2020-05-31
La cattività non ci ha protetti, ma resi deboli
Le misure innaturali imposte dal governo hanno fatto leva sulla paura, più contagiosa e destabilizzante di qualsiasi malattia. L'incertezza del futuro causata dal lockdown trasforma il popolo in preda da campagna elettorale di chi è attaccato alla poltrona.Anche a causa del Covid-19 il mondo sta velocemente cambiando. La corte dei Giuseppi, sorta di riassunto raffazzonato del peggio del mondo di ieri e dell'altro ieri, ne è terrorizzata. La sua soluzione è per ora di fermare tutto e fingere di nulla. Soprattutto non vuole muoversi da dov'è, poltrone comprese, e quindi non può accettare che qualcuno si muova. Anzi, organizza per evitarlo uno Stato di polizia, con tanto di milizie di spioni raccattate in giro per controllare che tutti stiano fermi al loro posto, in casa. Tutti incollati al pc per sperimentare la nuova non-esistenza post-Covid, che con la scoperta del «lavoro da remoto» (che poi è il tinello di casa), distrugge in un colpo solo sia la socialità aziendale (incontri, sindacati, gruppi sportivi, eccetera), che quella famigliare. Colpita al cuore, quest'ultima, dall'imprevisto rientro in pianta stabile del padre, trasformato dall'«assente inaccettabile» da casa di prima, in «lavoratore da remoto» dell'azienda di adesso. Qualche lettore si chiederà come mai chi scrive, dopo aver diffuso nel mondo nei suoi libri l'idea dell'inaccettabilità dell'assenza paterna, ora si lamenti che finalmente stia a casa. Il fatto è che la presenza sostanziale, psicologica, non richiede necessariamente che il padre sia lì, fisicamente, con gli altri. Anzi, a dire il vero, il padre in casa tutto il giorno non c'era mai rimasto. È stato per millenni in giro a procurare il cibo per la famiglia; prima cacciando, poi coltivando, poi nella bottega artigiana, infine nell'industria e in azienda: questa è stata la sua presenza familiare, fortissima. Il confinamento in casa non garantisce la presenza psicologica e affettiva, e neppure la funzione paterna. Da noi, adesso, il padre è a casa perché, anche dopo la quarantena e la fine dell'epidemia conclamata, deve restarci, anche se così rischia che poi non ci sia più nessun lavoro, né nell'ufficio/fabbrica, né a casa «da remoto». Ed è molto preoccupato per questo.Nessun virus (o regime) è mai stato così potente da riuscire a imporre la quarantena oltre i 40 giorni, tanto è malsana e antivitale. Solo governanti terrorizzati da un futuro imprevisto, ma decisi a eternizzare il presente con le sue note e amate poltrone e stipendi, hanno pensato di permettersi questo lusso. Chiudere il Parlamento; riaprirlo giusto per processare l'avversario politico; liberare i gangster affinché non si ammalino; regolarizzare i clandestini venuti dal di là dei mari e multare i cittadini che vanno a trovare i parenti nel paese vicino; togliere per ragioni igieniche i treni puliti e veloci e lasciare circolare solo quelli lenti e mezzi rotti, con bagni scarsi; c'è del metodo in questo governare alla rovescia (o rovesciare il buon governo). La sfrontatezza è così estrema e stravagante nella sua audacia da produrre un effetto Hellzapoppin vagamente ipnotico e far venire la tentazione di lasciarli fare per vedere fin dove arrivano. Lo stile «tutto alla rovescia» del regime Giuseppino è in effetti unico, compresi i «pizzini» canaglieschi della magistratura, le stupidaggini dei virologi in tv, la tempistica sempre al contrario, per cui si lascia aperto e si brinda con i cinesi quando il loro virus ci sta assaltando e poi si tiene tutto chiuso, cercandolo infine ossessivamente quando è mezzo morto e gli scienziati dell'Imperial college si lamentano perché in queste condizioni non ci si può più fare nulla. Non bisogna però cedere perché il farti ridere (e intanto tenerti rinchiuso) potrebbe essere l'ultima arma del tiranno che ormai tira a campare, prendendo alla fine il suddito per fame, quando i suoi datori di lavoro «da remoto» saranno in gran parte falliti, così come i suoi fornitori, parrucchieri e baristi. Mantenere il potere grazie alla povertà e depressione indotta dal proprio malgoverno è infatti da sempre la tecnica dei tiranni poco creativi, ma sufficientemente furbi da capire che se tu rovini un popolo, magari poi ti basta un pezzo di pane o una mancia per tenerlo buono: lo spiegava già un secolo fa Vilfredo Pareto, uno dei fondatori della scienza politica. E lo ha confermato 30 anni fa la fine del «socialismo reale», con i suoi capi sovietici senza ideali, ma con tornaconti personali che nutrirono di depressione la lenta fine del comunismo. È necessario quindi opporre la luce della ricerca (la «Quest» dei Parsifal), con la sua ostinata speranza, al cinismo materialista, e lo slancio del fare bene al ripiegamento depresso. Ciò tra l'altro riguarda proprio il principale strumento usato in quest'operazione di ingabbiamento di interi popoli (con conseguente crisi economica): la lotta al virus combattuta con confinamenti prolungati e sospensione della attività produttive. Come ha spiegato il professore Thomas Hardtmuth, docente di Scienza dei servizi sanitari a Heidenheim: «La paura è molto più contagiosa dei virus» e gli effetti della sua diffusione possono avere conseguenze devastanti sui popoli, i Paesi colpiti, e le loro strutture produttive. È facile che «si esageri nella radicalità delle misure, cosa che in situazioni di paura collettiva può favorire anche il voto degli elettori perché chi le prende si presenta come «salvatore». Senza parlare poi dell'influenza degli Istituti virologici e del complesso industriale dei Pharma.La disoccupazione conseguente alle crisi provocate dai confinamenti prolungati fa però ammalare anche quelli che erano sani. «Noi non moriamo per i virus, ma per lo svilupparsi di immunodeficienze senza le quali nessun virus si può diffondere nel nostro organismo come una malattia grave». È nota la ricerca svolta durante l'influenza «spagnola» del 1918 a Boston e a San Francisco per testare il rischio di infezione su marines delinquenti in prigione. A 62 giovani uomini sani, 39 dei quali non avevano ancora avuto l'influenza, fu promessa la grazia se acconsentivano che si spruzzasse loro in bocca e in gola il muco nasale di persone gravemente malate, a sedersi al capezzale dei malati, e esporsi alla tosse e all'aria espirata dai malati: in nessun caso si verificò un contagio». La prospettiva della libertà aveva alzato difese immunitarie insormontabili. È infatti l'indebolimento delle difese che ci rende vittime delle malattie virali: quando queste scendono, i virus si diffondono e provocano malattie gravi. In ricerche condotte sia a San Francisco che a Osaka, in Giappone, si è visto come con la disoccupazione e la povertà le difese immunitarie scendano e diminuiscano le cellule killer dei fattori patogeni, mentre con il lavoro e la scomparsa di timori esistenziali si ripristinano le difese e la salute. L'aggressività e pericolosità del virus, insomma, dipende dalla «situazione immunitaria generale di una società». Di ciò purtroppo, in questi mesi non si è parlato quasi per niente.Una società impaurita e indebolita da un'economia vacillante è facile preda di molteplici disagi, virus compresi. Se ne convincano i ciarlieri e inconcludenti Giuseppi, e lascino lavorare l'Italia.
Palazzo Berlaymont, sede della Commissione europea (Getty Images)
Manfred Weber e Ursula von der Leyen (Ansa)
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Ursula von der Leyen (Ansa)