2021-05-24
La cucina a stelle e strisce
Non solo hamburger e pollo fritto: gli Usa sono la patria di numerose tradizioni gastronomiche spesso più salutari di quanto si creda. EccoleMolti associano la cucina degli Stati Uniti all’alimentazione insalubre: si parla spesso di «cibo spazzatura», traduzione italiana dell’anglosassone junk food, identificandolo in automatico con gli hamburger del fast food a stelle e a strisce Mcdonald’s. Molti esterofili nostrani, poi, esaltano esclusivamente le cucine straniere orientali, come quella cinese, giapponese e coreana, esaurendo le possibilità di gusto straniero in ristorante su suolo italiano con quelle. Dalla combinazione tra questi due atteggiamenti un poco superficiali è derivata la fake new che la cucina statunitense sia solo quella del fast food e che faccia male. L’idea che al Mcdonald’s si mangi immondizia deriva anche dal docufilm Supersize me del 2004. Nel quale Morgan Spurlock, considerato che negli Usa due adulti su tre sono sovrappeso o obesi, si proponeva di capire se la causa fossero le cattive abitudini alimentari o le multinazionali del fast food. Dopo aver mangiato per 30 giorni consecutivi da Mcdonald’s a colazione, pranzo e cena, sempre scegliendo menù supersize e ovviamente ingrassando di 11 chili, condannò Mcdonald’s. Si parlò molto meno del docufilm del 2009 Fat Head, nel quale Tom Naughton bilanciava la narrazione terroristica del fast food di Supersize me e ripeté l’esperimento di Spurlock non prendendo i menù extralarge e aumentando le sue abitudinarie passeggiate settimanali da 3 a 6. Se Spurlock ingurgitò oltre 5.000 calorie al giorno, molto superiori a quelle della sua alimentazione normale, Naughton ne consumò le solite 2.000 e dimagrì 5 chili e mezzo (che forse non avrebbe perso senza raddoppiare le passeggiate, ma anche senza aumentare queste ultime certamente non sarebbe ingrassato). La risposta allora è no, non è il cibo del fast food in sé che fa ingrassare, ma è in primo luogo la dimensione dei pasti, soprattutto se all’eccesso calorico non si accompagna alcuna attività fisica volta ad aumentare il dispendio calorico, ciò che può avvenire anche mangiando eccessive quantità di pollo biologico lesso e basta. varietà di fast foodErrato poi è far credere che solo Mcdonald’s sia una catena di fast food americano e che il fast food sia sempre e solo azienda americana: da noi c’è Burger King, anch’esso fast food di panini come Mcdonald’s, e c’è Kfc, Kentucky fried chicken, specializzato in pollo fritto. Poi c’è Roadhouse, una catena di steakhouse, e Old wild west, fast food con cucina tex-mex in ambientazione vecchio West, che sono aziende italiane. C’è Jollibee, il fast food filippino, poi ci sono tutte le kebaberie che non sono un franchising ma costituiscono una «rete» alimentare numericamente superiore a quella dei ristoranti Mcdonald’s, che in Italia sono 610. Erroneo è anche pensare che siccome in Italia non si è sviluppato il ristorante a stelle e strisce di cucina diversa dai panini del Mc con la capillarità e la quantità di quelli cino-giapponesi, allora essa non esista. In primo luogo, potremmo dire che il ristorante cino-giapponese è, in un certo senso, un po’ americano. Il California roll è un tipo di sushi nato in America, perché a partire dal 1960 a Los Angeles arrivarono molti cuochi giapponesi che, cercando fortuna, pensarono di importare il sushi ma renderlo un po’ più accettabile al palato statunitense non aduso al pesce crudo sostituendolo con l’avocado. La stessa diffusione del sushi vero e proprio diventò moda prima nelle metropoli statunitensi, New York per prima, dove molti cuochi giapponesi si trasferirono negli anni Ottanta forti del fatto di avere già una clientela nei giapponesi impiegati nell’industria hi-tech americana. Dai palati giapponesi l’apprezzamento passa presto ai palati statunitensi e, solo dopo, per il tramite della matrice che gli Stati Uniti sono sempre sul resto dell’Occidente, dalle metropoli Usa il sushi si espande nelle metropoli europee (lo stesso travaso è avvenuto con il cibo biologico e con i fornai gourmet di città). In secondo luogo, la vera cucina statunitense esiste ed è il frutto di una spontanea mescolanza di cucine avvenuta in loco secoli fa. I primi coloni europei del Seicento, che provenivano da tutto il mondo ma in particolare da Francia, Spagna, Gran Bretagna, Olanda e gli schiavi dell’Africa Occidentale portavano con sé le proprie tradizioni alimentari e le fondevano tra di loro e con quelle che gli americani locali, a loro volta, avevano tratto dai nativi americani. Dagli indiani del Sud come Calusa, Timucua, Choctaw e Seminole, per esempio, derivano alcune abitudini confluite nel cosiddetto soul food, come l’uso di zucche, pomodori, fagioli, peperoni, peperoncino, patate, arachidi e sassafras. E del mais, con il quale preparare l’hominy, un pane di mais, o l’hoe cake, una polenta fritta. Ma anche per distillare il leggendario whiskey americano.indiani ai fornelliGli indiani mangiavano carne d’orso e cervo, gli europei introdussero maiali e vacche, così precedenti ricette come i Boston baked beans, fagioli al forno con carne d’orso, si riadattarono con il maiale, facilmente allevabile, diversamente dall’orso. Sempre dagli indiani deriva il barbecue, metodo per cuocere grigliando, con il fuoco, o per affumicare, con il fumo: la parola deriva dalla parola timucua barabicu, che vuol dire «sacro buco del fuoco» perché si scavava una buca nella terra e vi si accendeva un fuoco che si sfruttava tramite una griglia di legno. Metodo di cottura della carne decisamente identitario della cucina statunitense odierna, in Kentucky, patria del pollo fritto, e di stufati come il burgoo, si cuoce lentamente al barbecue anche la carne di pecora. La cucina soul food, fatta di riso, verdure e stufati, è la cucina degli schiavi neri del Sud importata a Nord dai bianchi e dai neri che vi si spostavano. Le cucine cajun e creole, più rustica la prima, più raffinata la seconda, entrambe estremamente saporite, nascono in Louisiana, francese fino al 1803, con influenze spagnole, africane e caraibiche: tipici, rispettivamente, i piatti come il gumbo, zuppa di pesce con ocra, e la jambalaya, una sorta di paella senza zafferano. Coniuga la Spagna, i Caraibi e l’Asia con la Florida la cucina dal nome che è appunto una crasi tra Florida e Caraibi, Floribbean, con l’arroz con pollo, l’hamburger di pesce e la key lime pie, una sorta di crostata con base di biscotto come la cheesecake, ripieno di crema di latte condensato e coperchio di meringa fiammata (o panna), mentre la cucina Lowcountry (coste di South Carolina e Georgia) esalta ancora il pollo fritto ma anche shrimp and grits, gamberi e polenta. C’è la cucina New England, della regione che comprende gli Stati del Connecticut, Maine, Massachusetts, New Hampshire, Rhode Island e Vermont con il suo astice in panino (lobster roll) e le vongole servite in zuppa (clam chowder) o frittelle (clam cakes) e lo sciroppo d’acero, il maple syrup, del quale il Vermont è il maggiore produttore statunitense. Abbiamo poi la cucina tex-mex del Texas che fino al diciannovesimo secolo era dominato dal Messico: gli ibridi che ne sono derivati sono gustosi, dai tacos, la versione tex-mex e più dura delle tortillas messicane che paiono piadine di mais, al chili con carne, la cui capitale è San Antonio: di San Antonio erano le ottocentesche chili queens (le regine del chili) che vendevano lo stufato in ogni piazza e il primo chiosco a farlo, il chiosco San Antonio Chili Stand, pensate, è ancora attivo. C’è la cucina hawaiana: non ci si pensa spesso, mentre magari ci si riempie la pancia della nuova moda hawaiana, il poke di pesce condito con sale, alghe e kimchi, che si chiama aku se si tratta di tonno e he’e se di polpo, ma le splendide Hawaii sono uno degli Stati Uniti. Iconiche sono poi cucine cittadine come quella di Chicago, città che poco tempo fa ha fatto venire un mancamento agli orgogliosi napoletani dichiarandosi la capitale mondiale della pizza: oltre a quelle perfettamente canoniche, sono molte le «varianti» di pizza italiana in America e va detto che la deep dish di Chicago, che trasforma la nostra pizza quasi in una crostata di pizza, comprensibilmente sconvolge l’ortodossia italiana, ma è una versione interessante.aperitivi e hot dogAnche la cucina newyorchese vanta preparazioni che ormai sono dei classici: talvolta di altra origine come il pastrami, carne speziata, affumicata e cotta a vapore ereditata dagli ebrei rumeni, poi le uova alla Benedict, la New York cheesecake e cocktail come il Bloody Mary e il Manhattan. Un po’ dappertutto troviamo l’hot dog (importato dai coloni tedeschi), un wurstel in un bun (panino) dalla forma equivalente con la sua versione fritta e su stecco, cioè il corn dog, e l’hamburger, il bun tondo con la polpetta schiacciata e salse. Ciò che più stupisce della cucina americana è: altro che junk food, a ben guardare può addirittura ispirare una serie di scelte salubri. La colazione salata e proteica, ereditata da scozzesi, irlandesi e inglesi anche se, diversamente da questi, non prevede mai di usare il pesce ma solo la carne, è una concezione del primo pasto della giornata opposta alla nostra. Da un punto di vista strettamente dietetico, l’eccesso di zuccheri semplici e anche complessi della colazione dolce a base, per esempio, di caffè e cornetto alla crema, alza velocemente la glicemia e altrettanto velocemente la abbassa, generando presto nuovo appetito. Mangiare invece due uova con il bacon e un hashbrown (una sorta di rösti) fornisce carboidrati complessi come quelli delle patate che, differentemente da quelli della farina con cui è fatto il cornetto, non sono appesantiti dallo zucchero, che sono carboidrati semplici. Quelli complessi innalzano meno e più lentamente la glicemia rispetto a quelli semplici. Inoltre, abbiamo una quota importante di proteine, anch’esse soggette a una digestione più complessa e quindi più lunga per una più durevole sazietà e di grande aiuto nella perdita di peso, rispetto alle stesse calorie in carboidrati. Nel caso in cui si stia seguendo una dieta, si possono sostituire i grassi del bacon con prosciutto, cotto o crudo, sgrassato. Esaminiamo il caffè americano, che per un italiano può sembrare un’aberrazione: la caffeina contenuta in un caffè varia in base a diversi fattori. Più il caffè è tostato, più sono grossi i granelli di polvere, più lento è il passaggio dell’acqua attraverso questi ultimi, minore sarà il contenuto di caffeina. Il caffè americano, anche detto caffè filtro, presenta da 8 a 15 milligrammi di caffeina per oncia e l’espresso da 30 a 50 milligrammi. In genere, noi beviamo 35 millilitri cioè 1,6 once di espresso (una tazzina) e 150 millilitri cioè 5 once di caffè filtro. Prendendo il rispettivo massimo contenuto di caffeina avremo 75 milligrammi di caffeina in una classica tazzona (la mug) di caffè americano e 80 milligrammi in una tazzina di espresso. Il contenuto di caffeina è praticamente identico, la differenza sta nel fatto che un espresso dura meno sorsi, un caffè filtro dura i sorsi di un tè. Beviamo di più, insomma, ci idratiamo di più con un caffè americano, ma beviamo la stessa quantità di caffeina di un espresso. Non di più. il barbecue dieteticoAltro aspetto interessante dell’alimentazione americana è il culto della carne: del suo consumo, messo in discussione solo da vegetariani e vegani, come della sua qualità, anche della cottura perché il barbecue, rispetto alla frittura, è una cottura dietetica. Altro aspetto poco evidenziato sono le zuppe proteiche senza pasta. Molti italiani, per problemi di sovrappeso o per generica preferenza di una dieta più ricca di proteine che di carboidrati, abbandonano la pasta e con essa anche le zuppe, che da noi sono tipicamente fatte di pasta in brodo con legumi, cioè proteine vegetali. Le zuppe americane come la clam chowder dimostrano che può esserci zuppa anche senza pasta.Un ultimo appunto di salubrità psicologica: per tanti italiani, alcune ricette di pasta americane sono l’orrore. Ma va detto che sono omaggi alla nostra pasta e molte di esse dal punto di vista gastronomico funzionano. Allora perché non assaggiare un piatto di spaghetti with meatballs o di mac & cheese smettendola di ricordare che non sono vere ricette italiane? La psicologia insegna che abbandonare ogni tanto la propria zona di comfort, ciò che ci è familiare, permette di cogliere possibilità altrimenti precluse e allena alla flessibilità. Nella peggiore delle ipotesi, se cioè le paste all’americana non vi piacessero per nulla, potreste almeno sostenere che vi ripugnano con cognizione di causa: non per pregiudizio, ma per esperienza.
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