
Avevano elaborato e portato a compimento un piano geniale e rischiosissimo. Il 20 giugno 1942 rubarono delle divise da Ss, si impadronirono di un'automobile e uscirono dal lager dopo aver incrociato il vicecomandante, che ricambiò i saluti militari.Il pomeriggio del 20 giugno 1942 il vicecomandante di Auschwitz stava tornando a cavallo da un controllo al Buna-Werke, quando sulla strada per il lager aveva incrociato un'automobile Steyr 220 con quattro persone a bordo, di cui tre Ss che gli avevano rivolto il saluto. Aveva risposto e poi aveva proseguito al trotto verso i cancelli. L'Ss-Haupsturmführer Hans Aumeier aveva notato pure che il militare alla guida non doveva essere molto pratico della zona, perché un paio di volte aveva sbagliato direzione, ma non si era insospettito più di tanto. Il comandante Rudolf Höss non c'era, quel giorno, altrimenti avrebbe assistito alla più spettacolare evasione che si potesse concepire nella «fabbrica dello sterminio». Poco dopo le ore 15 l'automobile con a bordo un Ss-Oberscharführer, due Ss con elmetto e armi automatiche e un uomo incatenato si era presentata al cancello principale per guadagnare l'uscita. Al soldato di guardia era stato mostrato il lasciapassare che veniva controllato con superficialità: quella Steyr faceva parte della dotazione dell'autoparco, la sentinella non aveva alcun motivo per non alzare la barriera. La vettura si allontana, passa il ponte sul fiume Sola e incrocia persino le colonne di prigionieri al lavoro sotto lo sguardo vigile delle Ss e dei kapo. I quattro a bordo non sono tre Ss e un prigioniero, bensì quattro detenuti polacchi: Eugeniusz Bendera, Stanislaw Gustaw Jaster, Józef Lempart e Kazimierz Piechowski. Hanno elaborato e portato a compimento un piano geniale e rischiosissimo. I tedeschi li avevano assegnati al garage del Truppenwirtschaftlager e qui avevano deciso di sfidare la sorte. Con la mollica di pane avevano preso le impronte delle chiavi dell'armeria e del magazzino delle uniformi, quindi le avevano fatte riprodurre nel laboratorio di ferramenta. Altri polacchi avevano falsificato i lasciapassare e altri ancora avevano fornito i codici per i documenti che venivano solitamente cambiati dai tedeschi ogni settimana. All'interno del lager esisteva una straordinaria e ancora oggi misconosciuta organizzazione clandestina di resistenza, infiltrata in tutti i settori del campo, creata dall'uomo definito «il più coraggioso tra i coraggiosi»: il capitano di cavalleria Witold Pilecki che di proposito nel settembre 1940 si era fatto rinchiudere ad Auschwitz, dove resterà 936 giorni col falso nome di Tomasz Serafinski prima di evadere a sua volta. L'organizzazione in questo caso aveva funzionato come una macchina con gli ingranaggi perfetti e ben oliati. I quattro che avevano deciso di evadere si erano vestiti con le uniformi delle Ss, avevano portato via la Steyr all'autoparco comandato dall'Ss-Haupsturmführer Paul Kreuzmann e avevano giocato il tutto per tutto con grande sangue freddo. Quella vettura nera era stata successivamente abbandonata in un boschetto a un'ottantina di chilometri da Auschwitz, nei pressi di Stary Sącz, dove i polacchi avevano indossato abiti civili e si erano divisi.Jaster era latore di un rapporto del capitano Pilecki da inoltrare alla resistenza polacca, l'Armia Krajowa, e quindi aveva preso la direzione di Varsavia. La sera, ad Auschwitz, quando la fuga in automobile era stata scoperta, i tedeschi schiumavano rabbia. È lo stesso Pilecki a raccontarlo in un suo rapporto: «Aumeier è quasi impazzito, si strappava i capelli dalla testa, urlava che li aveva pure incontrati. Poi ha scagliato il berretto sul pavimento... ed è scoppiato in una sonora risata. Non abbiamo avuto né rappresaglie né esecuzioni né appelli sull'attenti». Da febbraio le rappresaglie collettive erano state sospese su ordine di Berlino, ma i tedeschi avevano subito scatenato la caccia all'uomo. Senza esito. La beffa peraltro non consisteva solo nella fuga in automobile. Quando la Steyr era stata ritrovata, sul sedile c'era una lettera indirizzata ad Aumeier, tramite la quale gli evasi si scusavano per aver dovuto rubare, ma sottolineando che non c'era altro modo per andare via da Auschwitz. Questa fuga faceva passare in secondo piano l'eco di quella del 28 marzo, quando il prigioniero politico (triangolo rosso) Franz Doschek si era impadronito nel deposito vestiario di un'uniforme da Ss, aveva inforcato una bicicletta del Kommando Führerheim, e pedalando era arrivato al cancello che le guardie gli avevano aperto. Ben altra sorte, invece, per il tentativo di evasione di massa di circa duecento detenuti politici polacchi programmata per il 10 giugno. Facevano parte della Compagnia di disciplina di Birkenau ed erano stati assegnati al lavoro al Königsgraben, un canale in costruzione nei pressi del corso della Vistola. Il piano prevedeva di assalire le Ss più vicine non appena fosse stato impartito l'ordine di fine lavoro con il consueto trillo del fischietto. Ma la forte pioggia aveva indotto l'Ss-Hauptscharführer Otto Moll a fischiare all'insolito orario delle 16.30, per una pausa. Il segnale era stato mal interpretato: una parte dei prigionieri guidati da Henryk Lachowitz erano saltati addosso alle guardie, altri, spaesati, erano stati bloccati dai kapo, altri ancora, non avendo capito più nulla, non avevano fatto nulla. Solo nove detenuti riusciranno a fuggire. Come informa Pilecki, che aveva quattro agenti dell'organizzazione in quel gruppo, «gli uomini delle Ss hanno ucciso tutti i prigionieri, circa settanta di essi. I kapo tedeschi hanno attivamente collaborato a sopprimere i detenuti».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





