2025-03-18
«La fake news più grande in Rete... è quella sulle fake news in Rete»
Il ricercatore dell’Università di Trento Alberto Acerbi: «I media e la politica amplificano esageratamente il peso che le teorie del complotto hanno sulle persone. La disinformazione on line non è così abbondante, creare panico è inutile»Quando ho avuto in mano il saggio di Alberto Acerbi per Il Mulino, Tecnopanico, mi sono detto: «Ecco un altro profeta di sventura, l’ennesimo Savonarola che ci ricorda i pericoli e i danni dello sviluppo tecnologico». Invece Acerbi inverte il paradigma: no panic. Classe 1976, milanese nato a Lacchiarella, Acerbi è ricercatore nel Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento. Appassionato di filosofia, ha messo a frutto i suoi studi tra Siena e Lipsia nel campo dell’antropologia cognitiva. Per Oxford University Press ha pubblicato nel 2020 Cultural evolution in the digital age.Qual è stato il suo punto di partenza?«Empirico. Ho rilevato il moltiplicarsi dei timori legati alle recenti tecnologie di comunicazione digitale: diffusione di fake news, teorie del complotto, influenza degli algoritmi su scelte e comportamenti, impatto di smartphone e social media sulla salute non solo mentale di adolescenti e giovani, e così via. Mi sono chiesto: quanti di essi sono effettivamente fondati?».Da cui il sottotitolo del suo libro: Media digitali, tra ragionevoli cautele e paure ingiustificate. Tradotto: allarme sì, allarmismo no.«Le faccio un esempio. Nel settembre 2022 gli inserti «Salute» di Repubblica e del Corriere della Sera hanno ospitato due contributi pressoché identici. Titolo del primo: L’esposizione alla luce blu e il rischio di pubertà precoce. Titolo del secondo: L’uso eccessivo dello smartphone può aumentare il rischio di pubertà precoce. A quel punto uno si dice: non bastavano depressione, sbalzi d’umore, perdita del sonno, adesso c’è pure la pubertà anticipata ad angosciare genitori ed educatori?».In effetti appaiono abbastanza ansiogeni.«Peccato, e per fortuna, che facendo un giro in Rete si trovava la fonte da cui si arrivava alle citate conclusioni: uno studio effettuato su topi di laboratorio. 18, per la precisione. Divisi in tre gruppi da sei, due esposti alla luce blu per un certo numero di ore al giorno, il terzo no».La luce blu è quella delle frequenze prodotte dagli smartphone.«E da tutti i dispositivi Lcd e Led: tablet, Pc e le smart tv a schermo piatto. Tornando ai topi: in effetti nei primi due gruppi la pubertà si è manifestata un po’ prima rispetto al terzo. Ma so what?, commenterebbero gli inglesi. E infatti Amy Orben, una psicologa che si occupa della relazione tra utilizzo dei social media e salute mentale, soprattutto negli adolescenti, ha rilevato: “Questo studio sui topi di laboratorio ci dice poco o nulla su quello che potrebbe accadere nei bambini”». Cioè: la luce blu potrebbe influenzare gli ormoni che regolano la pubertà, in realtà non ne sappiamo abbastanza.«Diciamo che presentare al pubblico come conclamati i risultati di una ricerca certamente interessante, ma di sicuro molto preliminare, che non riguardava gli umani e solo indirettamente gli smartphone, è la spia di un atteggiamento generale che dovrebbe metterci in guardia tanto quanto i fenomeni nei cui confronti intende, scusate il gioco di parole, metterci in guardia».Lei non nasce esperto di tecnologie.«No. Il mio ambito di studi riguarda l’evoluzione culturale. Come mai alcune idee, abitudini, tecnologie diventano popolari, e altre no? Quali sono i meccanismi che ci mettono in grado di trasmetterci informazioni gli uni con gli altri? Quanto ci influenzano? Da lì a occuparmi degli effetti delle tecnologie digitali il passo è stato breve». Nel suo libro lei individua il punto di svolta sull’argomento in tre eventi relativamente recenti, che sembrano però già datati: il referendum sulla Brexit e la prima elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, nel 2016. E lo «scandalo» (le virgolette sono le sue) di Cambridge Analytica nel 2018. «Improvvisamente, le preoccupazioni sui (pretesi) effetti pericolosi della nostra vita “iperconnessa” e per il diffondersi delle fake news, insieme ai vari complottismi, sono diventate pane quotidiano dell’informazione, oggetto di uno storytelling improntato molto spesso a un’enfasi negativa». Immotivata e infondata?«Non sono partito da una posizione preconcetta. Sono un ricercatore, non sono animato da pregiudizi. Ci si documenta e si verifica. Diciamo che il mio studio, basato sui metodi utilizzati nelle scienze naturali (esperimenti, analisi di dati, modelli statistici e matematici), è approdato a questa conclusione: l’immagine “apocalittica” che ci viene quasi sempre offerta presenta lacune importanti». Per esempio sulla disinformazione online.«In realtà non è così abbondante. Di conseguenza l’interpretazione dei suoi possibili effetti è più complicata di quanto molti pensano. Teorie del complotto: non pare siano più diffuse oggi che nel passato. Come per la disinformazione, è plausibile che la loro (relativa) popolarità sia più un sintomo che una causa di problemi sociali più profondi. Echo chambers (le chat in cui la pensiamo tutti alla stessa maniera, e non siamo esposti a informazioni contrarie) e algoritmi: davvero hanno reso più “faziosa” la società contemporanea, rendendo impossibile discutere con l’altra parte? Inserzioni mirate su Facebook possono cambiare sul serio il risultato di un’elezione?».Che c’entra in tutto questo il celebre scherzo di Orson Welles, che nel 1938 annunciò - interrompendo la programmazione radiofonica della Cbs - lo sbarco degli alieni nel New Jersey?«È ricordato per aver generato un panico diffuso. Popolazione in fuga, suicidi, il New York Times parlò di “un’ondata di isteria di massa”, il Washington Post titolò I marziani terrorizzano gli Stati Uniti. Poi però si scoprì che i sei milioni di ascoltatori, e il milione di essi impanicato e in fuga, erano numeri gonfiati. E lettere che “inondarono” i giornali arrivarono sì, ma dopo che gli stessi giornali avevano enfatizzato la notizia. Quelle in cui gli scriventi confessavano di aver creduto che l’invasione fosse vera, o di aver reagito di conseguenza, si contano sulle dita delle mani».Un doppio esempio di fake news: niente ominidi verdi, niente reazioni collettive, più strombazzate che reali. Però il mito è duro a morire.«Nel 2022 Barack Obama ha intitolato un suo intervento all’Università di Stanford La disinformazione è una minaccia per la nostra democrazia. A Mark Twain viene erroneamente attribuita la frase: “Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo, mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe”. Un’idea che si è fatta luogo comune, verità manifesta, grazie anche ai media tradizionali che hanno contribuito con zelo al suo radicamento. Il Corriere della Sera, nel 2018: Le fake news si diffondono sei volte più velocemente delle notizie vere. Il Sole 24 Ore, un anno dopo: Come nasce una fake news (e perché viene cliccata più di quelle vere). Risultato? Paradossalmente, la tesi per cui la disinformazione online abbia un vantaggio, intrinseco, rispetto all’informazione veridica è essa stessa un buon esempio di fake news (o di notizia quanto meno dubbia) di grande successo». «Se ci viene continuamente ripetuto che “Internet è pieno di informazioni false” finiremo sì per essere più scettici, ma con il rischio di smettere di credere anche alle notizie vere!», parole sue.«Non solo. L’idea che la disinformazione sia alla radice dei comportamenti limita le responsabilità dei singoli. E una ricerca approfondita delle cause di un determinato fenomeno».Il che ci porta alle nostre reazioni alla Brexit e al trionfo di Trump su Hillary Clinton nel 2016. Ho appena visto il film documentario realizzato dal premio Oscar Michael Moore in proposito: tutto lasciava presagire una passeggiata per i democratici, sondaggi e opinionisti erano dalla loro, ma poi arrivò la realtà delle urne, e lo spiazzamento fu totale. E Moore, che è un democratico tendenza Bernie Sanders, ricorda di aver segnalato anzitempo ai dem il pericolo di una sottovalutazione del disagio dell’America più profonda, e dello stesso Trump.«Per dirla in linguaggio non scientifico. Quando i risultati di un’elezione non soddisfano le nostre aspettative, il riflesso condizionato di alcuni è: non è possibile, deve esserci qualcosa dietro, una truffa, un imbroglio, una manipolazione, insomma una causa esogena. Consolatoria: abbiamo perso, ma non per colpa nostra». Oggi i social media sono sempre più considerati strumenti di propaganda e repressione, controllati da Stati e corporazioni.«Sì, eppure i regimi autoritari continuano ad avere paura di Internet. In sette anni, dal 2015 al 2022, sono state registrate 935 interruzioni forzate di Internet in 60 Paesi». Lei chiude il suo libro con l’invito a trasformarci da «utenti» passivi (nel mio piccolo, li ho ribattezzati «utonti") in «agenti».«Con un’avvertenza: non concludo con la ricetta infallibile su come utilizzare le tecnologie digitali per migliorare noi stessi o il mondo. Spero di essere riuscito a fornire una chiave di lettura, documentata ed equilibrata, di una realtà sicuramente complessa che va affrontata per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse».
Julio Velasco e Alessia Orro (Ansa)
Rod Dreher (Getty Images)