2024-10-11
Le Big tech inguaiano Kamala con l’antitrust
Diversi colossi del Web, che finanziano Kamala Harris, spingono per farle silurare Lina Khan, a capo dell’authority per la concorrenza. Scenario che fa infuriare l’ala dem più a sinistra e avvantaggia i repubblicani, in rimonta negli Stati decisivi della Rust Belt.Che Kamala Harris sia in difficoltà con alcuni pezzi della sinistra americana, non è ormai una novità. Ben due sindacati, quello degli autotrasportatori e quello dei vigili del fuoco, le hanno rifiutato l’endorsement. E anche gli arabo-americani, storicamente in maggioranza elettori dem, la stanno abbandonando. D’altronde, se leggiamo i sondaggi in prospettiva storica, la vicepresidente sta andando peggio di Joe Biden e di Hillary Clinton nei tre Stati operai di Michigan, Pennsylvania e Wisconsin. Come se non bastasse, la Harris rischia adesso defezioni a sinistra anche su un altro fronte: quello dell’antitrust. Martedì, il fondatore del comitato «Business Leaders for Harris», il miliardario Mark Cuban, ha auspicato che, da presidente, la candidata dem licenzi Lina Khan: la direttrice della Federal Trade Commission (Ftc), nominata da Joe Biden nel 2021. In particolare, Cuban l’ha accusata di voler «spezzettare le grandi aziende tecnologiche», mettendo così a rischio la capacità degli Stati Uniti di primeggiare nel delicato settore dell’intelligenza artificiale. Parole, quelle del businessman, che hanno innescato reazioni irritate a sinistra. «Se qualcuno si avvicina a Lina Khan, scoppierà una vera e propria rissa», ha tuonato la deputata Alexandria Ocasio-Cortez. «E questa è una promessa. Lei dimostra che questa amministrazione combatte per i lavoratori. Sarebbe una pessima prova di leadership rimuoverla», ha aggiunto. «Cuban si sbaglia. Lina Khan è la migliore presidente della Ftc nella storia moderna. Affrontando l’avidità delle aziende e i monopoli illegali, Lina sta facendo un lavoro eccezionale», ha affermato il senatore Bernie Sanders. D’altronde, già a luglio, alcuni potenti finanziatori della Harris avevano effettuato pressioni su di lei per silurare la Khan, in caso di vittoria a novembre. A esprimersi in questo senso erano stati il cofondatore di Linkedin, Reid Hoffman, e il presidente di Expedia, Barry Diller. Anche in quel caso, Sanders si schierò a difesa della Khan. A rendere ancora più scomoda la posizione della Harris sta il fatto che, secondo il Financial Times, la vicepresidente avrebbe recentemente ricevuto il ceo di Visa, Ryan McInerny, nella sua residenza di Washington: un meeting con cui, secondo la testata, la Harris avrebbe cercato di ottenere il suo sostegno. Eppure, nel 2022, la Ftc aprì un’indagine su Visa per sospetta limitazione della concorrenza. Non solo. Appena il mese scorso, il Dipartimento di Giustizia, vale a dire la stessa amministrazione Biden-Harris, ha formalmente fatto causa alla società, accusandola di aver monopolizzato il mercato statunitense delle carte di debito. Ma non è finita qui. La Harris si è infatti preparata al dibattito televisivo di settembre sulla Cnn assieme a Karen Dunn: l’avvocatessa che sta rappresentando Google in una causa antitrust intentata proprio dal Dipartimento di Giustizia. Storicamente la Harris non è mai davvero stata una paladina antitrust: tutt’altro. Anzi, nel 2020 fu scelta da Biden come vice proprio per questa ragione. L’alternativa era infatti la senatrice dem, Elizabeth Warren, che auspicava la linea dura contro lo strapotere dei colossi del web. La Harris, di contro, intratteneva stretti rapporti con la Silicon Valley e, all’epoca, contava soprattutto sul sostegno dell’allora direttrice operativa di Facebook, Sheryl Sandberg. Scegliendo la Harris, Biden poté quindi tendere un ramoscello d’ulivo ai big del web, che garantirono a loro volta il proprio supporto alla sua corsa elettorale (ricordate la censura con cui Facebook e Twitter colpirono lo scoop del New York Post su suo figlio Hunter?). E adesso la vicepresidente è in un dilemma. Certamente gode di finanziatori potentissimi: secondo Cnn, da quando è scesa in campo a luglio, ha raccolto la mastodontica cifra di un miliardo di dollari (più del doppio di quanto rastrellato da Donald Trump nello stesso arco di tempo). Tuttavia, come dimostra il caso della Khan, non è escludibile che questi finanziatori possano finire con l’innescare un effetto boomerang, alienando alla candidata dem le simpatie di quella sinistra che invoca un approccio severo in materia di antitrust. Uno scenario da incubo per la Harris, che sa di non potersi permettere defezioni progressiste nella Rust Belt, se non vuole fare la fine della Clinton nel 2016. Non a caso, Trump sta cercando di sfruttare le vulnerabilità dell’avversaria sull’antitrust: è anche per questo che ha scelto come proprio vice JD Vance. Già a febbraio, costui si era espresso a favore della Khan. Una posizione, questa, che ha ribadito ad agosto: dopo, cioè, essere stato formalmente investito come running mate del candidato repubblicano. È quindi chiaro che la questione antitrust è entrata nella strategia con cui il tycoon sta cercando di guadagnare terreno tra i colletti blu, storicamente dem, della Rust Belt. E, almeno guardando ai sondaggi, starebbe centrando l’obiettivo. Ieri, una rilevazione di Emerson dava Trump lievemente avanti in Pennsylvania, registrando al contempo un serrato testa a testa in Michigan e Wisconsin.