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2021-10-18
I radar italiani e la guerra fredda
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Un radar An-Fps-8 in uso in Italia e un Mig-15 in volo (wikicommons)
Dopo il periodo di "buio" seguito alla fine della guerra nel 1945, la rinata Aeronautica Militare Italiana crebbe gradualmente di importanza a causa dell'acutizzarsi delle tensioni tra i blocchi alla base della Guerra Fredda. Già dal 1949, anno di fondazione del Patto Atlantico, le forze militari italiane ricevettero gli aiuti americani dei piani Oso (Off-shore Procurement) e Mdap (Mutual Defence Assistance Program). Gli italiani e l'Aeronautica furono immediatamente inclusi nella costruzione della rete di difesa, che prevederà poco più tardi l'installazione dei missili balistici. Dopo il 1950 gli stormi dell'AM riceveranno a titolo gratuito velivoli di fabbricazione americana, come i T-33 da trasporto e i caccia F-84 ed F-86. Il motivo della particolare attenzione di Washington alla struttura difensiva e in particolare di quella aerea era dovuta al fatto che l'Italia era situata in una posizione estremamente strategica, a "portata di tiro" dei paesi satellite dell'Unione Sovietica come Bulgaria ed Ungheria, nonché confinante con la Jugoslavia che, seppur non allineata a Mosca, era considerata un pericoloso vicino. Per coordinare le attività di difesa aerea e di intercettazione sul territorio italiano fu necessario potenziare le obsolete strutture della Dat, la Difesa aerea territoriale, integrandole progressivamente con il sistema unificato progettato dalla Nato che prevedeva un sistema di intercomunicazione tra apparecchiature radar in grado di coprire l'Europa occidentale e controllare a distanza l'eventuale provenienza dall'est di velivoli nemici con le insegne dei paesi del Patto di Varsavia. Il territorio nazionale fu diviso in settori, ognuno dei quali controllava una parte di spazio aereo per mezzo di un nome in codice. A capo dei diversi settori vi erano tre centri maggiori, o Roc (Regional Operation Center) situati nel nord, nel centro e nel sud d'Italia. Si trattava di centri di comando la cui sicurezza e segretezza fu particolarmente curata, spesso costruiti all'interno di gallerie a prova di attacco nucleare. Per quanto riguardava il nordest, la zona più sensibile per la vicinanza della Jugoslavia, il Roc fu costruito nelle viscere del monte Venda, una piccola altura non distante dai colli Euganei nel padovano. Costruito nei primi anni cinquanta, fu totalmente finanziato dagli Americani e prese il nome di 1° Roc (o Soc- Sector Operation Center) con il nome in codice Nato di "Rupe". Durante gli anni della massima attività operativa erano impiegati a turno circa 500 militari nelle specialità tecniche di Aiuto Controllore Difesa Aerea (Acda) e Vigilanza Aeronautica Militare (Vam). La struttura della base radar era impressionante, con il suo lungo tunnel a spirale che percorreva totalmente l'interno del monte per una lunghezza complessiva di oltre un chilometro. Si trattava di un punto nodale per il sistema di difesa aerea della Nato in quanto direttamente dipendente dal comando Airsouth, il centro di controllo che gestiva l'intera zona dell'Europa meridionale. Le sue strutture radar permettevano di controllare il traffico aereo fino alla zona di Roma, dove il controllo dello spazio era affidato al secondo grande centro, il 2° Roc/Soc di Monte Cavo, un'altura di 950 mt. dei Colli Albani, in provincia di Roma. Si trattava di un altro comando in bunker che oltre alle funzioni di controllo e interdizione si sarebbe dovuto occupar del rischiaramento dei reparti di volo dell'Aeronautica Militare in caso di guerra con i Paesi del blocco sovietico. All'interno della struttura, in caso di conflitto, avrebbero dovuto trasferirsi il Presidente della Repubblica, i membri del Governo italiano e le massime cariche per il mantenimento delle istituzioni democratiche i quali sarebbero stati alloggiati nel bunker antiatomico ricavato nel cuore del monte. A Sud, la vigilanza del cielo a oriente della Penisola era affidato al 3° Roc/Soc di Martina Franca in Puglia, posto a 50 metri di profondità nel sottosuolo, costruito nel 1953 e oggi sede del 16°Stormo.
La rete della copertura radar si completava con i cosiddetti Crc, o Control and Report Center, i quali riportavano i dati provenienti dalle installazioni radar al centro di controllo Nato di competenza. Si trovavano principalmente in zone isolate e montane con funzione di identificazione dei velivoli, un ruolo oggi ricoperto dagli aerei Awacs. Tra i più importanti e suggestivi furono i centri radar sorti sulle alture dell'Italia nord-orientale, data la posizione strategica della zona aerea da questi ultimi scandagliata.
Il primo in ordine cronologico fu il 16° Crc (poi dal 1986 Gram -Gruppo Radar Aeronautica Militare) inaugurato nel 1958 nei pressi del Plose, altura sopra Bressanone a 2.486 metri di quota, e battezzato Monte Telegrafo. La struttura era composta da una base logistica a valle in località Plancios e la base operativa a monte, collegate da un impianto funiviario dedicato che sorvolava gli impianti sciistici civili e raggiungeva la vetta dove era installato un impianto radar che aveva la funzione di coprire il cono d'ombra del radar dell'aeroporto di Udine-Campoformido, a cui fu assegnato il nome in codice "Bora". Monte Telegrafo dipendeva dal 1° Roc di Monte Venda ed era operato da circa 100 militari di leva tra Acda e Vam. L'impianto era un radar molto utilizzato in ambito Nato, del tipo An-Fps-8 con portata di circa 250 miglia nautiche in linea d'aria (463 Km) che permetteva di controllare il traffico aereo fin dentro ai confini dei Paesi oltrecortina, in Austria e in Baviera. Il Monte Telegrafo rimase in funzione fino al 1978 e quindi dismesso, essendo rimasto in funzione 24 ore su 24 tutti i giorni dell'anno. Le strutture sono ancora presenti, seppure in evidente stato di abbandono mentre il radar è stato smantellato dopo la dimissione
Un'installazione simile a quella di Bressanone si trovava sulle alpi carniche sopra l'abitato di Pontebba (Udine) a 2.000 metri di quota. Chiamato in codice "Cedrone" fu progettato nel 1969 per essere installato sulla cima del monte Scinauz, una montagna rocciosa ed impervia accessibile solo per mezzo di sentieri esposti e pericolosi. Come nel caso dell'impianto del Monte Telegrafo la stazione radar del Scinauz fu collegata tramite una funivia molto ardita, che nell'ultima lunga campata sorvolava la vallata a oltre 800 metri dal suolo (un record per l'epoca). Anche sul monte friulano fu installato il radar An-Fps/8 poi ammodernato col successivo Fps/88. A differenza però della stazione del 16° Cram del Plose, le apparecchiature dello Scinauz erano già remotizzate e controllate dalla base "Lame" di Concordia Sagittaria nei pressi di Portogruaro. Quest'ultima era un importante centro Nato nel compito di Early Warning e Crc, base del 13° Gruppo Radar dell'Aeronautica militare e sostituì nel 1968 il dismesso centro di Udine-Campoformido. Numerosi furono gli interventi di "Lame" durante gli anni della guerra fredda, nell'identificazione e intercettazione di velivoli non identificati, fuori rotta oppure senza la comunicazione del piano di volo. Numerosi furono gli allarmi "scramble" ai Reparti volo quando i caccia Jugoslavi lambivano di proposito lo spazio aereo per testare le capacità di reazione dell'aviazione italiana. L'aggiunta del radar del monte Scinauz permise di estendere il range del controllo dello spazio aereo fino all'Ungheria, dopo alcuni episodi avvenuti a cavallo tra gli anni 60 e 70 descritti di seguito. Il Monte Scinauz e il 17° Gruppo Radar che lo gestiva rimasero operativi fino a ben oltre la caduta del muro di Berlino, quando ne fu deciso l'abbandono definitivo nel 2001. Concordia Sagittaria (base Lame) è tuttora operativa come anche se remotizzata e controllata dal Comando Operativo Forze Aeree di Poggio Renatico (Ferrara) continuando l'attività come 113ma Squadriglia Radar Remota.
Sfuggire ai radar, per la libertà. I Mig atterrati in Italia.
Durante l'attività operativa del sistema di difesa aerea italiano negli anni della guerra fredda, vi furono numerose segnalazioni di aerei "sospetti" ai confini dello spazio aereo italiano, spesso identificati come caccia Jugoslavi in addestramento. Per tre volte le apparecchiature italiane captarono i segnali di jet non identificati che riuscirono a sorvolare i cieli italiani e ad atterrare nel territorio nazionale.
Il primo episodio, quello che si verificò nell'anno di maggior tensione tra i blocchi, avvenne nei cieli della Puglia il 20 gennaio 1962. Nelle prime ore del pomeriggio, proveniente dall'Adriatico, comparve la sagoma di un caccia poi identificato come un Mig-17. Agganciato dai radar di Gioia del Colle e dalle apparecchiature di early warning del 3°Roc di Martina Franca, il velivolo compì una virata proprio in direzione delle installazioni missilistiche pugliesi. Prima ancora che potesse essere intercettato dai caccia italiani, il Mig compì un atterraggio di fortuna in un campo in località Landone, nei pressi di Acquaviva delle Fonti (Bari). Il Mig terminò la sua corsa danneggiandosi contro i muretti a secco dei campi, sotto lo sguardo attonito di due contadini. Si scoprì che si trattava di una caccia bulgaro ai cui comandi era rimasto, ferito ma non in pericolo di vita, il sottotenente pilota Solakov. Trasportato in ospedale a Bari, il militare dichiarò di essere fuggito dal regima comunista di Sofia e di avere intenzione di chiedere asilo politico in Occidente. Temendo l'origine spionistica del volo, le apparecchiature fotografiche del caccia furono esaminate ma senza che queste potessero fornire elementi sulla missione, in quanto Solakov aveva di proposito azionato il, comando che bruciava le pellicole in caso di caduta in mani nemiche dell'aereo. Inizialmente comparsa su tutti i quotidiani nazionali, il seguito dell'indagine fu volutamente celata ai media in quanto in Italia la Democrazia Cristiana (e in primis Aldo Moro che era originario di quelle terre) voleva evitare tensioni insanabili con il Pci nell'anno che avrebbe inaugurato il periodo dei partiti di centro-sinistra.
Gli altri due episodi si verificarono a poca distanza l'uno dall'altro ed entrambi in territorio friulano, sei anni dopo il caccia bulgaro attirato in Puglia. Il primo ebbe come teatro dei fatti il cielo di Osoppo il 14 agosto 1969, quando il radar del monte Scinauz non era ancora stato costruito. Protetto nell'ultima parte del volo dalle strette valli secondarie dell'Austria, un vecchio Mig 15 con le insegne dell'Aeronautica militare ungherese riuscì ad eludere volando radente al suolo i radar di Udine e di Concordia Sagittaria. Il pilota, molto abile ai comandi, aveva studiato le carte della zona individuando una pista di atterraggio costruita dalla Luftwaffe durante la guerra. Inadeguata per una caccia a reazione, fu utilizzata comunque da Biro, che grazie ad una manovra magistrale riuscì ad evitare le abitazioni di due muratori, distruggendo il carrello anteriore e uscendo sotto shock ma illeso. Raggiunto dai proprietari delle case, il pilota ungherese corse lontano dal caccia, in questo caso armato, le cui munizioni cominciarono ad esplodere distruggendolo parzialmente. Dall'episodio di Osoppo nacque l'esigenza di coprire il cono d'ombra delle montagne e di arrivare con i radar fino al confine ungherese, compito che sarà affidato alle apparecchiature del 17° Gruppo Radar del Monte Scinauz.
Tuttavia, prima che i caccia italiani potessero partire su allarme, un altro episodio del tutto simile al precedente e a poca distanza da Osoppo si verificò l'anno successivo mentre il radar di Scinauz era ancora in fase di realizzazione. Anche in questo caso, era il 7 aprile 1970, la sagoma di un vetusto Mig- 15 sbucò dalle alpi friulane. Il pilota era un allievo di Biro, Sandor Zabocki, con il quale aveva preparato i piani per la riuscita fuga ad Osoppo. Anche Zabocki scelse una aviosuperficie in abbandono dalla guerra (ancora oggi esistente e visibile sulle mappe digitali), l'aeroporto di Risano che, in linea d'aria, si trova a poca distanza dalla base di Rivolto sede delle Frecce Tricolori. In quest'ultimo caso non vi fu neppure bisogno di far decollare gli intercettori italiani perché il pilota ebbe l'accortezza di qualificarsi via radio ai controllori e di dichiarare l'atterraggio di emergenza sulla pista dismessa. Dal 1972 l'occhio del monte Scinauz rese praticamente impossibile l'accesso ai cieli del nordest dei caccia provenienti dall'Ungheria, che non si presentarono mai più a toccare il suolo friulano.
Oggi il sistema di protezione e difesa aerea affidato all'Aeronautica include molte delle installazioni nate durante gli anni della guerra fredda, ancora in funzione ma reumatizzate e controllate dalla base di Poggio Renatico nel ferrarese. I radar del monte Scinauz e del Monte telegrafo sono state dismessi e buona parte delle strutture sono ancora presenti come memoria di quegli anni in cui la terza guerra mondiale parve essere alle porte.
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Dal 1950 l'Italia fu un'area nevralgica nel conflitto tra i blocchi. L'attività e lo sviluppo dei radar dell'Aeronautica Militare nel sistema di difesa aerea della Nato.Dopo il periodo di "buio" seguito alla fine della guerra nel 1945, la rinata Aeronautica Militare Italiana crebbe gradualmente di importanza a causa dell'acutizzarsi delle tensioni tra i blocchi alla base della Guerra Fredda. Già dal 1949, anno di fondazione del Patto Atlantico, le forze militari italiane ricevettero gli aiuti americani dei piani Oso (Off-shore Procurement) e Mdap (Mutual Defence Assistance Program). Gli italiani e l'Aeronautica furono immediatamente inclusi nella costruzione della rete di difesa, che prevederà poco più tardi l'installazione dei missili balistici. Dopo il 1950 gli stormi dell'AM riceveranno a titolo gratuito velivoli di fabbricazione americana, come i T-33 da trasporto e i caccia F-84 ed F-86. Il motivo della particolare attenzione di Washington alla struttura difensiva e in particolare di quella aerea era dovuta al fatto che l'Italia era situata in una posizione estremamente strategica, a "portata di tiro" dei paesi satellite dell'Unione Sovietica come Bulgaria ed Ungheria, nonché confinante con la Jugoslavia che, seppur non allineata a Mosca, era considerata un pericoloso vicino. Per coordinare le attività di difesa aerea e di intercettazione sul territorio italiano fu necessario potenziare le obsolete strutture della Dat, la Difesa aerea territoriale, integrandole progressivamente con il sistema unificato progettato dalla Nato che prevedeva un sistema di intercomunicazione tra apparecchiature radar in grado di coprire l'Europa occidentale e controllare a distanza l'eventuale provenienza dall'est di velivoli nemici con le insegne dei paesi del Patto di Varsavia. Il territorio nazionale fu diviso in settori, ognuno dei quali controllava una parte di spazio aereo per mezzo di un nome in codice. A capo dei diversi settori vi erano tre centri maggiori, o Roc (Regional Operation Center) situati nel nord, nel centro e nel sud d'Italia. Si trattava di centri di comando la cui sicurezza e segretezza fu particolarmente curata, spesso costruiti all'interno di gallerie a prova di attacco nucleare. Per quanto riguardava il nordest, la zona più sensibile per la vicinanza della Jugoslavia, il Roc fu costruito nelle viscere del monte Venda, una piccola altura non distante dai colli Euganei nel padovano. Costruito nei primi anni cinquanta, fu totalmente finanziato dagli Americani e prese il nome di 1° Roc (o Soc- Sector Operation Center) con il nome in codice Nato di "Rupe". Durante gli anni della massima attività operativa erano impiegati a turno circa 500 militari nelle specialità tecniche di Aiuto Controllore Difesa Aerea (Acda) e Vigilanza Aeronautica Militare (Vam). La struttura della base radar era impressionante, con il suo lungo tunnel a spirale che percorreva totalmente l'interno del monte per una lunghezza complessiva di oltre un chilometro. Si trattava di un punto nodale per il sistema di difesa aerea della Nato in quanto direttamente dipendente dal comando Airsouth, il centro di controllo che gestiva l'intera zona dell'Europa meridionale. Le sue strutture radar permettevano di controllare il traffico aereo fino alla zona di Roma, dove il controllo dello spazio era affidato al secondo grande centro, il 2° Roc/Soc di Monte Cavo, un'altura di 950 mt. dei Colli Albani, in provincia di Roma. Si trattava di un altro comando in bunker che oltre alle funzioni di controllo e interdizione si sarebbe dovuto occupar del rischiaramento dei reparti di volo dell'Aeronautica Militare in caso di guerra con i Paesi del blocco sovietico. All'interno della struttura, in caso di conflitto, avrebbero dovuto trasferirsi il Presidente della Repubblica, i membri del Governo italiano e le massime cariche per il mantenimento delle istituzioni democratiche i quali sarebbero stati alloggiati nel bunker antiatomico ricavato nel cuore del monte. A Sud, la vigilanza del cielo a oriente della Penisola era affidato al 3° Roc/Soc di Martina Franca in Puglia, posto a 50 metri di profondità nel sottosuolo, costruito nel 1953 e oggi sede del 16°Stormo.La rete della copertura radar si completava con i cosiddetti Crc, o Control and Report Center, i quali riportavano i dati provenienti dalle installazioni radar al centro di controllo Nato di competenza. Si trovavano principalmente in zone isolate e montane con funzione di identificazione dei velivoli, un ruolo oggi ricoperto dagli aerei Awacs. Tra i più importanti e suggestivi furono i centri radar sorti sulle alture dell'Italia nord-orientale, data la posizione strategica della zona aerea da questi ultimi scandagliata. Il primo in ordine cronologico fu il 16° Crc (poi dal 1986 Gram -Gruppo Radar Aeronautica Militare) inaugurato nel 1958 nei pressi del Plose, altura sopra Bressanone a 2.486 metri di quota, e battezzato Monte Telegrafo. La struttura era composta da una base logistica a valle in località Plancios e la base operativa a monte, collegate da un impianto funiviario dedicato che sorvolava gli impianti sciistici civili e raggiungeva la vetta dove era installato un impianto radar che aveva la funzione di coprire il cono d'ombra del radar dell'aeroporto di Udine-Campoformido, a cui fu assegnato il nome in codice "Bora". Monte Telegrafo dipendeva dal 1° Roc di Monte Venda ed era operato da circa 100 militari di leva tra Acda e Vam. L'impianto era un radar molto utilizzato in ambito Nato, del tipo An-Fps-8 con portata di circa 250 miglia nautiche in linea d'aria (463 Km) che permetteva di controllare il traffico aereo fin dentro ai confini dei Paesi oltrecortina, in Austria e in Baviera. Il Monte Telegrafo rimase in funzione fino al 1978 e quindi dismesso, essendo rimasto in funzione 24 ore su 24 tutti i giorni dell'anno. Le strutture sono ancora presenti, seppure in evidente stato di abbandono mentre il radar è stato smantellato dopo la dimissioneUn'installazione simile a quella di Bressanone si trovava sulle alpi carniche sopra l'abitato di Pontebba (Udine) a 2.000 metri di quota. Chiamato in codice "Cedrone" fu progettato nel 1969 per essere installato sulla cima del monte Scinauz, una montagna rocciosa ed impervia accessibile solo per mezzo di sentieri esposti e pericolosi. Come nel caso dell'impianto del Monte Telegrafo la stazione radar del Scinauz fu collegata tramite una funivia molto ardita, che nell'ultima lunga campata sorvolava la vallata a oltre 800 metri dal suolo (un record per l'epoca). Anche sul monte friulano fu installato il radar An-Fps/8 poi ammodernato col successivo Fps/88. A differenza però della stazione del 16° Cram del Plose, le apparecchiature dello Scinauz erano già remotizzate e controllate dalla base "Lame" di Concordia Sagittaria nei pressi di Portogruaro. Quest'ultima era un importante centro Nato nel compito di Early Warning e Crc, base del 13° Gruppo Radar dell'Aeronautica militare e sostituì nel 1968 il dismesso centro di Udine-Campoformido. Numerosi furono gli interventi di "Lame" durante gli anni della guerra fredda, nell'identificazione e intercettazione di velivoli non identificati, fuori rotta oppure senza la comunicazione del piano di volo. Numerosi furono gli allarmi "scramble" ai Reparti volo quando i caccia Jugoslavi lambivano di proposito lo spazio aereo per testare le capacità di reazione dell'aviazione italiana. L'aggiunta del radar del monte Scinauz permise di estendere il range del controllo dello spazio aereo fino all'Ungheria, dopo alcuni episodi avvenuti a cavallo tra gli anni 60 e 70 descritti di seguito. Il Monte Scinauz e il 17° Gruppo Radar che lo gestiva rimasero operativi fino a ben oltre la caduta del muro di Berlino, quando ne fu deciso l'abbandono definitivo nel 2001. Concordia Sagittaria (base Lame) è tuttora operativa come anche se remotizzata e controllata dal Comando Operativo Forze Aeree di Poggio Renatico (Ferrara) continuando l'attività come 113ma Squadriglia Radar Remota.Sfuggire ai radar, per la libertà. I Mig atterrati in Italia.Durante l'attività operativa del sistema di difesa aerea italiano negli anni della guerra fredda, vi furono numerose segnalazioni di aerei "sospetti" ai confini dello spazio aereo italiano, spesso identificati come caccia Jugoslavi in addestramento. Per tre volte le apparecchiature italiane captarono i segnali di jet non identificati che riuscirono a sorvolare i cieli italiani e ad atterrare nel territorio nazionale. Il primo episodio, quello che si verificò nell'anno di maggior tensione tra i blocchi, avvenne nei cieli della Puglia il 20 gennaio 1962. Nelle prime ore del pomeriggio, proveniente dall'Adriatico, comparve la sagoma di un caccia poi identificato come un Mig-17. Agganciato dai radar di Gioia del Colle e dalle apparecchiature di early warning del 3°Roc di Martina Franca, il velivolo compì una virata proprio in direzione delle installazioni missilistiche pugliesi. Prima ancora che potesse essere intercettato dai caccia italiani, il Mig compì un atterraggio di fortuna in un campo in località Landone, nei pressi di Acquaviva delle Fonti (Bari). Il Mig terminò la sua corsa danneggiandosi contro i muretti a secco dei campi, sotto lo sguardo attonito di due contadini. Si scoprì che si trattava di una caccia bulgaro ai cui comandi era rimasto, ferito ma non in pericolo di vita, il sottotenente pilota Solakov. Trasportato in ospedale a Bari, il militare dichiarò di essere fuggito dal regima comunista di Sofia e di avere intenzione di chiedere asilo politico in Occidente. Temendo l'origine spionistica del volo, le apparecchiature fotografiche del caccia furono esaminate ma senza che queste potessero fornire elementi sulla missione, in quanto Solakov aveva di proposito azionato il, comando che bruciava le pellicole in caso di caduta in mani nemiche dell'aereo. Inizialmente comparsa su tutti i quotidiani nazionali, il seguito dell'indagine fu volutamente celata ai media in quanto in Italia la Democrazia Cristiana (e in primis Aldo Moro che era originario di quelle terre) voleva evitare tensioni insanabili con il Pci nell'anno che avrebbe inaugurato il periodo dei partiti di centro-sinistra.Gli altri due episodi si verificarono a poca distanza l'uno dall'altro ed entrambi in territorio friulano, sei anni dopo il caccia bulgaro attirato in Puglia. Il primo ebbe come teatro dei fatti il cielo di Osoppo il 14 agosto 1969, quando il radar del monte Scinauz non era ancora stato costruito. Protetto nell'ultima parte del volo dalle strette valli secondarie dell'Austria, un vecchio Mig 15 con le insegne dell'Aeronautica militare ungherese riuscì ad eludere volando radente al suolo i radar di Udine e di Concordia Sagittaria. Il pilota, molto abile ai comandi, aveva studiato le carte della zona individuando una pista di atterraggio costruita dalla Luftwaffe durante la guerra. Inadeguata per una caccia a reazione, fu utilizzata comunque da Biro, che grazie ad una manovra magistrale riuscì ad evitare le abitazioni di due muratori, distruggendo il carrello anteriore e uscendo sotto shock ma illeso. Raggiunto dai proprietari delle case, il pilota ungherese corse lontano dal caccia, in questo caso armato, le cui munizioni cominciarono ad esplodere distruggendolo parzialmente. Dall'episodio di Osoppo nacque l'esigenza di coprire il cono d'ombra delle montagne e di arrivare con i radar fino al confine ungherese, compito che sarà affidato alle apparecchiature del 17° Gruppo Radar del Monte Scinauz. Tuttavia, prima che i caccia italiani potessero partire su allarme, un altro episodio del tutto simile al precedente e a poca distanza da Osoppo si verificò l'anno successivo mentre il radar di Scinauz era ancora in fase di realizzazione. Anche in questo caso, era il 7 aprile 1970, la sagoma di un vetusto Mig- 15 sbucò dalle alpi friulane. Il pilota era un allievo di Biro, Sandor Zabocki, con il quale aveva preparato i piani per la riuscita fuga ad Osoppo. Anche Zabocki scelse una aviosuperficie in abbandono dalla guerra (ancora oggi esistente e visibile sulle mappe digitali), l'aeroporto di Risano che, in linea d'aria, si trova a poca distanza dalla base di Rivolto sede delle Frecce Tricolori. In quest'ultimo caso non vi fu neppure bisogno di far decollare gli intercettori italiani perché il pilota ebbe l'accortezza di qualificarsi via radio ai controllori e di dichiarare l'atterraggio di emergenza sulla pista dismessa. Dal 1972 l'occhio del monte Scinauz rese praticamente impossibile l'accesso ai cieli del nordest dei caccia provenienti dall'Ungheria, che non si presentarono mai più a toccare il suolo friulano. Oggi il sistema di protezione e difesa aerea affidato all'Aeronautica include molte delle installazioni nate durante gli anni della guerra fredda, ancora in funzione ma reumatizzate e controllate dalla base di Poggio Renatico nel ferrarese. I radar del monte Scinauz e del Monte telegrafo sono state dismessi e buona parte delle strutture sono ancora presenti come memoria di quegli anni in cui la terza guerra mondiale parve essere alle porte.
Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
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