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2020-10-27
«La Cina vuole occupare i nostri porti col consenso di Berlino»
Giulio Sapelli (Ansa)
La pandemia sta producendo delle forti conseguenze sul sistema portuale internazionale. Non soltanto dal punto di vista tecnico ed economico, ma anche geopolitico. Un fattore che vede in primo piano soprattutto l'iperattivismo della Cina. Per cercare di fare maggiore chiarezza sulla situazione, La Verità ha deciso di intervistare il professor Giulio Sapelli, presidente del comitato scientifico del Centro studi BlueMonitorLab.
Professor Sapelli, qual è l'impatto della pandemia sul sistema portuale?
«Il sistema portuale è un gateway. È una tipica via, come già ci aveva insegnato Venezia, che aveva costruito tutto un insieme di paratie sociosanitarie per impedire che le merci portassero delle pandemie. Adesso non sono solo le merci che portano le pandemie, ma in una via di globalizzazione e di traffico marittimo più rapido di un tempo, i virus hanno ancor più possibilità di mantenere la carica virale. Il grande cambiamento strutturale che ha avuto il commercio marittimo dal punto di vista tecnologico ha ridotto la percentuale degli esseri umani, ma gli esseri umani ci sono sempre. Nei porti c'è una relazione che naturalmente è molto più tecnologizzata e si possono tenere le distanze, però l'elemento pandemico è sempre presente. Soprattutto quando si tratta di un virus come questo, che deriva - ora ne siamo certi - da difetti di macellazione delle carni, in Stati come quello cinese, che è l'unico Paese al mondo che continua a non avere un criterio di purezza, legato alla macellazione degli animali vivi. Il porto è quindi il punto terminale di una catena pandemica, che la tecnologia paradossalmente non sa ancora come respingere. I porti devono per questo trasformarsi rapidamente in un presidio sanitario».
Secondo il rapporto «Italian maritime economy 2020», la pandemia può offrire occasione per un rinnovamento delle catene di approvvigionamento. Che cosa ne pensa?
«In primo luogo, bisogna usare il cosiddetto “Internet delle merci". Quindi avere la possibilità di uno screening attento sull'origine delle merci. Poi è molto importante la tracciabilità. Questa deve essere una prerogativa degli Stati, soprattutto quando si ha a che fare con Stati che hanno bassi criteri di sanificazione. Ci sono tecnologie che consentono di fare degli screening e soprattutto di usare i gas igienizzanti, come l'ozono. Non a caso, il prezzo di questi gas è cresciuto enormemente. La cosa che mi ha colpito - a differenza di quello che hanno fatto negli Stati Uniti - è che in Europa non è previsto nessun sussidio, nessun aiuto, per incentivare l'uso dei gas igienizzanti. Bisogna poi aumentare il grado di automazione del carico e scarico delle merci. Bisogna concentrarsi sul criterio del risparmio di manodopera, che vuol dire dedicare questa manodopera ad altri lavori, riqualificandola. Su questo si dovrebbe cominciare ad agire in modo coordinato: cosa che non mi pare si stia facendo. L'Organizzazione mondiale della sanità è stata totalmente assente, come se il mondo non dipendesse dal commercio internazionale via mare».
Come giudica l'interesse nutrito dalla Cina nei confronti dei porti italiani?
«La Cina vede nei porti italiani l'altra pedina nel suo gioco di dama, dopo Gibuti e dopo Atene. Abbiamo innanzitutto Gioia Tauro, mentre il prossimo colpo che i cinesi vorranno fare è sicuramente il porto di Taranto. La strategia della Cina è quella di comprare naturalmente le élite dei Paesi in cui investono oppure di eliminare per via giudiziaria coloro che si oppongono. L'Italia è la via d'accesso all'hinterland di Trieste e quindi ai Paesi dell'Est. C'è un accordo sino-tedesco per penetrare e in questo modo minacciare l'appartenenza atlantica dell'Europa».
La Cina sta manifestando sempre più interesse per la Rotta del Mare del Nord. A che cosa punta esattamente Pechino?
«Pechino punta alle stesse cose a cui puntano i russi. Già vent'anni fa, quando abbiamo visto i primi momenti di erosione della calotta polare, bisognava essere consapevoli che poteva diventare un modo per non passare più per Capo Horn o per Suez. Bisogna inoltre ricordare che noi abbiamo piantato la bandiera italiana nel Polo Nord, quindi anche noi potremmo avere un certo interesse, ma dovrebbe essere un interesse che l'Italia rende manifesto, non soltanto dal punto di vista scientifico. Tornando a Pechino, i cinesi vedono lì un asse di rafforzamento della potenza geopolitica. In questo è molto importante che gli americani mutino il loro atteggiamento con la Russia. E l'Italia dovrebbe lavorare in questo senso».
Quindi lei mi sta dicendo che, se vogliono contenere l'influenza cinese sulla Rotta del Mare del Nord, gli Stati Uniti dovrebbero ricorrere a una distensione con la Russia?
«Non c'è nessun dubbio. Ma basta guardare la carta geografica. I cinesi devono fare un lungo tratto di costa siberiana. Quindi c'è poco da fare, a meno che non trasportino su treno. Ma allora non ha più senso arrivare poi - che so - a Danzica o a un porto russo. Infatti i cinesi hanno fatto l'accordo del Gruppo di Shanghai».
Negli Stati Uniti Joe Biden sta conducendo una campagna antirussa e ambientalista. Crede che una vittoria di Biden potrebbe favorire Pechino nella Rotta del Mare del Nord?
«Se volesse favorire la Cina, disvelerebbe l'inganno cinese. Perché tutto quello che la Cina dice sul rispetto dei protocolli di Parigi è falso. Perché, se si va a vedere, la maggioranza della produzione di energia elettrica in Cina viene ancora fatta col carbone. Se Biden volesse allearsi con la Cina e nello stesso tempo mantenere le promesse ambientaliste, sicuramente non gli sarebbe possibile».
Pechino vince perché l’Occidente si suicida
È sempre più evidente che, grazie al Covid 19, la Cina ha vinto sia la guerra economica che quella sanitaria, mentre noi in Occidente stiamo perdendo entrambe. Così il XXI secolo dovrebbe essere il secolo cinese. Ciò anche grazie al nichilismo che ha profanato e corrotto la nostra cultura nell'ultimo mezzo secolo. Abbiamo smesso di avere e cercare valori forti, abbiamo smesso di credere a qualcosa di trascendente, abbiamo smesso di fare figli e abbiamo conosciuto solo il ritmo frenetico del consumismo a debito necessario a compensare il crollo del Pil dovuto al crollo delle nascite. La Cina ne ha beneficiato perché la sua manodopera lavorava in condizioni di schiavitù, oppressa da una dittatura comunista e pragmatica.
Eppure il prefetto della Accademia pontificia delle scienze riconosce che in Cina si vive la Dottrina sociale della Chiesa. Noi occidentali, illusi che meno figli equivalesse a sembrare più intelligenti e colti, nonché a diventare più ricchi, abbiamo compensato la decrescita con il consumismo. Per far crescere il nostro potere di acquisto e i consumi, per circa quarant'anni, abbiamo delocalizzato produzioni dai nostri Paesi in Cina, trasferendovi tutto: tecnologie, know how, capacità ed esperienze, e all'inizio anche capitali. Così noi abbiamo creato la nuova potenza economica del XXI secolo. In Cina, secondo i neomalthusiani di Stanford negli anni '70, sarebbero dovuti morire di fame centinaia di milioni di persone prima dell'anno 2000, a causa della crescita demografica. Invece ora la Cina si appresta a dominare il mondo con più di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. In più, con questa pandemia, la Cina si rafforza in modo straordinario. Probabilmente non sapremo mai se il virus è stato inventato per qualche scopo o è stato solo un errore, possiamo solo immaginarne le conseguenze dirette ed indotte.
La prima e più evidente conseguenza è un maggior indebolimento economico dell'Occidente e un ulteriore rafforzamento economico della Cina, che sembra essere uscita dalla crisi pandemica con una crescita economica che supera il 2%, a fronte di una decrescita del resto del mondo (Usa -5%, Europa -8%, America latina -8%). La seconda conseguenza, ancora poco evidente, è il rischio di potenziale «semi-sterminio» di vecchi e malati in Occidente grazie alla sconfitta sanitaria. La Cina invece ha vinto la guerra quasi senza vittime (se raccontano il vero), avendo avuto solo il 2% del totale dei deceduti americani e il 10% di quelli italiani. I neomalthusiani hanno ancora una volta sbagliato tutte le previsioni: non è in Cina che si muore per la crescita demografica, è in Occidente, ma per la ragione opposta.
Gli scenari per il futuro lasciano immaginare un ulteriore rafforzamento cinese. Una possibile guerra fredda tra Usa e Cina non avvantaggerà certo l'Occidente, ma provocherà un indebolimento di dollaro ed euro, crescita dell'inflazione e dei tassi di interesse, più Stato, più debito, meno crescita, meno globalizzazione, più autarchia e soprattutto una ulteriore decrescita della popolazione in Occidente, e perciò la sua fine. Ciò implicherà per molti Stati occidentali, che temono un declino del ruolo degli Usa dopo le elezioni, se perdesse Donald Trump, la tentazione di cinesizzarsi con alleanze strategiche con Pechino. Mi riferisco alla Nuova via della seta, agli accordi sul 5G, alla produzione di auto elettriche (la Cina ha il semi-monopolio del Litio, indispensabile per le batterie delle auto elettriche). Si direbbe che l'Europa (Italia inclusa) tema di non poter fare a meno di alleanze con la Cina. Il che rafforzerà Pechino ancora di più, è inevitabile.
Oggi la sola cosa che appare esser certa per l'Occidente è la decrescita economica e demografica. Una decrescita, persino auspicata dalla autorità morale della Chiesa cattolica, che sarà seguita dalla drastica riduzione di vecchi inutili e malati costosi da curare. Il cosidetto pragmatismo cinese fa già parte della nuova cultura occidentale inquinata dal nichilismo. È perciò probabile che la civiltà occidentale possa venire sostituita dalla civiltà cinese, grazie anche ad un misterioso supporto ricevuto dalla stessa nostra lungimirante Chiesa. Benedetto XVI era preoccupato per la crescita del potere economico della Cina in Europa, così contagiata dal nichilismo, immaginando che dalla Cina avremmo importato i suoi beni, ma anche i suoi valori. E Benedetto XVI era ben consapevole che con valori relativizzati, una morale cattiva scaccia la morale buona. Ed una civiltà scompare, sostituita da un'altra. Spesso però peggiore. Come nella storia del tiranno di Siracusa, Dionisio.
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Lo storico ed economista Giulio Sapelli: «Dopo Gibuti e Atene, il Dragone punta agli scali italiani. Dobbiamo creare un asse con Stati Uniti e Russia»Folgorati dal miraggio del consumismo e malati di nichilismo, abbiamo smesso di fare figli e delocalizzato la produzione. Dopo aver superato la crisi legata alla pandemia, l'Impero di mezzo rimpiazzerà la nostra civiltà con il plauso della ChiesaLo speciale contiene due articoliLa pandemia sta producendo delle forti conseguenze sul sistema portuale internazionale. Non soltanto dal punto di vista tecnico ed economico, ma anche geopolitico. Un fattore che vede in primo piano soprattutto l'iperattivismo della Cina. Per cercare di fare maggiore chiarezza sulla situazione, La Verità ha deciso di intervistare il professor Giulio Sapelli, presidente del comitato scientifico del Centro studi BlueMonitorLab. Professor Sapelli, qual è l'impatto della pandemia sul sistema portuale? «Il sistema portuale è un gateway. È una tipica via, come già ci aveva insegnato Venezia, che aveva costruito tutto un insieme di paratie sociosanitarie per impedire che le merci portassero delle pandemie. Adesso non sono solo le merci che portano le pandemie, ma in una via di globalizzazione e di traffico marittimo più rapido di un tempo, i virus hanno ancor più possibilità di mantenere la carica virale. Il grande cambiamento strutturale che ha avuto il commercio marittimo dal punto di vista tecnologico ha ridotto la percentuale degli esseri umani, ma gli esseri umani ci sono sempre. Nei porti c'è una relazione che naturalmente è molto più tecnologizzata e si possono tenere le distanze, però l'elemento pandemico è sempre presente. Soprattutto quando si tratta di un virus come questo, che deriva - ora ne siamo certi - da difetti di macellazione delle carni, in Stati come quello cinese, che è l'unico Paese al mondo che continua a non avere un criterio di purezza, legato alla macellazione degli animali vivi. Il porto è quindi il punto terminale di una catena pandemica, che la tecnologia paradossalmente non sa ancora come respingere. I porti devono per questo trasformarsi rapidamente in un presidio sanitario».Secondo il rapporto «Italian maritime economy 2020», la pandemia può offrire occasione per un rinnovamento delle catene di approvvigionamento. Che cosa ne pensa?«In primo luogo, bisogna usare il cosiddetto “Internet delle merci". Quindi avere la possibilità di uno screening attento sull'origine delle merci. Poi è molto importante la tracciabilità. Questa deve essere una prerogativa degli Stati, soprattutto quando si ha a che fare con Stati che hanno bassi criteri di sanificazione. Ci sono tecnologie che consentono di fare degli screening e soprattutto di usare i gas igienizzanti, come l'ozono. Non a caso, il prezzo di questi gas è cresciuto enormemente. La cosa che mi ha colpito - a differenza di quello che hanno fatto negli Stati Uniti - è che in Europa non è previsto nessun sussidio, nessun aiuto, per incentivare l'uso dei gas igienizzanti. Bisogna poi aumentare il grado di automazione del carico e scarico delle merci. Bisogna concentrarsi sul criterio del risparmio di manodopera, che vuol dire dedicare questa manodopera ad altri lavori, riqualificandola. Su questo si dovrebbe cominciare ad agire in modo coordinato: cosa che non mi pare si stia facendo. L'Organizzazione mondiale della sanità è stata totalmente assente, come se il mondo non dipendesse dal commercio internazionale via mare».Come giudica l'interesse nutrito dalla Cina nei confronti dei porti italiani? «La Cina vede nei porti italiani l'altra pedina nel suo gioco di dama, dopo Gibuti e dopo Atene. Abbiamo innanzitutto Gioia Tauro, mentre il prossimo colpo che i cinesi vorranno fare è sicuramente il porto di Taranto. La strategia della Cina è quella di comprare naturalmente le élite dei Paesi in cui investono oppure di eliminare per via giudiziaria coloro che si oppongono. L'Italia è la via d'accesso all'hinterland di Trieste e quindi ai Paesi dell'Est. C'è un accordo sino-tedesco per penetrare e in questo modo minacciare l'appartenenza atlantica dell'Europa». La Cina sta manifestando sempre più interesse per la Rotta del Mare del Nord. A che cosa punta esattamente Pechino? «Pechino punta alle stesse cose a cui puntano i russi. Già vent'anni fa, quando abbiamo visto i primi momenti di erosione della calotta polare, bisognava essere consapevoli che poteva diventare un modo per non passare più per Capo Horn o per Suez. Bisogna inoltre ricordare che noi abbiamo piantato la bandiera italiana nel Polo Nord, quindi anche noi potremmo avere un certo interesse, ma dovrebbe essere un interesse che l'Italia rende manifesto, non soltanto dal punto di vista scientifico. Tornando a Pechino, i cinesi vedono lì un asse di rafforzamento della potenza geopolitica. In questo è molto importante che gli americani mutino il loro atteggiamento con la Russia. E l'Italia dovrebbe lavorare in questo senso».Quindi lei mi sta dicendo che, se vogliono contenere l'influenza cinese sulla Rotta del Mare del Nord, gli Stati Uniti dovrebbero ricorrere a una distensione con la Russia?«Non c'è nessun dubbio. Ma basta guardare la carta geografica. I cinesi devono fare un lungo tratto di costa siberiana. Quindi c'è poco da fare, a meno che non trasportino su treno. Ma allora non ha più senso arrivare poi - che so - a Danzica o a un porto russo. Infatti i cinesi hanno fatto l'accordo del Gruppo di Shanghai».Negli Stati Uniti Joe Biden sta conducendo una campagna antirussa e ambientalista. Crede che una vittoria di Biden potrebbe favorire Pechino nella Rotta del Mare del Nord?«Se volesse favorire la Cina, disvelerebbe l'inganno cinese. Perché tutto quello che la Cina dice sul rispetto dei protocolli di Parigi è falso. Perché, se si va a vedere, la maggioranza della produzione di energia elettrica in Cina viene ancora fatta col carbone. Se Biden volesse allearsi con la Cina e nello stesso tempo mantenere le promesse ambientaliste, sicuramente non gli sarebbe possibile».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/la-cina-vuole-occupare-i-nostri-porti-col-consenso-di-berlino-2648502934.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="pechino-vince-perche-loccidente-si-suicida" data-post-id="2648502934" data-published-at="1603747961" data-use-pagination="False"> Pechino vince perché l’Occidente si suicida È sempre più evidente che, grazie al Covid 19, la Cina ha vinto sia la guerra economica che quella sanitaria, mentre noi in Occidente stiamo perdendo entrambe. Così il XXI secolo dovrebbe essere il secolo cinese. Ciò anche grazie al nichilismo che ha profanato e corrotto la nostra cultura nell'ultimo mezzo secolo. Abbiamo smesso di avere e cercare valori forti, abbiamo smesso di credere a qualcosa di trascendente, abbiamo smesso di fare figli e abbiamo conosciuto solo il ritmo frenetico del consumismo a debito necessario a compensare il crollo del Pil dovuto al crollo delle nascite. La Cina ne ha beneficiato perché la sua manodopera lavorava in condizioni di schiavitù, oppressa da una dittatura comunista e pragmatica. Eppure il prefetto della Accademia pontificia delle scienze riconosce che in Cina si vive la Dottrina sociale della Chiesa. Noi occidentali, illusi che meno figli equivalesse a sembrare più intelligenti e colti, nonché a diventare più ricchi, abbiamo compensato la decrescita con il consumismo. Per far crescere il nostro potere di acquisto e i consumi, per circa quarant'anni, abbiamo delocalizzato produzioni dai nostri Paesi in Cina, trasferendovi tutto: tecnologie, know how, capacità ed esperienze, e all'inizio anche capitali. Così noi abbiamo creato la nuova potenza economica del XXI secolo. In Cina, secondo i neomalthusiani di Stanford negli anni '70, sarebbero dovuti morire di fame centinaia di milioni di persone prima dell'anno 2000, a causa della crescita demografica. Invece ora la Cina si appresta a dominare il mondo con più di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti. In più, con questa pandemia, la Cina si rafforza in modo straordinario. Probabilmente non sapremo mai se il virus è stato inventato per qualche scopo o è stato solo un errore, possiamo solo immaginarne le conseguenze dirette ed indotte. La prima e più evidente conseguenza è un maggior indebolimento economico dell'Occidente e un ulteriore rafforzamento economico della Cina, che sembra essere uscita dalla crisi pandemica con una crescita economica che supera il 2%, a fronte di una decrescita del resto del mondo (Usa -5%, Europa -8%, America latina -8%). La seconda conseguenza, ancora poco evidente, è il rischio di potenziale «semi-sterminio» di vecchi e malati in Occidente grazie alla sconfitta sanitaria. La Cina invece ha vinto la guerra quasi senza vittime (se raccontano il vero), avendo avuto solo il 2% del totale dei deceduti americani e il 10% di quelli italiani. I neomalthusiani hanno ancora una volta sbagliato tutte le previsioni: non è in Cina che si muore per la crescita demografica, è in Occidente, ma per la ragione opposta. Gli scenari per il futuro lasciano immaginare un ulteriore rafforzamento cinese. Una possibile guerra fredda tra Usa e Cina non avvantaggerà certo l'Occidente, ma provocherà un indebolimento di dollaro ed euro, crescita dell'inflazione e dei tassi di interesse, più Stato, più debito, meno crescita, meno globalizzazione, più autarchia e soprattutto una ulteriore decrescita della popolazione in Occidente, e perciò la sua fine. Ciò implicherà per molti Stati occidentali, che temono un declino del ruolo degli Usa dopo le elezioni, se perdesse Donald Trump, la tentazione di cinesizzarsi con alleanze strategiche con Pechino. Mi riferisco alla Nuova via della seta, agli accordi sul 5G, alla produzione di auto elettriche (la Cina ha il semi-monopolio del Litio, indispensabile per le batterie delle auto elettriche). Si direbbe che l'Europa (Italia inclusa) tema di non poter fare a meno di alleanze con la Cina. Il che rafforzerà Pechino ancora di più, è inevitabile. Oggi la sola cosa che appare esser certa per l'Occidente è la decrescita economica e demografica. Una decrescita, persino auspicata dalla autorità morale della Chiesa cattolica, che sarà seguita dalla drastica riduzione di vecchi inutili e malati costosi da curare. Il cosidetto pragmatismo cinese fa già parte della nuova cultura occidentale inquinata dal nichilismo. È perciò probabile che la civiltà occidentale possa venire sostituita dalla civiltà cinese, grazie anche ad un misterioso supporto ricevuto dalla stessa nostra lungimirante Chiesa. Benedetto XVI era preoccupato per la crescita del potere economico della Cina in Europa, così contagiata dal nichilismo, immaginando che dalla Cina avremmo importato i suoi beni, ma anche i suoi valori. E Benedetto XVI era ben consapevole che con valori relativizzati, una morale cattiva scaccia la morale buona. Ed una civiltà scompare, sostituita da un'altra. Spesso però peggiore. Come nella storia del tiranno di Siracusa, Dionisio.
Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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