la Fiat guidata da Cesare Romiti - l'Italia produceva oltre 2,2 milioni di autoveicoli in un anno. Oggi siamo scesi esattamente del 50 per cento e Fca (Fiat Chrysler automobiles) si occupa anche di auto elettriche ma lontano da qua, visto che due giorni fa ha annunciato l'investimento di 2 miliardi di euro nel suo stabilimento a Tychy, in Polonia, dove si produrranno nuovi modelli ovviamente «green» ibridi ed elettrici. Auto moderne, ibride ed elettriche a marchio Jeep, Fiat ed Alfa Romeo inizieranno a uscire dalla fabbrica di Tychy nel 2022. Il tutto in un Paese che non ha l'euro e che secondo il mantra del Pd aiuterebbe ad attrarre gli investimenti produttivi, ma evidentemente anche no. A tutti questi Paesi la transizione verde interessa eccome.Si stima ad esempio che in Giappone le persone che lavorano nel settore automobilistico siano 910.000, di cui circa 690.000 nella componentistica. Questo significa che in Giappone i posti a rischio nel comparto sarebbero 200.000. In Germania addirittura 400.000. Noi ovviamente essendoci portati avanti con il lavoro di distruzione della nostra industria automobilistica non possiamo più preoccuparci di salvarla. Ma la «polizza vita» di cui parlava la Merkel un anno fa a qualcosa serve. Soldi - quelli che il programma Next generation Eu mette a disposizione per la transizione verde - che serviranno a gestire le normali ricadute occupazionali con la conversione all'elettrico. Cosa che del resto la Germania ha già scientemente dimostrato di saper fare nei primi anni Duemila con la riforma Hartz del mercato del lavoro. Serviva abbassare la disoccupazione, allora pari al 12%. Berlino era il malato del Continente. Servivano sussidi statali per incoraggiare i disoccupati ad aprire una partita Iva, anche solo per fare piccoli lavoretti. I cosiddetti minijob, 600 euro al mese il primo anno. E un po' meno nei due anni successivi. E nessun altro contributo previdenziale per quelle aziende che si servivano di questi particolari lavoratori. E soprattutto nessuno che rompesse le scatole alla Germania con procedure d'infrazione per debiti eccessivi, visto che già allora Berlino sforava i parametri del deficit. Ma a questo serviva l'assicurazione sulla vita. O no? Sì certo, l'Italia dovrebbe pure lei salvare il suo ambiente. Ci sarebbe da occuparsi del dissesto idrogeologico che ci affligge. Non appena viene un temporale viene giù un ponte. Ma dobbiamo occuparci di altro e nel frattempo aspettare che la Germania abbia finito di sistemare il suo settore automobilistico e magari sperare che pure loro abbiano a quel punto messo in cima alla loro agenda il dissesto idrogeologico. E a quel punto salterà fuori da noi un Matteo Renzi qualsiasi. Quello il cui partito nel 2016 bello «orgoglione» tuonava: «Le nostre battaglie in Ue non erano per l'interesse dell'Italia, ma perché ritenevamo fossero interesse dell'Europa».
Jose Mourinho (Getty Images)
Con l’esonero dal Fenerbahce, si è chiusa la sua parentesi da «Special One». Ma come in ogni suo divorzio calcistico, ha incassato una ricca buonuscita. In campo era un fiasco, in panchina un asso. Amava avere molti nemici. Anche se uno tentò di accoltellarlo.