
Con una decisione totalmente inaudita, la Corte costituzionale non si esprime sul caso di Marco Cappato e chiede alle Camere di «colmare» il vuoto sul fine vita. Il radicale esulta: «Riconosciute le nostre ragioni».Decisione, anzi, «non decisione» storica della Consulta: sulla costituzionalità del reato di aiuto al suicidio dovrà pronunciarsi il Parlamento, cui i giudici supremi concedono un anno di tempo fino alla prossima udienza, fissata per il 24 settembre 2019. Non era mai successo che la Corte costituzionale chiamasse in causa direttamente i rappresentanti eletti per colmare un vuoto legislativo. E meno che mai si era verificato che i magistrati di Palazzo della Consulta indirizzassero in maniera esplicita l'intervento parlamentare, parlando di un «assetto normativo concernente il fine vita» che «lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti». Un'indicazione che, fuor di giuridichese, esprime un auspicio evidente: i Marco Cappato, cioè quelli che aiutano i malati come Dj Fabo a morire, non siano più esposti al pericolo di finire in prigione. Al che ci si chiede come possano essere ancora tutelati gli «altri beni costituzionalmente rilevanti», ovvero, presumiamo, la vita e la punibilità dell'omicidio.Ma facciamo un passo indietro. L'esponente radicale Cappato, nel febbraio 2017, aveva accompagnato Fabiano Antoniani, alias Dj Fabo, in una clinica svizzera per seguire il protocollo del suicidio assistito. Cappato, esponente dell'associazione Luca Coscioni, da sempre in prima linea per sostenere il diritto all'eutanasia, il giorno dopo la morte del dj, che era rimasto tetraplegico e cieco a causa di un incidente, si era autodenunciato. In seguito al diniego della richiesta di archiviazione formulata dai pm di Milano, l'8 novembre 2017 era iniziato il processo che lo vedeva imputato per aiuto al suicidio. Un capo d'accusa sul quale i legali di Cappato hanno sollevato la questione di costituzionalità, portata dalla Corte d'assise del capoluogo lombardo ai giudici della Consulta. Il ragionamento si basava su una sottile distinzione tra l'istigazione al suicidio e l'aiuto al suicido. L'articolo 580 del Codice penale stabilisce che «chiunque determina altri al suicidio o rafforza l'altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l'esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni». Il quesito cui doveva risponde la suprema Corte era se il dettato di legge, che sanziona anche l'«agevolazione» del proposito suicida, fosse compatibile con gli articoli della nostra Carta sulla libertà personale e sui vincoli imposti dagli obblighi internazionali. La mossa della Consulta, oltre che inaudita, è scaltra e allarmante. Scaltra, perché in questo modo i magistrati si sottraggono a un compito gravoso e che certamente avrebbe comportato per loro uno strascico di polemiche, qualunque fosse stata la loro decisione finale. Se avessero stabilito l'incostituzionalità di parte dell'articolo 580 del Codice penale, si sarebbero esposti alle critiche «conservatrici» di chi ritiene inopportuno che giudici non eletti si sostituiscano al Parlamento per legittimare, nei fatti, l'eutanasia. Se invece avessero confermato che l'aiuto al suicidio deve restare reato, avrebbero infiammato quella parte dell'opinione pubblica, dei media e dell'attivismo per i diritti civili, che si batte per la «dolce morte». Così, i magistrati scaricano la patata bollente alla politica, che in fondo tutti, cattolici e radicali, ritengono la sola titolata a porre fine alle incertezze sui temi etici (ammesso che sia auspicabile vivere in uno Stato in cui si norma ogni aspetto dell'esistenza umana, dalla culla al respiratore artificiale). Ma la decisione è anche allarmante, per almeno tre ordini di ragioni. Primo, perché appunto la Consulta indica in modo quasi inequivocabile la direzione in cui dovrebbe muoversi l'aula parlamentare. Chi altri, se non Cappato, cioè il sedicente benefattore che mosso a compassione aiuta i malati gravi a porre fine alle loro sofferenze, può coincidere con la «situazione» priva di «adeguata tutela»? È stato lui stesso ad avallare una simile interpretazione, commentando: «La Corte ha riconosciuto le nostre ragioni. È di fatto un successo, un altro, dopo la vittoria sul biotestamento. Ora il Parlamento ha la strada spianata per discutere la nostra proposta di legge sull'eutanasia legale». Secondo, perché i giudici costituzionali, al contrario di quanto dice Cappato, potrebbero aver implicitamente ammesso che, a meno di un rinvio, avrebbero dovuto rigettare il ricorso, dichiarare costituzionale la norma e abbandonare Cappato, reo confesso, a una sentenza. Nel comunicato diffuso dalla Consulta si legge che ci sono situazioni «prive di adeguata tutela»; se le «situazioni» rappresentano la posizione giuridica di chi decide di aiutare un malato a portare a termine il suo proposito suicida, è logico dedurre che, al momento, l'articolo di legge che punisce l'aiuto al suicidio è costituzionale (ed è per questo che il Parlamento deve intervenire).Infine, va sottolineato che un mandato esplicito (ma non si capisce fino a che punto perentorio: possono i giudici costituzionali obbligare l'Aula a legiferare, e a farlo entro un anno?) su questa materia al Parlamento può scatenare un terremoto politico. Deputati e senatori sono divisi; spaccature e coalizioni sono trasversali ai partiti. E poi uno dei motivi per cui Lega e 5 stelle hanno tenuto i temi etici fuori dal contratto era proprio perché è sostanzialmente impossibile mettere d'accordo un Vincenzo Spadafora con un Lorenzo Fontana. Non a caso, il primo a gettarsi a capofitto sulla vicenda è stato il presidente della Camera Roberto Fico, delle cui mire e del cui ruolo di oppositore interno sarebbe superfluo discettare: «È un'occasione importante per il Parlamento», ha dichiarato. «Serve aprire un dibattito, la politica affronti il tema». Una crisi di governo innescata dalla «non decisione» della Corte costituzionale sarebbe l'inaudito nell'inaudito.
Antonio Scurati (Ansa)
Eccoli lì, tutti i «veri sapienti» progressisti che si riuniscono per chiedere all’Aie di bandire l’editore «Passaggio al bosco» dalla manifestazione «Più libri più liberi».
Sono tutti lì belli schierati in fila per la battaglia finale. L’ultima grande lotta in difesa del pensiero unico e dell’omologazione culturale: dovessero perderla, per la sinistra culturale sarebbe uno smacco difficilmente recuperabile. E dunque eccoli, uniti per chiedere alla Associazione italiana editori di cacciare il piccolo editore destrorso Passaggio al bosco dalla manifestazione letteraria Più libri più liberi. Motivo? Tale editore sarebbe neofascista, apologeta delle più turpi nefandezze novecentesche e via dicendo. In un appello rivolto all’Aie, 80 autori manifestano sdegno e irritazione. Si chiedono come sia possibile che Passaggio al bosco abbia trovato spazio nella fiera della piccola editoria, impugnano addirittura il regolamento che le case editrici devono accettare per la partecipazione: «Non c’è forse una norma - l’Articolo 24, osservanza di leggi e regolamenti - che impegna chiaramente gli espositori a aderire a tutti i valori espressi nella Costituzione italiana, nella Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione europea e nella Dichiarazione universale dei diritti umani e in particolare a quelli relativi alla tutela della libertà di pensiero, di stampa, di rispetto della dignità umana? Poniamo quindi queste domande e preoccupazioni all’attenzione dell’Associazione italiana editori per aprire una riflessione sull’opportunità della presenza di tali contenuti in una fiera che dovrebbe promuovere cultura e valori democratici». Memorabile: invocano la libertà di pensiero per chiedere la censura.
Olivier Marleix (Ansa)
Pubblicato post mortem il saggio dell’esponente di spicco dei Républicains, trovato impiccato il 7 luglio scorso «Il presidente è un servitore del capitalismo illiberale. Ha fatto perdere credibilità alla Francia nel mondo».
Gli ingredienti per la spy story ci sono tutti. Anzi, visto che siamo in Francia, l’ambientazione è più quella di un noir vecchio stile. I fatti sono questi: un politico di lungo corso, che conosce bene i segreti del potere, scrive un libro contro il capo dello Stato. Quando è ormai nella fase dell’ultima revisione di bozze viene tuttavia trovato misteriosamente impiccato. Il volume esce comunque, postumo, e la data di pubblicazione finisce per coincidere con il decimo anniversario del più sanguinario attentato della storia francese, quasi fosse un messaggio in codice per qualcuno.
Roberto Gualtieri (Ansa)
Gualtieri avvia l’«accoglienza diffusa», ma i soldi andranno solo alla Ong.
Aiutiamoli a casa loro. Il problema è che loro, in questo caso, sono i cittadini romani. Ai quali toccherà di pagare vitto e alloggio ai migranti in duplice forma: volontariamente, cioè letteralmente ospitandoli e mantenendoli nella propria abitazione oppure involontariamente per decisione del Comune che ha stanziato 400.000 euro di soldi pubblici per l’accoglienza. Tempo fa La Verità aveva dato notizia del bando comunale con cui è stato istituito un servizio di accoglienza che sarà attivo dal 1° gennaio 2026 fino al 31 dicembre 2028. E ora sono arrivati i risultati. «A conclusione della procedura negoziata di affidamento del servizio di accoglienza in famiglia in favore di persone migranti singole e/o nuclei familiari o monogenitoriali, in possesso di regolare permesso di soggiorno, nonché neomaggiorenni in carico ai servizi sociali», si legge sul sito del Comune, «il dipartimento Politiche sociali e Salute comunica l’aggiudicazione del servizio. L’affidamento, relativo alla procedura è stato aggiudicato all’operatore economico Refugees Welcome Italia Ets».
2025-12-03
Pronto soccorso in affanno: la Simeu avverte il rischio di una crisi strutturale nel 2026
True
iStock
Secondo l’indagine della Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza, dal 2026 quasi sette pronto soccorso su dieci avranno organici medici sotto il fabbisogno. Tra contratti in scadenza, scarso turnover e condizioni di lavoro critiche, il sistema di emergenza-urgenza rischia una crisi profonda.
Il sistema di emergenza-urgenza italiano sta per affrontare una delle sue prove più dure: per molti pronto soccorso l’inizio del 2026 potrebbe segnare una crisi strutturale del personale medico. A metterne in evidenza la gravità è Alessandro Riccardi, presidente della Simeu - Società italiana di medicina d’emergenza-urgenza - al termine di un’indagine che fotografa uno scenario inquietante.






