2023-05-14
La democrazia di Fazio? «Okkupare» la Rai
Dopo anni di prediche a suon di buonismo militante, lo showman, in fuga verso Nove, fa la vittima. Col giro di vite, la tv di Stato si libera pure della Littizzetto. In bilico Damilano e Annunziata. Domani cda sulla nomina di Sergio, appesa all’accordo destra-M5s.Arrivò il giorno delle lacrime di coccodrillo. Dopo 20 anni di omelie progressiste a senso unico profumatamente pagate dal canone degli italiani, Fabio Fazio rischia davvero l’Addio monti manzoniano dalla Rai. Il suo contratto scade a fine giugno e lui, come da copione, ha cominciato per tempo ad allarmarsi per «lo stato della democrazia», a dolersi per «la Rai strangolata dai partiti», a impuntarsi perché «se non mi vogliono più me lo dicano». Uscite a orologeria che il fratacchione dem ha centellinato per due decenni ogniqualvolta voleva un aumento, voleva passare da Rai 3 a Rai 1, voleva direttori più servili attorno a sé. Questa volta nessuno se lo sta filando. Ad oggi non gli è stato proposto il rinnovo e sarebbe strano che accadesse: è difficile che un azionista sia così masochista da spendere 12,5 milioni all’anno (1,9 il compenso del conduttore unico delle coscienze più 10,6 milioni alla società Officina che confeziona a scatola chiusa Che tempo che fa), per farsi prendere ogni domenica sera a calci nei denti.Così lo sdolcinato showman, soprannominato Faziosino nei corridoi di viale Mazzini, minaccia di traslocare su Nove, e la prossima stagione potrebbe davvero scendere di categoria sulla pulsantiera del telecomando per raggiungere Maurizio Crozza. Il centrodestra voleva già liquidarlo dopo le elezioni del 2018 (in collaborazione con il Movimento 5 stelle che non lo ama) ma per due volte era scattata la trappola del Nazareno: rinnovi contrattuali dell’ultima ora per blindarlo con la benedizione del Quirinale, arrivati dalle maggioranze uscenti o ridisegnate in corsa, prima grazie a Mario Orfeo, poi a Fabrizio Salini. Quest’ultimo arrivò a togliere il programma dalla responsabilità degli Approfondimenti per metterlo sotto l’ala protettiva di Rai Cultura, storicamente guidata dai Franceschini boys. Questa volta il blitz non è riuscito perché Carlo Fuortes era all’angolo, troppo debole anche per prendere la Montblanc e firmare al buio il cadeau a futura memoria. In una situazione molto simile si trovano Marco Damilano e Lucia Annunziata, altri due eroi del giornalismo avvolto nella bandiera rossa con stemma woke. Non a caso la settimana scorsa proprio la troika si era impegnata in un ensemble corale per difendere Fuortes in uscita e denunciare la lottizzazione, questa sconosciuta (risata). A beneficio di chi oggi parla di okkupazione sovranista - il 90% dei giornalisti Rai rimane orgogliosamente di sinistra -, l’ex direttore de L’Espresso fu ingaggiato a gettone l’agosto scorso con lo scopo dichiarato di combattere la battaglia elettorale. E nello stesso periodo la zarina di Rai 3 annullò il trasferimento in Ucraina per coordinare gli inviati di guerra; era più importante scavare la trincea nazionale per opporsi all’onda meloniana in arrivo. Educare gli elettori per loro è servizio pubblico.Tutto sarà più chiaro domani, dopo il cda che dovrebbe sancire la nomina di Roberto Sergio a nuovo amministratore delegato. Il voto è tutt’altro che scontato. I consiglieri Simona Agnes (Forza Italia) e Igor De Biasio (Lega) sono favorevoli mentre Francesca Bria (Pd) è contraria. Riccardo Laganà (in teoria dipendenti, di fatto Usigrai) potrebbe astenersi come ha fatto in passato mentre Alessandro Di Majo (Movimento 5 stelle) è ancora incerto; tutto dipende dall’accordo della maggioranza con Giuseppe Conte per una direzione di peso all’ex direttore del Tg1 grillino Giuseppe Carboni, probabilmente Rainews o Radio Rai. Rimane la presidente Marinella Soldi, renziana, in una posizione istituzionalmente delicata: se vota no diventa anch’essa incompatibile con l’azionista. Lo spoils system, praticato a nastro negli ultimi 20 anni dalla sinistra, funziona così.Con Fazio è in uscita un’altra «insopportabile», Luciana Littizzetto (800.000 euro l’anno), dal 2005 nostra signora del fazismo, spalla dall’ironia rafferma di ogni battaglia conformista del presentatore che cominciò negli anni Ottanta come comico di Loretta Goggi per diventare passo dopo passo guru del buonismo mediatico militante. A lui Silvio Berlusconi rubò il nome del partito cardine della Seconda Repubblica: Forza Italia era il titolo dello show su Odeon Tv del sosia del dittatore siriano Bashar Al Assad. Oltre ai piagnistei in scadenza di contratto, di lui ricorderemo le interviste sdraiate ad Emmanuel Macron e a papa Francesco, la passerella concessa ad ogni sgangherato campione Occupy qualcosa (da Carola Rackete alle sardine, agli imbrattatori di monumenti) e il surreale Cantico dei Cantici durante la pandemia. Con l’Italia terrorizzata in lockdown, Fazio riuscì nell’impresa di individuare il lato lirico del Covid: «Tornano i pesci nella laguna di Venezia, gli uccelli nelle città fanno i nidi sui grattacieli, si riduce drasticamente l’inquinamento nel Punjab. Non è una cosa da poco». Mainstream a sprezzo del ridicolo. Dimenticarselo all’ultimo tasto del telecomando sarà bellissimo.
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