2021-05-15
La cucina italiana stravolta dagli chef in tv
Impongono il loro pensiero, condito da numerosi nonsense. Sono i neofuturisti del piatto: assemblano cibi cotti sottovuoto, ingredienti vaporizzati, destrutturati, bassotemperaturizzati, miniaturizzati, emulsionati. Dimenticando le nostre tradizioniDove va la cucina italiana contemporanea? Domanda da un milione di euro. Lasciamo la risposta allo Stregatto di Alice che alla richiesta della ragazzina («Come si esce da qui?»), canticchia: «A destra e a manca va/ di qua, di su, di giù, di là/ la luna sorge all’olimon/ e i palmipedon neppur». Traduco e adatto il felino pensiero alla cucina italiana contemporanea: va in tutte le direzioni e condita con parecchi nonsense. La cucina, oggigiorno, s’identifica troppo con gli opinion cooks, i cuochi che creano le regole e fanno immagine con il loro codazzo di ossequiosi critici. Invece di chiedere dove va la cucina italiana?, c’è da domandarsi dove vanno le teste dei cooks televisivi. Noi, poveri cronisti del quotidiano, con l’orizzonte limitato, non riusciamo a percepire il filo comune, la ragione storica, la logica della cucina contemporanea. Di quella, almeno, dei master chef che impongono il loro - qualunque sia - pensiero. Secondo il nostro modesto parere i cuochi (non tutti, ma quasi) che bucano in tv o troneggiano sulle vette delle guide convinti di essere alchimisti che possiedono sotto il bianco tocco la pietra filosofale che trasforma in oro la carota, il branzino, lo scamone. La cucina regionale, tipica di un territorio, che da Pellegrino Artusi grazie a Dio prospera ancora nonostante Masterchef, Top chef, Gordon Ramsey e compagnia bella, non ha bisogno di un navigatore satellitare gastronomico. Dici pesto e sai di essere a Genova; orecchiette con le cime di rapa e ti trovi a Ostuni o ad Alberobello; bollito con pearà e sei seduto in una trattoria di Verona; pasta alla Norma a Catania; linguine allo scarpariello o babà e hai gli occhi pieni di Vesuvio e Partenope. Ma dove ti trovi nel dedalo neogastronomico? A destra verso la molecolare? A manca con la destrutturata? Di su la sifonata? Di giù la nouvelle cousine? Di là bio e vegano? Di qua con la dark kitchen e la cucina virtuale? Ci mancava solo il Covid a proporre nuovi percorsi. Invidiamo i critici che ci capiscono o che, almeno, sono talmente bravi di fingere di capire che sono convinti di capirci davvero. Tutto colpa degli chef televisivi? Ne hanno tanta, ma non tutta. Colpa di quelli che imitano Charlot in Tempi moderni: munito di due chiavi inglesi, dopo l’alienante turno alla catena di montaggio, inchiavarda tutto quello che somiglia a un bullone. Tanti chef contemporanei sono charlottiani: assemblano cibi cotti sottovuoto, ingredienti vaporizzati, destrutturati, bassotemperaturizzati, miniaturizzati, emulsionati, spruzzati di salsapariglia o di altre salse puffesche. Suoni, rumori e odori. Riecco il futurismo. Lo strambo nutriente. Il porcoeccitato. Il carneplastico. La «grande polpetta cilindrica di carne di vitello arrostita ripiena di undici qualità diverse di verdure cotte» del pittore aereofuturista Fillia. Lo «spessore di miele sostenuto da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo». Quello che non riuscì a Filippo Tommaso Marinetti, riesce ai nostri eroi gastrotelevisivi.«Chef, dove va la cucina contemporanea?», chiese qualche anno fa una giornalista a Gualtiero Marchesi, il grande vecchio della cucina italiana. Risposta del maestro: «Prima di tutto mi chiami cuoco, non chef. Secondo poi, la cucina contemporanea non la capisco più. Forse perché non sono in grado di recepire la modernità, pur essendo stato io un innovatore. Secondo me manca il rapporto con la materia. Quando cucino io devo toccare la materia, plasmarla». Andrea Gori, bravo sommelier, ricercatore e scrittore piacevole sul wine blog Intravino ha scritto qualche tempo fa: «Una volta lo chef aveva la cucchiarella e la padella in mano, ora ha la pinzetta da cucina sempre infilata nel taschino: per forza, mica deve mescolare, deve impiattare, aggiungere la ciliegina. Il cuoco oggi sembra essere perennemente al centro della sala, come fosse a Masterchef, e assembla ciò che hanno preparato in cucina. Il tutto dopo anni di bicchierini, cannucce, cucchiai, cappuccini di seppia, spume ed emulsioni. Qualcuno vorrebbe usare quei denti che invece nei ristoranti stellati ultimamente sembrano quasi un optional». Isidoro Consolini, mitico cuoco del Garda, è d’accordo: «I clienti devono mangiare, non guardare. Troppa televisione, troppi professori delle erbe, troppe bugie. Bisogna fare un bel passo indietro».Forse stiamo mettendo alla cucina italiana i paletti, che non merita, dell’altrui notorietà. Forse le parole «contemporaneo», «moderno», «futurista» non c’entrano. Più che a Marinetti e ai marinettiani, gli special chef si ispirano a Marino e ai marinisti. Più che al Futurismo c’è una deriva verso il Barocco. Cos’altro fanno in tv i grandi (bisogna pur riconoscerlo che lo sono) Cracco, Barbieri, Bastianich, Cannavacciuolo, se non dare spettacolo? stupire? meravigliare? Scriveva quattro secoli fa il padre della letteratura barocca, l’immaginifico Giambattista Marino: «È del poeta il fin la meraviglia/ chi non sa far stupir, vada alla striglia!». E Marino stupì tutto il mondo indossando i panni del cuoco-letterato cucinando la... luna «del padellon del ciel la gran frittata».Sottoscriviamo le illuminanti parole che Wikipedia, la Treccani del popolo internettiano, usa per spiegare cos’è la cucina italiana: «La caratteristica principale della cucina italiana è la sua estrema semplicità, con molti piatti composti da 4 fino ad 8 ingredienti. I cuochi italiani fanno affidamento sulla qualità degli ingredienti piuttosto che sulla complessità di preparazione. I piatti e le ricette, spesso, sono stati creati dalle nonne più che dagli chef rispettando le specificità territoriali, privilegiando esclusivamente materie prime e ingredienti propri della regione di origine del piatto e preservandone la stagionalità».Fino a ora non abbiamo mai parlato di cucina creativa per distinguere la fantasia dalla creazione. Torniamo a citare Marchesi: «Chi dice di creare», scriveva in un articolo dell’ottobre 2011, «ruba il mestiere all’Onnipotente o fa il teologo più che il cuoco». Tiè! Ciapa e porta a casa. La cucina italiana si è sviluppata attraverso due millenni e mezzo di cambiamenti politici e sociali. È un albero con profonde radici. Una s’allunga fino alla Grecia, un’altra alla Magna Grecia, un’altra ancora all’Etruria e a Roma. Altre succhiano sali minerali da Bizantini, Longobardi, Goti, Unni, Franchi. Assorbono linfa da medioevo e rinascimento, dalla scuola salernitana, dagli Arabi, dalle mense delle corti signorili e papali, dalle bisacce dei grandi viaggiatori, dalle stive dei galeoni di ritorno dall’America. Protagonista di questi 25 secoli di storia è la cucina povera, elaborata dalla necessità di migliaia di generazioni, da nord a sud, di placare i morsi della fame utilizzando i doni della natura: erbe, radici, frutta, fiori, chiocciole, rane, pesci. Da questi bisogni, dalle tradizioni, dai riti, dalla trasmissione pratica di madre in figlia sono nate le multiformi cucine regionali italiane che, tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, mantenendo ognuna la sua tipicità, hanno concorso a formare la civiltà della cucina nazionale che è stata maestra alle nazioni vicine. Anche alla signora Francia. Non dimentichiamo che la cucina transalpina moderna ebbe la spinta decisiva nella prima metà del Cinquecento con l’arrivo in Gallia di Caterina de’ Medici, sposa di Enrico II, futuro re di Francia. La duchessina, giovanissima, ma imbevuta di cultura e raffinato gusto rinascimentale toscano, portò con sé dall’Italia cuochi (non chef), pasticcieri, scalchi, pastai, un gelataio. Per la prima volta a Parigi si gustarono asparagi, pisellini freschi, cardi, zucchine, scalogni, carciofi. La béchamel? Nasce dalla «salsa colla» tanto amata da Caterina. La soupe d’oignons? È la zuppa di cipolle del Mugello. L’omelette? È la frittatina fiorentina.