2022-12-12
Jimmy Lai condannato a cinque anni e nove mesi di prigione
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La mannaia di Pechino è tornata ad abbattersi sui dissidenti di Hong Kong. Il magnate pro democrazia è stato condannato da un tribunale locale per frode, vedendosi inoltre comminata una multa dal valore di due milioni di dollari di Hong Kong, circa 243.000 euro.Non si arresta la stretta repressiva del Dragone su Hong Kong. Oltre ad essere stato in custodia cautelare per quasi due anni, Jimmy Lai sta anche affrontando un processo con l’accusa di aver violato la controversa legge sulla sicurezza nazionale dell’ex colonia britannica: norma che, approvata su input del Partito comunista cinese nel giugno del 2020, ha contribuito significativamente a reprimere il movimento pro democrazia. È d’altronde in questo quadro che Pechino è riuscita a ottenere l’anno scorso la chiusura dell’Apple Daily: testata giornalistica di opposizione al regime cinese, fondata dallo stesso Jimmy Lai. Nonostante il Dragone continui a sostenere che quella di Hong Kong risulti una questione interna, le cose non stanno esattamente così. Se è vero che l’ex colonia britannica è finita sotto il controllo cinese nel 1997, è altrettanto vero che la Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984 sanciva il principio dell’“un Paese, due sistemi”: un principio che di fatto Xi Jinping sta sistematicamente smantellando da almeno tre anni. Il che pone potenzialmente un problema anche per Taiwan, che rischia da tempo di ritrovarsi a dover fronteggiare un’invasione da parte della Repubblica popolare cinese. Tra l’altro, oltre alla questione delle sue libertà democratiche in oggettivo pericolo, l’isola sta diventando progressivamente il centro dello scontro tra Washington e Pechino a causa della sua strategicità, specialmente nel delicatissimo settore dei semiconduttori. Il punto è che, almeno al momento, l’amministrazione Biden non risulta il massimo della compattezza. Se sul versante della tutela del comparto tecnologico sta effettivamente tenendo la barra dritta assieme al Congresso, su quelli che sono i rapporti col Dragone la situazione appare più complessa. Certo: ci sono voci nell’amministrazione americana a favore della difesa dei diritti umani a Hong Kong, nel Tibet e nella regione dello Xinjiang (un esempio è, da questo punto di vista, il segretario di Stato, Tony Blinken). Dall’altra parte, non mancano tuttavia le “colombe”. Il segretario al Tesoro, Janet Yellen, preme da tempo per revocare i dazi imposti da Donald Trump, mentre l’inviato speciale per il clima, John Kerry, è notoriamente favorevole a una distensione nei rapporti con Pechino, in nome di una collaborazione in materia ambientale. Non solo. I riflettori tornano ad accendersi su Hong Kong in un periodo piuttosto convulso della presidenza di Xi. E’ pur vero che quest’ultimo ha recentemente ottenuto un inedito terzo mandato da segretario generale del Partito comunista, consolidando così il suo già considerevole potere. Tuttavia costui sconta anche forte malcontento per i deludenti risultati economici registrati dal Dragone in questi anni e per l’impopolare politica dello zero Covid: una politica che ha recentemente innescato numerose proteste in Cina.