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2019-10-23
La Consulta dice no ai bimbi con due madri
Ansa
La strategia di aggirare il Parlamento passando per le aule di giustizia non sempre paga. Le associazioni Lgbt hanno teorizzato e sostenuto a lungo questo metodo d'azione, ma negli ultimi tempi hanno subito una sconfitta dietro l'altra. L'ultima, piuttosto pesante, è giunta ieri. La Corte di cassazione si è riunita in camera di consiglio e ha esaminato una questione sollevata dal Tribunale di Pisa «sulla formazione di un atto di nascita in cui siano riconosciute due madri come genitrici di un bambino nato in Italia ma di nazionalità statunitense, acquisita dalla madre gestazionale».
La vicenda ha avuto parecchia pubblicità nelle settimane passate. Al centro c'è il piccolo Paolo, 4 anni, il quale dovrebbe appunto avere due madri. La prima è Giulia Garofalo Geymonat, 41 anni, ricercatrice di sociologia a Ca' Foscari e un cognome importante: è nipote del grande filosofo Ludovico Geymonat (alta aristocrazia accademica). L'altra madre si chiama Denise Rinehart, è americana, e gestisce una compagnia teatrale.
Paolo è stato concepito in una clinica danese grazie a un donatore di seme, è nato in Italia, a Pontedera, e vive a Venezia. Le due donne sono sposate negli Stati Uniti, nel Wisconsin, dove il piccolo è riconosciuto come figlio di entrambe. Ma quando si sono presentate al Comune di Pisa chiedendo di essere registrate tutte e due come madri, i funzionari si sono opposti. Così il Tribunale di Pisa ha deciso di rivolgersi alla Corte costituzionale. La sentenza della Consulta deve ancora essere depositata, ma ieri l'ufficio stampa ha fatto sapere che «al termine della discussione la questione è stata giudicata inammissibile per difetti della motivazione dell'ordinanza di rimessione». La Corte, in sostanza, «non ha individuato con chiarezza la disposizione contestata, né ha dato adeguato conto della sua affermata natura di “norma di applicazione necessaria"».
Certo, prima di cantare vittoria bisognerà leggere con attenzione il contenuto della sentenza. E ovviamente le associazioni arcobaleno non si daranno per vinte. Lo dimostrano le dichiarazioni dell'avvocato Alessandra Schuster, da sempre impegnata sul fronte dei diritti Lgbt. «È una sentenza che speriamo di poter accogliere favorevolmente», ha commentato a caldo. «Infatti, è noto che nessuna disposizione in Italia vieta di formare un atto di nascita con due madri nel caso di figlio nato da fecondazione assistita». Come a dire che la battaglia non è finita qui.
Il punto, però, è che ormai le sentenze cominciano a essere parecchie. Pochi giorni fa, il Tribunale di Piacenza ha giudicato legittimo il rifiuto dell'ufficiale di Stato civile del Comune emiliano che, nell'agosto del 2018, non aveva voluto registrare l'atto di riconoscimento di un bambino, nato tramite fecondazione assistita, da parte della compagna della madre biologica.
Ancora prima, in maggio, la Corte di cassazione a sezioni unite si è invece espressa sul caso di due padri, stabilendo che «non può essere trascritto nei registri dello Stato civile italiano il provvedimento di un giudice straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed un soggetto che non abbia con lo stesso alcun rapporto biologico, il cosiddetto genitore d'intenzione» (e il tribunale piacentino ha fatto riferimento anche a questa sentenza prima di pronunciarsi). In quel caso, però, c'era di mezzo l'utero in affitto, una pratica che - come ha sentenziato sempre la Corte costituzionale - «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Nelle vicende riguardanti due madri, in passato, c'è spesso stata minore durezza, come se fare ricorso a un donatore di seme più o meno anonimo non fosse comunque grave. In ogni caso, la decisione di ieri della Consulta infligge un bel colpo a chi vorrebbe trasformare la maternità e la paternità in una mera faccenda di «desiderio».
Ora, però, resta da affrontare l'aspetto politico di tutta la questione. Da parecchio tempo a questa parte, infatti, politici e amministratori locali di fede progressista stanno cercando in ogni modo di forzare le leggi e di far passare le registrazioni di figli di «due madri» o «due padri». In qualche caso, è vero, i tribunali si sono espressi favorevolmente, ma ora l'orientamento prevalente sembra essere di segno contrario. Che cosa faranno, dunque, le Famiglie arcobaleno e i loro sponsor politici? Continueranno a violare la legge? Così su due piedi viene da pensare che cercheranno di portare la lotta in Parlamento. Le posizioni del Pd le conosciamo: sono quelle più volte espresse da Monica Cirinnà. Ma pure pentastellati come Chiara Appendino e Vincenzo Spadafora sono sulla stessa linea. Ed è emblematico che, nel caso delle due donne pisane il governo non abbia attivato l'avvocatura dello Stato per tutelare le leggi vigenti.
La verità è che ora, se volessero essere onesti, gli esponenti arcobaleno dovrebbero scusarsi per le violazioni commesse. Sappiamo che non lo faranno: la loro guerra alla famiglia non è finita.
Uno studio smonta le false credenze. Le unioni gay non creano benessere
I matrimoni gay saranno pure un progresso civile, ma non migliorano le condizioni dei giovani omosessuali, anzi. Semmai la peggiorano. A sbriciolare l'equazione tanto cara al mondo progressista - più diritti uguale più benessere diffuso - un nuovo studio destinato a far rumore. Già, perché i benefici delle conquiste arcobaleno erano fino ad oggi ritenuti chiari. Di più: indiscutibili. Al punto da divenir oggetto di appositi studi scientifici. Come quello uscito nel 2017 su Jama Pediatrics a firma della studiosa Julia Raifman, secondo cui le politiche pro unioni gay avrebbero decretato una riduzione del 7% dei tentativi di suicidi tra studenti delle scuole superiori, riduzione che sarebbe stata addirittura del 14%, manifestandosi come un «immediato declino», fra i giovani Lgbt. Ebbene, ora una nuova ricerca sconfessa tutto questo. Si tratta di un lavoro di oltre 50 pagine intitolato «Marriage equality laws and youth suicidal behaviors» e realizzato da D. Mark Anderson dell'università del Montana, Kyutaro Matsuzawa e Joseph J. Sabia dell'ateneo di San Diego; non quindi una pubblicazione cattolica o né riconducibile ad atenei cristiani. In buona sostanza i tre accademici son partiti proprio dal lavoro della Raifman, la quale aveva esaminato 32 dei 35 Stati Usa che tra il 2004 e il 2015 - per via legislativa o giudiziaria - hanno introdotto forme di tutela alle unioni gay scoprendo, tramite i dati di oltre 760.000 giovani dello Youth risk behavior surveillance system (Yrbss), un accresciuto benessere tra gli stessi.
La notizia di quella ricerca fece il giro del mondo - «Usa, meno suicidi tra gli adolescenti dopo la legge sulle nozze gay», recitava, trionfale, un pezzo del Corriere della Sera - e la stessa Raifman ci mise del suo con dichiarazioni da madrina arcobaleno: «Vorrei che la politica considerasse le potenziali implicazioni che le leggi e le politiche sui diritti Lgbt hanno sulla salute». Peccato fosse tutta una bufala.
Anderson e colleghi se ne sono resi conto quando hanno preso in mano i dati dello Yrbss, un sistema facente capo al Dipartimento della Salute Usa che monitora sei categorie di comportamenti legati alla salute giovanile americana, e da un lato hanno rivisitato quelli della Raifman e, dall'altro, hanno considerato anche quelli relativi all'anno 2017. Ultimati la rivisitazione e l'aggiornamento del database, si sono accorti che i conti non tornavano.
«Abbiamo trovato ben poche prove», hanno scritto Anderson, Matsuzawa e Sabia, «del fatto che la legalizzazione delle unioni gay abbia ridotto il bullismo tra i giovani che si identificano come Lgbt». «Se le legislazioni arcobaleno fossero utili alle minoranze sessuali e ne migliorassero la salute mentale», hanno inoltre spiegato i tre studiosi, «ci si potrebbe aspettare una riduzione dei comportamenti a rischio. Che però non si riscontra». E non finisce qui. Infatti non solo i ricercatori non hanno trovato evidenze dei benefici sociali, tra i giovani, delle politiche arcobaleno: hanno trovato indizi di senso opposto.
Si è cioè un riscontrato peggioramento delle condizioni dei giovani omosessuali, specie quando le unioni gay sono introdotte per via giudiziaria e non legislativa. Ciò sarebbe spiegabile, secondo Anderson, Matsuzawa e Sabia, con il fatto che, quando sono i giudici a benedire il matrimonio gay, tale istituto sarebbe «meno popolare». Motivo per cui tale svolta potrebbe ingenerare nei giovani omosessuali «aspettative di accettazione sociale in contrasto con la realtà sociale».
Nello specifico, gli studiosi hanno osservato come la legalizzazione delle unioni arcobaleno sia associata «ad un aumento di 3,4 punti percentuali dell'abuso di sostanze alcoliche» tra gli studenti gay. I risultati della Raifman, subito magnificati dai giornaloni sono insomma non solo discutibili, ma completamente sbugiardati da questo nuovo studio che, tra l'altro, difficilmente può essere tacciato di omofobia né di imperizia. È infatti scaricabile sul sito dell'autorevole National bureau of economic research - think tank statunitense tra i più autorevoli dato che vanta 18 premi Nobel per l'economia tra le sue firme - e soprattutto i suoi autori, forse allarmati per quanto scoperto, più volte si premurano di ricordare che comunque i «benefici» sulla salute delle persone che contraggono il matrimonio gay sono chiari. Affermazione, quest'ultima, da prender con le pinze dal momento che una pubblicazione sull'European Journal of Epidemiology del 2016, esaminata la situazione della ultralibertaria Svezia - che introdusse unioni civili già nel lontano 1995, arrivando poi a nozze e adozioni gay - concludeva come tra le persone omosessuali «sposate» si registri un tasso di suicidi del 270% superiore rispetto alla controparte etero e coniugata. A
nche i «benefici» delle nozze arcobaleno tra gli stessi «sposi» gay non andrebbero insomma sopravvalutati. Tuttavia quanto Anderson e colleghi hanno rilevato è già di per sé quanto meno esplosivo, perché fa a pezzi la retorica progressista. E proprio per questo c'è da scommettere che accrescerà il già corposo elenco delle verità politicamente scorrette. Quelle da dirsi, se proprio, sottovoce.
Prof licenziata a Roma: «Nessuna transfobia»
La transfobia non c'entra. Ci son voluti giorni, ma alla fine della vicenda di Giovanna Cristina Vivinetto - l'insegnante trans licenziata dal liceo paritario Kennedy di Roma in cui aveva iniziato a lavorare a inizio anno - si è chiarito un nodo fondamentale. Per la verità, se ne son chiariti diversi. Per capire quali, occorre però anzitutto ripercorrere la vicenda. Che è quella di una laureata di 25 anni, nata maschio e «diventata» donna, assunta dall'istituto romano con un contratto a progetto che iniziava il 23 settembre e scadeva l'8 giugno, «con possibilità di risoluzione anticipata dando un preavviso di quindici giorni».
Ebbene, più che «anticipata», la risoluzione contrattuale è stata immediata. Infatti dopo neppure due settimane la Vivinetto è stata messa alla porta. Come mai? I grandi media, da bravi, hanno subito imboccato la pista della transfobia.
Emblematica, al riguardo, l'intervista apparsa sul Corriere della Sera a firma di Elena Tebano, il cui titolo diceva già tutto: «Giovanna Cristina Vivinetto: “Io licenziata perché transessuale". La denuncia della prof poetessa». Ora, che cosa si è scoperto? Tanto per cominciare che la «prof poetessa» sarà un'ottima compositrice di versi - ha vinto il Premio Viareggio opera prima per la poesia - ma non è propriamente «prof». L'ha messo in luce Mario Adinolfi da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, ricordando che la giovane, diversamente da «milioni di persone che fanno anni di precariato», non è abilitata in seguito a regolare concorso. Non significa che l'assunzione fosse irregolare, certo. Ma forse prima di affibbiare alla Vivinetto il titolo di docente i media avrebbero dovuto andarci un poco più cauti. Non solo.
È pure emerso che, in due settimane lavorative, dunque in pochissimi giorni, la giovane aveva ne aveva già effettuati ben tre di malattia. «Laringotonsillite batterica con febbre a 39», ha poi precisato l'interessata. Cosa di cui nessuno dubita, anche se c'è da scommettere che scoprire di aver assunto una giovane non abilitata e subito in malattia in aggiunta - ipotizziamo - a qualche lamentela magari dei genitori (benché l'interessata neghi: «Nessuno si era lamentato») possa non aver entusiasmato la dirigenza scolastica. Quel che è certo, comunque, è che la transfobia qui non c'entra nulla.
Lo ha sottolineato Umberto La Morgia, consigliere leghista di Casalecchio di Reno (Bologna) dichiaratamente omosessuale: «La dirigenza della scuola aveva addirittura invitato Giovanna a condividere liberamente anche la sua storia personale e il suo cambio di identità con gli alunni, che l'avevano presa benissimo». La stessa Vivinetto, ieri su Facebook, ha a sorpresa negato, degradando tutto a mera ipotesi («una possibile verità»), d'esser stata licenziata perché trans: «Non ho mai puntato il dito accusando di discriminazione e transfobia». Troppo tardi: un licenziamento in ambito privato, a naso simile a milioni di altri, è ormai diventato la cacciata transfobica della «prof poetessa». E così, nonostante tutte le precisazioni, verrà ricordato.
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La Corte costituzionale ha respinto il ricorso della coppia di donne, sposata negli Stati Uniti, sul piccolo avuto tramite fecondazione eterologa. È l'ennesima decisione contraria alla retorica Lgbt. Ma gli attivisti arcobaleno non si fermeranno.Tre ricercatori americani (non di area cattolica) smentiscono una celebre ricerca sulle unioni arcobaleno «Non è vero che migliorino le condizioni di salute degli omosessuali. Anzi possono generare più problemi».Giovanna Vivinetto prima grida alla discriminazione sui media, poi fa retromarcia.Lo speciale contiene tre articoliLa strategia di aggirare il Parlamento passando per le aule di giustizia non sempre paga. Le associazioni Lgbt hanno teorizzato e sostenuto a lungo questo metodo d'azione, ma negli ultimi tempi hanno subito una sconfitta dietro l'altra. L'ultima, piuttosto pesante, è giunta ieri. La Corte di cassazione si è riunita in camera di consiglio e ha esaminato una questione sollevata dal Tribunale di Pisa «sulla formazione di un atto di nascita in cui siano riconosciute due madri come genitrici di un bambino nato in Italia ma di nazionalità statunitense, acquisita dalla madre gestazionale».La vicenda ha avuto parecchia pubblicità nelle settimane passate. Al centro c'è il piccolo Paolo, 4 anni, il quale dovrebbe appunto avere due madri. La prima è Giulia Garofalo Geymonat, 41 anni, ricercatrice di sociologia a Ca' Foscari e un cognome importante: è nipote del grande filosofo Ludovico Geymonat (alta aristocrazia accademica). L'altra madre si chiama Denise Rinehart, è americana, e gestisce una compagnia teatrale. Paolo è stato concepito in una clinica danese grazie a un donatore di seme, è nato in Italia, a Pontedera, e vive a Venezia. Le due donne sono sposate negli Stati Uniti, nel Wisconsin, dove il piccolo è riconosciuto come figlio di entrambe. Ma quando si sono presentate al Comune di Pisa chiedendo di essere registrate tutte e due come madri, i funzionari si sono opposti. Così il Tribunale di Pisa ha deciso di rivolgersi alla Corte costituzionale. La sentenza della Consulta deve ancora essere depositata, ma ieri l'ufficio stampa ha fatto sapere che «al termine della discussione la questione è stata giudicata inammissibile per difetti della motivazione dell'ordinanza di rimessione». La Corte, in sostanza, «non ha individuato con chiarezza la disposizione contestata, né ha dato adeguato conto della sua affermata natura di “norma di applicazione necessaria"».Certo, prima di cantare vittoria bisognerà leggere con attenzione il contenuto della sentenza. E ovviamente le associazioni arcobaleno non si daranno per vinte. Lo dimostrano le dichiarazioni dell'avvocato Alessandra Schuster, da sempre impegnata sul fronte dei diritti Lgbt. «È una sentenza che speriamo di poter accogliere favorevolmente», ha commentato a caldo. «Infatti, è noto che nessuna disposizione in Italia vieta di formare un atto di nascita con due madri nel caso di figlio nato da fecondazione assistita». Come a dire che la battaglia non è finita qui. Il punto, però, è che ormai le sentenze cominciano a essere parecchie. Pochi giorni fa, il Tribunale di Piacenza ha giudicato legittimo il rifiuto dell'ufficiale di Stato civile del Comune emiliano che, nell'agosto del 2018, non aveva voluto registrare l'atto di riconoscimento di un bambino, nato tramite fecondazione assistita, da parte della compagna della madre biologica. Ancora prima, in maggio, la Corte di cassazione a sezioni unite si è invece espressa sul caso di due padri, stabilendo che «non può essere trascritto nei registri dello Stato civile italiano il provvedimento di un giudice straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all'estero mediante il ricorso alla maternità surrogata ed un soggetto che non abbia con lo stesso alcun rapporto biologico, il cosiddetto genitore d'intenzione» (e il tribunale piacentino ha fatto riferimento anche a questa sentenza prima di pronunciarsi). In quel caso, però, c'era di mezzo l'utero in affitto, una pratica che - come ha sentenziato sempre la Corte costituzionale - «offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane». Nelle vicende riguardanti due madri, in passato, c'è spesso stata minore durezza, come se fare ricorso a un donatore di seme più o meno anonimo non fosse comunque grave. In ogni caso, la decisione di ieri della Consulta infligge un bel colpo a chi vorrebbe trasformare la maternità e la paternità in una mera faccenda di «desiderio». Ora, però, resta da affrontare l'aspetto politico di tutta la questione. Da parecchio tempo a questa parte, infatti, politici e amministratori locali di fede progressista stanno cercando in ogni modo di forzare le leggi e di far passare le registrazioni di figli di «due madri» o «due padri». In qualche caso, è vero, i tribunali si sono espressi favorevolmente, ma ora l'orientamento prevalente sembra essere di segno contrario. Che cosa faranno, dunque, le Famiglie arcobaleno e i loro sponsor politici? Continueranno a violare la legge? Così su due piedi viene da pensare che cercheranno di portare la lotta in Parlamento. Le posizioni del Pd le conosciamo: sono quelle più volte espresse da Monica Cirinnà. Ma pure pentastellati come Chiara Appendino e Vincenzo Spadafora sono sulla stessa linea. Ed è emblematico che, nel caso delle due donne pisane il governo non abbia attivato l'avvocatura dello Stato per tutelare le leggi vigenti. La verità è che ora, se volessero essere onesti, gli esponenti arcobaleno dovrebbero scusarsi per le violazioni commesse. Sappiamo che non lo faranno: la loro guerra alla famiglia non è finita. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-consulta-dice-no-ai-bimbi-con-due-madri-2641066744.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="uno-studio-smonta-le-false-credenze-le-unioni-gay-non-creano-benessere" data-post-id="2641066744" data-published-at="1766345912" data-use-pagination="False"> Uno studio smonta le false credenze. Le unioni gay non creano benessere I matrimoni gay saranno pure un progresso civile, ma non migliorano le condizioni dei giovani omosessuali, anzi. Semmai la peggiorano. A sbriciolare l'equazione tanto cara al mondo progressista - più diritti uguale più benessere diffuso - un nuovo studio destinato a far rumore. Già, perché i benefici delle conquiste arcobaleno erano fino ad oggi ritenuti chiari. Di più: indiscutibili. Al punto da divenir oggetto di appositi studi scientifici. Come quello uscito nel 2017 su Jama Pediatrics a firma della studiosa Julia Raifman, secondo cui le politiche pro unioni gay avrebbero decretato una riduzione del 7% dei tentativi di suicidi tra studenti delle scuole superiori, riduzione che sarebbe stata addirittura del 14%, manifestandosi come un «immediato declino», fra i giovani Lgbt. Ebbene, ora una nuova ricerca sconfessa tutto questo. Si tratta di un lavoro di oltre 50 pagine intitolato «Marriage equality laws and youth suicidal behaviors» e realizzato da D. Mark Anderson dell'università del Montana, Kyutaro Matsuzawa e Joseph J. Sabia dell'ateneo di San Diego; non quindi una pubblicazione cattolica o né riconducibile ad atenei cristiani. In buona sostanza i tre accademici son partiti proprio dal lavoro della Raifman, la quale aveva esaminato 32 dei 35 Stati Usa che tra il 2004 e il 2015 - per via legislativa o giudiziaria - hanno introdotto forme di tutela alle unioni gay scoprendo, tramite i dati di oltre 760.000 giovani dello Youth risk behavior surveillance system (Yrbss), un accresciuto benessere tra gli stessi. La notizia di quella ricerca fece il giro del mondo - «Usa, meno suicidi tra gli adolescenti dopo la legge sulle nozze gay», recitava, trionfale, un pezzo del Corriere della Sera - e la stessa Raifman ci mise del suo con dichiarazioni da madrina arcobaleno: «Vorrei che la politica considerasse le potenziali implicazioni che le leggi e le politiche sui diritti Lgbt hanno sulla salute». Peccato fosse tutta una bufala. Anderson e colleghi se ne sono resi conto quando hanno preso in mano i dati dello Yrbss, un sistema facente capo al Dipartimento della Salute Usa che monitora sei categorie di comportamenti legati alla salute giovanile americana, e da un lato hanno rivisitato quelli della Raifman e, dall'altro, hanno considerato anche quelli relativi all'anno 2017. Ultimati la rivisitazione e l'aggiornamento del database, si sono accorti che i conti non tornavano. «Abbiamo trovato ben poche prove», hanno scritto Anderson, Matsuzawa e Sabia, «del fatto che la legalizzazione delle unioni gay abbia ridotto il bullismo tra i giovani che si identificano come Lgbt». «Se le legislazioni arcobaleno fossero utili alle minoranze sessuali e ne migliorassero la salute mentale», hanno inoltre spiegato i tre studiosi, «ci si potrebbe aspettare una riduzione dei comportamenti a rischio. Che però non si riscontra». E non finisce qui. Infatti non solo i ricercatori non hanno trovato evidenze dei benefici sociali, tra i giovani, delle politiche arcobaleno: hanno trovato indizi di senso opposto. Si è cioè un riscontrato peggioramento delle condizioni dei giovani omosessuali, specie quando le unioni gay sono introdotte per via giudiziaria e non legislativa. Ciò sarebbe spiegabile, secondo Anderson, Matsuzawa e Sabia, con il fatto che, quando sono i giudici a benedire il matrimonio gay, tale istituto sarebbe «meno popolare». Motivo per cui tale svolta potrebbe ingenerare nei giovani omosessuali «aspettative di accettazione sociale in contrasto con la realtà sociale». Nello specifico, gli studiosi hanno osservato come la legalizzazione delle unioni arcobaleno sia associata «ad un aumento di 3,4 punti percentuali dell'abuso di sostanze alcoliche» tra gli studenti gay. I risultati della Raifman, subito magnificati dai giornaloni sono insomma non solo discutibili, ma completamente sbugiardati da questo nuovo studio che, tra l'altro, difficilmente può essere tacciato di omofobia né di imperizia. È infatti scaricabile sul sito dell'autorevole National bureau of economic research - think tank statunitense tra i più autorevoli dato che vanta 18 premi Nobel per l'economia tra le sue firme - e soprattutto i suoi autori, forse allarmati per quanto scoperto, più volte si premurano di ricordare che comunque i «benefici» sulla salute delle persone che contraggono il matrimonio gay sono chiari. Affermazione, quest'ultima, da prender con le pinze dal momento che una pubblicazione sull'European Journal of Epidemiology del 2016, esaminata la situazione della ultralibertaria Svezia - che introdusse unioni civili già nel lontano 1995, arrivando poi a nozze e adozioni gay - concludeva come tra le persone omosessuali «sposate» si registri un tasso di suicidi del 270% superiore rispetto alla controparte etero e coniugata. A nche i «benefici» delle nozze arcobaleno tra gli stessi «sposi» gay non andrebbero insomma sopravvalutati. Tuttavia quanto Anderson e colleghi hanno rilevato è già di per sé quanto meno esplosivo, perché fa a pezzi la retorica progressista. E proprio per questo c'è da scommettere che accrescerà il già corposo elenco delle verità politicamente scorrette. Quelle da dirsi, se proprio, sottovoce. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-consulta-dice-no-ai-bimbi-con-due-madri-2641066744.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="prof-licenziata-a-roma-nessuna-transfobia" data-post-id="2641066744" data-published-at="1766345912" data-use-pagination="False"> Prof licenziata a Roma: «Nessuna transfobia» La transfobia non c'entra. Ci son voluti giorni, ma alla fine della vicenda di Giovanna Cristina Vivinetto - l'insegnante trans licenziata dal liceo paritario Kennedy di Roma in cui aveva iniziato a lavorare a inizio anno - si è chiarito un nodo fondamentale. Per la verità, se ne son chiariti diversi. Per capire quali, occorre però anzitutto ripercorrere la vicenda. Che è quella di una laureata di 25 anni, nata maschio e «diventata» donna, assunta dall'istituto romano con un contratto a progetto che iniziava il 23 settembre e scadeva l'8 giugno, «con possibilità di risoluzione anticipata dando un preavviso di quindici giorni». Ebbene, più che «anticipata», la risoluzione contrattuale è stata immediata. Infatti dopo neppure due settimane la Vivinetto è stata messa alla porta. Come mai? I grandi media, da bravi, hanno subito imboccato la pista della transfobia. Emblematica, al riguardo, l'intervista apparsa sul Corriere della Sera a firma di Elena Tebano, il cui titolo diceva già tutto: «Giovanna Cristina Vivinetto: “Io licenziata perché transessuale". La denuncia della prof poetessa». Ora, che cosa si è scoperto? Tanto per cominciare che la «prof poetessa» sarà un'ottima compositrice di versi - ha vinto il Premio Viareggio opera prima per la poesia - ma non è propriamente «prof». L'ha messo in luce Mario Adinolfi da Massimo Giletti a Non è l'arena, su La7, ricordando che la giovane, diversamente da «milioni di persone che fanno anni di precariato», non è abilitata in seguito a regolare concorso. Non significa che l'assunzione fosse irregolare, certo. Ma forse prima di affibbiare alla Vivinetto il titolo di docente i media avrebbero dovuto andarci un poco più cauti. Non solo. È pure emerso che, in due settimane lavorative, dunque in pochissimi giorni, la giovane aveva ne aveva già effettuati ben tre di malattia. «Laringotonsillite batterica con febbre a 39», ha poi precisato l'interessata. Cosa di cui nessuno dubita, anche se c'è da scommettere che scoprire di aver assunto una giovane non abilitata e subito in malattia in aggiunta - ipotizziamo - a qualche lamentela magari dei genitori (benché l'interessata neghi: «Nessuno si era lamentato») possa non aver entusiasmato la dirigenza scolastica. Quel che è certo, comunque, è che la transfobia qui non c'entra nulla. Lo ha sottolineato Umberto La Morgia, consigliere leghista di Casalecchio di Reno (Bologna) dichiaratamente omosessuale: «La dirigenza della scuola aveva addirittura invitato Giovanna a condividere liberamente anche la sua storia personale e il suo cambio di identità con gli alunni, che l'avevano presa benissimo». La stessa Vivinetto, ieri su Facebook, ha a sorpresa negato, degradando tutto a mera ipotesi («una possibile verità»), d'esser stata licenziata perché trans: «Non ho mai puntato il dito accusando di discriminazione e transfobia». Troppo tardi: un licenziamento in ambito privato, a naso simile a milioni di altri, è ormai diventato la cacciata transfobica della «prof poetessa». E così, nonostante tutte le precisazioni, verrà ricordato.
Il Tribunale dei minori de l'Aquila. Nel riquadro, la famiglia Trevallion Birmingham (Ansa)
Un bambino è un teste fragile estremamente suggestionabile, perché è abituato al fatto che non deve contraddire un adulto, e, soprattutto se il bambino è spaventato, tende a compiacere l’adulto e a dire quello che l’adulto vuole. Ricordiamo che esiste la Carta di Noto, un protocollo di linee guida per l’ascolto del minore in caso di presunti abusi sessuali o maltrattamenti, elaborato da esperti di diverse discipline (magistrati, avvocati, psicologi, ecc.), che sono state sistematicamente disattese per esempio a Bibbiano. Un bambino deportato dalla sua famiglia è per definizione terrorizzato. Il termine corretto per i bambini tolti dalle famiglie dalle assistenti sociali è deportazione. La deportazione avviene all’improvviso, da un istante all’altro, con l’interruzione totale di tutti gli affetti, genitori, nonni, amici, eventuali animali domestici. Il deportato è privato dei suoi oggetti e del suo ambiente e con la proibizione di contatti con la sua vita precedente. Il deportato non ha nessuna padronanza della sua vita. Questo è lo schema della deportazione. Assistenti sociali possono mentire e psicologi possono avvallare queste menzogne con interrogatori suggestivi che portano i bambini a mentire. I motivi sono tre: compiacenza verso superiori o colleghi (è già successo), interesse economico (è già successo), fanatismo nell’applicare le proprie teorie: l’abuso sessuale dei padri sui bambini è diffusissimo, una famiglia non ha il diritto di vivere in un bosco, una madre povera non ha diritto ad allevare suo figlio, i bambini appartengono allo Stato, a meno che non siano rom allora appartengono al clan, un non vaccinato è un nemico del popolo oltre che della scienza e va deportato e vaccinato (è già successo).
Un’assistente sociale può mentire. E dato che la menzogna è teoricamente possibile deve essere necessario, per legge, che a qualsiasi interazione tra lo psicologo e l’assistente sociale e il bambino sia presente un avvocato di parte o un perito di parte, psicologo o altra figura scelta dalla famiglia. È necessario quindi che venga fatta immediatamente una legge che chiarisca che sia vietato una qualsiasi interazione tra il bambino e un adulto, assistente sociale, psicologo, ovviamente magistrato, dove non sia presente un perito di parte o un avvocato. Facciamo un esempio a caso. Supponiamo (siamo nell’ambito delle supposizioni, il posto fantastico dei congiuntivi e dei condizionali) che l’assistente sociale che ha dichiarato che i bambini della famiglia del Bosco sono analfabeti, oltre ad aver compiuto il crimine deontologico gravissimo della violazione di segreto professionale, abbia mentito. Certo è estremamente probabile che i figli di una famiglia con un livello culturale alto, poliglotta, la cui madre lavora in smart working siano analfabeti. È la cosa più logica che ci sia, però supponiamo per ipotesi fantastica che l’assistente sociale abbia mentito. In questo caso è evidente che i bambini non possono tornare a casa per Natale. Se i bambini tornassero a casa in tempi brevi, non sarebbe difficile fare un video dove si dimostra che scrivono benissimo, che leggono benissimo, molto meglio dei coetanei in scuole dove il 90% degli utenti sono stranieri che non sanno nemmeno l’italiano e meno che mai l’inglese, si potrebbe dimostrare che sono perfettamente in grado di farsi una doccia da soli e anche di cucinare un minestrone.
La deportazione di un bambino, coi rapporti troncati da un colpo di ascia, produce danni incalcolabili. I bambini sono stati sottratti ai loro affetti per darli in mano a una tizia talmente interessata al loro interesse che sputtana loro e la loro famiglia davanti a tutta l’Italia e per sempre (il Web non dimentica) con affermazioni (vere?) sul loro analfabetismo e sulla loro incapacità a fare una doccia. Questi bambini rischiano di essere aggrediti e sfottuti dai coetanei per questo, si è spianata la strada a renderli vittime di bullismo per decenni. Con impressionante sprezzo di qualsiasi straccio di deontologia gli operatori, tutti felici di squittire a cani e porci informazioni che dovrebbero essere assolutamente riservate (anche questi il segreto professionale e la deontologia non sanno che cosa siano), ci informano che i bambini annusano con perplessità i vestiti che profumano di pulito. I vestiti non profumano di pulito. Hanno l’odore dei pessimi detersivi industriali reclamizzati alla televisione che deve essere la fonte principale se non l’unica da cui nasce la cultura degli operatori. I loro componenti sono pessimi, non solo inquinanti, ma anche pericolosi per la salute umana a lungo termine: stesso discorso per lo sciampo e il bagno schiuma, soprattutto negli orfanatrofi di Stato, le cosiddette case famiglie, dove si comprano i prodotti meno cari, quindi quelli con i componenti peggiori.
Nessuno dei libricini su cui hanno studiato gli operatori ha spiegato che ci sono ben altri sistemi per garantire una pulizia impeccabile. In tutte le foto che li ritraggono con i genitori, ai tempi distrutti per sempre in cui erano felici, i bambini sono pulitissimi. Tra l’altro tutte queste incredibili esperte di comportamento infantile, non hanno mai sentito parlare di comportamento oppositivo? Un bambino normale, una volta deportato con arbitrio dalla sua vita e dalla sua famiglia, può spezzarsi ed essere malleabile o può resistere ed essere oppositivo. Fai la doccia. Non la voglio fare. Scrivi. Non sono capace. Il bambino oppositivo deve essere frantumato. Non ti mando a casa nemmeno per Natale.
Sia fatta una legge immediatamente. Subito. I bambini del bosco devono avere di fianco un avvocato. Noi popolo italiano, che con le nostre tasse paghiamo i servizi sociali e la deportazione dei bambini, abbiamo il diritto a pretendere che non siano soli. I bambini nel bosco passeranno un Natale da deportati. Qualcuno si sentirà in dovere di informarci che in vita loro non avevano mai mangiato un qualche dolce industriale a base di zucchero, grassi idrogenati e coloranti e che grazie alla deportazione questa lacuna è stata colmata.
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La famiglia Trevallion-Birmingham (Ansa)
È infatti una prepotenza senza significato confrontare una bomba affettiva e esistenziale come tre fratellini che giocano e si vogliono evidentemente bene, accompagnata da genitori altrettanto uniti, e naturalmente affettivi con norme e abitudini di un Paese dove il nucleo abitativo più frequente nelle città più prestigiose consiste in un cittadino singolo. Pretendere che i pochi figli superstiti in qualche «terra di nessuno», con i suoi boschi e le affettuosità (che ancora esistono fuori dalle famiglie-tipo), si uniformino ai secchi diritti e cupe abitudini del sociologico e disperato «gruppo dei pari» è un’operazione di una freddezza stalinista, per fortuna destinata allo scacco. È coltivata da burocrazie che scambiano relazioni profonde e vere, comunque indispensabili alla vita e alla sua felicità, con strumenti tecnici, adoperabili solo quando la famiglia purtroppo non c’è più, molto spesso per l’ottusità e la corruzione dello Stato stesso che le subentra (come racconta Hanna Arendt) quando è riuscito a distruggerla. Se non si vuole creare danni inguaribili, tutti, anche i funzionari dello Stato, dovrebbero fare attenzione a non sostituire gli aspetti già legati all’umano fin dalla creazione del mondo, con pratiche esterne magari infiocchettate dalle burocrazie ma che non c’entrano nulla con la sostanza dell’uomo e la sua capacità di sopravvivere.
Certo, la bimba Utopia Rose, citata nel bel pezzo di Francesco Borgonovo del 18 dicembre, è una testimone insostituibile di un’altra visione del mondo rispetto alle varie ideologie che prevalgono in questo momento, unendo ferocia e ricchezza, cinismo e follia. Impossibile di fronte ai fratellini che tanto scandalizzano le burocrazie perbene non ricordare (oltretutto a pochi giorni dal Natale) l’ordine di Gesù: «Lasciate che questi piccoli vengano a me». Nessuno dubita che entreranno nel Regno prima degli assistenti sociali. Utopia Rose, la più grande, è affettuosa e impegnata, lavoratrice e giocattolona, organizzatrice e sognatrice. Però non è sola (Come si fa a non amarla, e anche un po’ invidiarla?). Non soltanto perché ha i suoi due fratellini, e i tre quarti del pubblico fa il tifo per loro. Ma perché questa visione loro e dei genitori di cercare una vita buona e naturale, semplicemente felice e affettuosa verso sé e verso gli altri e tutto il mondo vivente, cresce con la stessa velocità con la quale si sviluppa l’idolatria verso tutto ciò che è artificiale, fabbricato, mentale, non affettivo. È già qualche anno che chi viene in analisi scopre soprattutto questo: l’urgenza di mettersi al riparo dagli egoismi e pretese grandiose, vuote e fredde, e invece amare. Ormai il fenomeno trasborda nelle cronache. Trasgressione conclusiva, dialettale e popolaresca (milanese): «Spérèm»!
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(Imagoeconomica)
A leggere queste parole c’è davvero da impazzire. In pratica si continua a ripetere che questi bambini sono bravi, educati, felici e amati. Ma hanno difficoltà con la lettura e si cambiano i vestiti troppo raramente. E alle nostre istituzioni, oltre che a una parte della politica, sembra normale che tanto basti per strapparli ai genitori e lasciarli in una casa famiglia a tempo indeterminato. In aggiunta, si continuano a trattare papà e mamma Trevallion come discoli da raddrizzare. Si scrive e si dice che ora si comportano bene, che hanno accettato di modificare la propria casa, di vaccinare i figli, di farli incontrare con un insegnante. Lo ripetono pure i giudici della Corte d'appello che hanno confermato venerdì la validità del provvedimento di allontanamento e hanno passato la palla al Tribunale dei minori dell'Aquila per eventuali nuove decisioni. La corte conferma «tutte le criticità rilevate nell'ordinanza del Tribunale dei minorenni» tra cui i «gravi rischi per la salute fisica e psichica dei bambini, per la loro sana crescita, per lo sviluppo armonioso della loro personalità». Ma rileva «gli apprezzabili sforzi di collaborazione» da parte dei genitori e auspica «un definitivo superamento del muro di diffidenza da loro precedentemente alzato verso gli interventi e le offerte di sostegno». Chiaro, no? Quando papà e mamma saranno più docili e addomesticati, il ricatto potrà forse concludersi.
Pare infatti che il nodo di tutta questa storia, sia soltanto questo: bisogna compiacere i magistrati. Chi non lo fa è un pericoloso pasdaran della destra, è uno che fa campagna politica per il referendum sulla giustizia. Lo dice chiaramente Elisabetta Piccolotti di Alleanza verdi e sinistra, la quale se la prende con i ministri Matteo Salvini e Eugenia Roccella «che continuano a fare gli sciacalli con l’unico scopo di preparare il terreno per il referendum sulla giustizia. Noi di Avs», spiega Piccolotti, «crediamo che il percorso di dialogo con la famiglia debba dare i giusti frutti, come sostengono anche gli avvocati: i bambini devono tornare a casa dai genitori, con la garanzia che non saranno negati loro il diritto all’istruzione e alla socialità che solo la scuola assicura davvero». Ah, ma dai: i bambini devono tornare a scuola, perché quella parentale non va. Di più: bisogna che il ministro Valditara invii «gli ispettori nella scuola paritaria che ha certificato l’assolvimento dell’obbligo scolastico per la bambina di 11 anni, nonostante pare che la bimba sappia a stento scrivere il proprio nome sotto dettatura».
Interessante cortocircuito. Con la famiglia del bosco i compagni di Avs sono inflessibili, invocano perquisizioni e correzioni. Ma con altri sono molto più teneri. Nei riguardi degli antagonisti di Askatasuna, per dire, hanno parole di miele. Marco Grimaldi, vicecapogruppo di Avs alla Camera, si è aggregato al corteo di protesta contro lo sgombero del centro sociale. «Noi non abbiamo nulla da nascondere», grida. «Siamo parte, alla luce del sole, di un’associazione a resistere, quella dell’antifascismo che i trumpiani di tutto il mondo vorrebbero dichiarare fuori legge. Ma fino a quando la nostra Costituzione sarà in piedi nessuno potrà impedirmi di manifestare il mio dissenso ed io continuerò a farlo». La sua compagna di partito Ilaria Salis ribadisce che «lo spirito di Askatasuna continuerà ad ardere». Bravi, bravissimi, dei veri rivoluzionari, dei grandi ribelli antisistema. Ma per chi sceglie davvero un modello di vita alternativo, a quanto risulta, non hanno pietà. Anzi, dicono le stesse cose dei magistrati.
Fateci caso: Elisabetta Piccolotti ha pronunciato praticamente le stesse frasi scandite da Virginia Scalera, giudice del tribunale di Pescara e presidente della sezione Abruzzo dell’Anm. Costei è intervenuta ieri dicendo che c’è «stato un attacco scomposto e offensivo nei confronti dei giudici da parte dei ministri Salvini e Roccella, espresso peraltro in mancanza di conoscenza del provvedimento, perché le motivazioni non sono ancora uscite. E comunque è inaccettabile il tono. Abbiamo l’impressione chiara», insiste Scalera, «che sia un modo per riattivare l’attenzione dell’opinione pubblica, strumentalizzando una storia significativa in ottica referendaria. Ogni volta si additano i giudici, si parla di sequestro di bambini. Stigmatizziamo gli attacchi del governo».
Siamo sempre lì: guai a sfiorare i giudici, guai ad avanzare anche solo un minuscolo dubbio sul loro operato. Persino la sinistra radicale, quella che si batte contro i confini e contro la fantomatica «repressione», alla bisogna si rimette in riga al fianco delle toghe. E intanto tre bambini bravi e educati sono ancora tenuti lontano dai loro genitori.
A proposito di cortocircuiti sinistri, sia concessa un’ultima considerazione. Negli anni passati, con l’avvicinarsi del Natale, fior di sacerdoti e militanti progressisti hanno proposto presepi pieni zeppi di barconi e migranti. È un vero peccato che quest’anno qualcuno di questi impegnati a favore dei più deboli non abbia pensato a un bel presepe con la famiglia del bosco posizionata in mezzo ai pastori.
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Orazio Schillaci (Ansa)
Stiamo parlando della Cceps, la commissione centrale esercenti professioni sanitarie che funziona come una sorta di Corte d’Appello. Due giorni fa doveva svolgersi a Roma l’udienza, fissata a ridosso del Natale per esaminare i ricorsi di almeno 25 medici radiati dall’Ordine. Nemmeno il tempo di aprire la seduta, e subito è stata rinviata con data da destinarsi.
Il 18 sera, infatti, l’indipendenza e imparzialità dei componenti della Cceps è stata messa in discussione dalle istanze di ricusazione di uno dei legali dei medici radiati, l’avvocato Mauro Sandri. La presidente e il suo vice, così pure diversi membri dell’organo del ministero della Salute che esercita il giudizio di secondo grado, si sono già espressi contro le critiche nei confronti del vaccino Covid. In alcuni casi, anche contro gli stessi dottori che hanno presentato ricorso, si legge nella memoria di ricusazione.
Una cosa inaudita, che vanificherebbe qualsiasi conclusione della commissione. Non attiva da anni, la Cceps era stata ricostituita lo scorso ottobre dal ministro Schillaci su pressione di Filippo Anelli, presidente Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri. A marzo, il capo dei medici si lamentava perché il ricorso «di fatto vanifica l’azione sanzionatoria degli Ordini, facendo sì che medici sospesi o addirittura radiati continuino a esercitare».
Così, per liquidare in fretta la questione, in un’udienza fissata per trattare i soli procedimenti dei medici radiati (in violazione del normale calendario), tutte le memorie scritte dei difensori dovevano essere presentate nella stessa mattinata del 19 e «date in pasto» a medici, a magistrati che il loro giudizio già l’hanno formulato.
Le istanze di ricusazione presentate dall’avvocato Sandri sono state nei confronti della presidente della Cceps, Giulia Ferrari, in quanto come componente del Consiglio di Stato ha partecipato alla stesura di numerose sentenze nelle quali ha «sempre respinto le domande di illegittimità delle sospensioni dal lavoro avanzate da pubblici dipendenti».
E nei confronti del vice presidente Oscar Marongiu «che ha partecipato a decisioni di contenuto analogo quale componente del Tar di Cagliari». Ma non è finita. La maggior parte dei componenti la Cceps per quanto riguarda i ricorsi dei medici sono professionisti che hanno fatto parte di Consigli dell'Ordine, che hanno emesso provvedimenti di radiazione e che hanno espresso, prima del processo, opinioni che fanno già chiaramente trasparire la posizione che avranno nel giudizio di secondo grado.
Tra questi c’è Giovanni Leoni, presidente dell’Ordine dei medici chirurghi e odontoiatri della Provincia di Venezia e vice presidente nazionale Fnomceo. Il presidente a luglio 2022 si era opposto all’idea dell’allora governatore Luca Zaia di reintegrare i medici sospesi perché non vaccinati: «Sarebbe un pessimo messaggio», disse. E che aveva definito l’abolizione della sanzione ai no vax «un premio ai furbetti. Questa scelta non è un messaggio educativo alla popolazione sul rispetto delle regole». Qualcuno ha dei dubbi su come Leoni giudicherà il ricorso di medici quali Ennio Caggiano, Barbara Balanzoni, Fabio Milani, Riccardo Szumski? Sono solo alcuni dei dottori stimati, amati dai loro pazienti, però presi di mira dagli Ordini professionali perché osavano contrastare la non scienza imposta con i dpcm di Speranza e Conte.
Ennio Caggiano di Camponogara, nel Veneziano mandato a processo per aver compilato 16 certificati di esenzione dal vaccino ritenuti falsi dalla Procura di Venezia, è stato assolto da ogni accusa pochi mesi fa. Eppure il 20 maggio del 2022 il presidente dell’Ordine dei medici di Venezia ne firmò la radiazione. Oggi il medico si dice sconcertato di sapere che lo stesso Leoni dovrebbe valutare il suo ricorso. «L’incompatibilità assoluta. Invece di chiudere una vicenda che si trascina da anni, analizzando oggettivamente i fatti, vogliono ribadire che avevano ragione. È una cosa ridicola e tragica nello stesso tempo».
Un periodo, quello della pandemia e dei diktat, segnato anche da brutte storie di delazioni. Fabio Milani, stimato professionista bolognese non vaccinato, nel dicembre del 2021 curò con antibiotico e cortisone una famiglia con polmonite da Covid abbandonata a Tachipirina e vigile attesa dal proprio medico di famiglia. Segnalato dal collega all'Ordine, aveva subìto un lungo processo per esercizio abusivo della professione, conclusosi nel gennaio 2025 perché «il fatto non sussiste». Ma non era finita. Il medico venne radiato nell’agosto 2022 con l’accusa di aver violato il codice deontologico. Con quale imparzialità sarà giudicato in secondo grado da una simile commissione?
«Nessun medico radiato può essere giudicato per avere espresso opinioni critiche sulla gestione dell'emergenza sanitaria», ribadisce l’avvocato Sandri. «Nessuno mi ha denunciato per aver maltrattato un paziente», osserva Riccardo Szumski, il consigliere di Resistere Veneto risultato tra i più eletti alle ultime Regionali, evidenziando l’assurdità di una sanzione così grave. «Mi sembra una commissione non a tutela dei medici e dei pazienti, ma dell’obbedienza a ogni costo. E Schillaci era un collaboratore dell’ex ministro Roberto Speranza. Nella mia radiazione venne citata la frase del presidente Sergio Mattarella “non si invochi la libertà per sottrarsi all’obbligo vaccinale” ma la libertà, secondo me, è un bene assoluto».
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