2019-02-14
La figlia della Dandini paladina del gender con il documentario prodotto dalla Rai
Adele Tulli va al festival di Berlino con Normal e spara contro il ddl Pillon: «Sostenuto da movimenti inquietanti».Il 2018 si è concluso con il grande ritorno in Rai di Serena Dandini. Nel remake dello storico programma La tv delle ragazze, la conduttrice ha saputo regalare emozioni, ad esempio quelle suscitate dal monologo in cui Angela Finocchiaro, agghindata da fatina, spiegava alle bambine che «i maschi son tutti pezzi di merda». Altissimi livelli, dunque. Fortunatamente, il 2019 è in grado di donarci opere d'arte altrettanto emozionanti, per le quali dobbiamo ringraziare nuovamente la famiglia Dandini. Non Serena, questa volta, bensì sua figlia, ovvero Adele Tulli, classe 1982, professione regista. La ragazza ha un curriculum di tutto rispetto. Si è dedicata ai South Asian Studies presso la Cambridge University, poi ha studiato Screen Documentary alla Goldsmiths University di Londra, quindi ha conseguito un dottorato alla Roehampton University. Niente male davvero, sono titoli all'altezza del blasone. Del resto, è noto, i Dandini fanno parte della nobiltà romana (Serena è figlia del conte Ferdinando Dandini De Sylva). Ma non divaghiamo e restiamo sulla giovane Adele. Nei giorni scorsi ha presentato al prestigioso festival del cinema di Berlino, nella sezione Panorama, il suo nuovo film. È un documentario e si intitola Normal. Sul sito di Cinecittà apprendiamo che è «un viaggio negli stereotipi di genere, nella complessità di una società come quella italiana, sospesa tra tradizioni patriarcali e liberatorie rotture di schemi». Dopo tutto, in questo Paese «attraverso l'infanzia e l'adolescenza e fino all'età adulta siamo “educati" ad essere maschi e femmine “come si deve"». Già, il docufilm di Adele si cimenta con gli stereotipi di genere. «Sono temi di cui mi occupo da prima di arrivare all'audiovisivo», ha detto la regista in un'intervista. «Non solo a livello di studio, ma anche di attivismo politico nei movimenti femministi e Lgbt. Nel 2015, quando ho iniziato la mia ricerca, questa parola, “normal", normale, naturale, tradizionale era molto presente nel dibattito pubblico. Così volevo riflettere sulle convenzioni e le norme di genere che ci formano e influiscono sul nostro agire quotidiano». L'obiettivo di Normal sarebbe quello di «suscitare una riflessione sulle complesse dinamiche sociali attraverso cui costruiamo e abitiamo le nostre identità di genere». Secondo la Tulli, «ogni Paese ha la sua specificità socioculturale e l'Italia è un laboratorio. Siamo diventati famosi per episodi imbarazzanti come quello del bunga bunga e pensavamo di aver toccato il fondo. Essendo italiana so relazionarmi alle dinamiche socioculturali che mi circondano». Le tematiche Lgbt sono molto care all'arrembante regista. Nel film 365 Without 377 ha raccontato la vita degli omosessuali in India. Poi si è dedicata «all'invecchiamento femminile e all'invisibilità della donna post-menopausa. Un altro tabù» (il documentario in questione, del 2014, si intitolava Rebel Menopause, cioè Menopausa ribelle). Insomma, avrete capito che siamo di fronte a un'artista molto impegnata politicamente. Lo ha rivendicato più volte: «A Roma facevo parte di alcuni gruppi femministi, mi interessavano le lotte e le rivendicazioni delle donne e le politiche Lgbt». E anche oggi, quando le chiedono commenti politici, non si risparmia. Per esempio, durante una recentissima intervista per il sito di Cinecittà, le hanno chiesto che cosa pensasse del ddl Pillon sull'affido condiviso. Ecco la risposta: «Quando ho cominciato a fare questa ricerca c'era l'onda di movimenti genderfobici che cominciava a circolare molto, ma sembrava espressione di una parte minoritaria del mondo cattolico. Invece adesso sta diventando inquietante, sono questi movimenti ad aver sostenuto il ddl in Parlamento». In un'altra occasione, presentando Normal, Adele ha spiegato che «il genere oggi è un campo di battaglia: mentre il popolo del Family Day affolla le piazze contro lo spettro del gender, violenze, discriminazioni e disuguaglianze sulla base di genere e orientamento sessuale riempiono drammaticamente le statistiche e i giornali. E la normatività dei ruoli di genere esercita ancora un enorme potere sull'espressione individuale delle persone e sulle loro interazioni e relazioni». Quanto a idee politiche, pare, la figlia non è troppo distante dalla madre. Le due hanno almeno un'altra caratteristica in comune, ovvero il rapporto con la Rai. Dovete sapere, infatti, che il film di Adele Tulli sugli stereotipi di genere è prodotto, tra gli altri, da Rai Cinema. Non solo: alla produzione ha partecipato anche Istituto Luce Cinecittà, altra società pubblica che dipende dal ministero dei Beni culturali e dal ministero dell'Economia. La stessa società si occupa anche della distribuzione e dell'ufficio stampa della pellicola. In buona sostanza, all'opera hanno contribuito anche le istituzioni pubbliche, finanziate pure da quei bigotti che alla Tulli proprio non vanno giù. In fondo è la regola, almeno in Italia: i film giusti realizzati dai registi giusti ottengono sempre il giusto sostegno. Che volete farci: è la normalità. Cioè quella che ad Adele Tulli non piace (ma solo quando riguarda i «ruoli» di maschi e femmine).