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2023-10-11
Tutte le aziende italiane che piacciono al Brasile
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Secondo l’associazione delle camere di commercio italiane all’estero, Il commercio bilaterale con il Brasile-Italia vale 5478,9 miliardi di dollari (l’ultimo dato è aggiornato alla fine del 2021). In particolare, due anni fa, c’è stata una crescita delle importazioni dal Brasile del 34,4% e le esportazioni brasiliane, invece, hanno avuto una crescita del 26,4% rispetto al 2020, particolarmente a causa della ripresa dell’economia dopo la fase più acuta della pandemia. I principali settori con le maggiori importazioni dal Brasile nel 2021 sono stati l’industria manifatturiera (per 5,4 miliardi di dollari), l’agricoltura (29,5 milioni di dollari) e altri prodotti (4,27 milioni di dollari).
In dettaglio, sono da segnalare le importazioni dal Brasile verso l’Italia di parti e accessori per autoveicoli e relativi motori che hanno avuto un valore Fob (dall’inglese “free on board”, che corrisponde al prezzo di mercato alla frontiera del paese esportatore) di 424 milioni di dollari, con un incremento del 75,20% rispetto al 2020. I motori a pistoni e i loro componenti avevano quindi un valore Fob di 323 milioni di dollari, in aumento del 69,11% rispetto al 2020. Lo stesso vale per i medicinali e prodotti farmaceutici diversi dai veterinari che hanno un valore 276 milioni, in aumento del 21,59% su base annua.
I principali settori con le maggiori esportazioni dal Brasile nel 2021 sono stati l’industria manifatturiera (2,2 milioni di dollari), l’agricoltura (928 milioni di dollari), l’industria estrattiva (662 milioni di dollari) e altri prodotti (35,3 milioni di dollari).
Tra queste spiccano le esportazioni di cellulosa, con un valore di 383 milioni di dollari, in crescita del 24,79% rispetto all’anno precedente; Il caffè tostato (477 milioni di dollari), in aumento del 14,38% rispetto al 2020, la soia (382milioni), in crescita dell’81,04% rispetto al 2020, Il ferro e i suoi concentrati 412 milioni di dollari), una crescita record del 169,28%.
Non stupisce, insomma, che le aziende italiano che fanno affari “verdeoro” non manchino. Alcune di queste sono tra le più storiche per il Belpaese come Tim, Pirelli, Stellantis, Enel, Ferrero, Leonardo, Fincantieri, Luxottica, Bonfiglioli, Prada, Armani, Valentino, Intesa San Paolo, Unicredit, Generali, Alitalia, Eataly, Barilla, Campari, Illy e Almaviva e Magnaghi Aeronautica. Alcune di queste hanno interi stabilimenti che danno lavoro a migliaia di lavoratori.
Luxottica, ad esempio, è presente in Brasile dall'inizio degli anni Novanta. Possiede uno stabilimento produttivo a Campinas, un polo logistico a Jundiai e distribuisce in tutto il Paese. Barilla è presente in Brasile dal 1995 e produce e distribuisce i suoi prodotti in seguito alla firma di un accordo con la società Santista Alimentos.
Che dire poi di Tim Brasil, controllata del gruppo Tim, che ha chiuso il 2022 ricavi in crescita del 19,5%, a quota 21,6 miliardi di reais, pari a 3,6 miliardi di euro, superando le stime degli analisti. L’ebitda è salito del 17,2%, superando i 10,2 miliardi di reais (1,79 miliardi di euro), con una marginalità pari al 47,4% del fatturato, ai vertici del settore.
Tra le aziende italiane che hanno da sempre interessi in Brasile non può mancare la Fiat, oggi Stellantis. Il gruppo italo francese ha raggiunto la quota di mercato record del 32,3% nel primo semestre 2023 con la sola Fiat che vale il 22% del mercato. Il gruppo ha uno stabilimento a Goiana che dà lavoro a 13.000 persone.
Pirelli è invece tra le aziende italiane una di quelle che sta da più tempo in Brasile. Il gruppo è presente in loco dal 1929, da quando cioè la società ha comprato la Conac - Companhia Nacional de Artefactos de Cobre, piccola società brasiliana operante nel settore dei conduttori elettrici con sede a San Bernardo, non lontano da San Paolo. Oggi il settore Pneumatici Pirelli produce in Brasile oltre 18 milioni di pneumatici l'anno, impiegando circa 6200 dipendenti nelle sei fabbriche del Paese. Il settore Cavi e Sistemi Pirelli detiene in Brasile quattro fabbriche -tutte nello Stato di San Paolo, circa 1.000 dipendenti in totale- che operano nella produzione di cavi e sistemi sia energia sia telecomunicazioni. Infine, a Feira de Santana, nello stato di Bahia, a un centinaio di chilometri dalla capitale Salvador de Bahia, Pirelli è dal 1986 attiva nella produzione di pneumatici.
Italo-brasiliani. Dalla fatica dei campi al successo nell'impresa
Secondo fonti ufficiali, ad oggi sarebbero circa 30 milioni i cittadini brasiliani di origini italiane con una discendenza calcolata in almeno uno dei parenti più prossimi. I rami di un grande albero, cresciuto dalle prime radici che attecchirono saldamente in quella terra al di là dell’oceano a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.
L’avventura della comunità italiana in Brasile iniziò anche prima dell’Unità d’Italia, seppur non in modo così massiccio come fu la grande ondata tra i secoli XIX e XX. Nel Regno delle Due Sicilie ebbe modo di promuovere l’immigrazione verso il Brasile l’allora reggente di quelle terre ancora per la maggior parte selvagge, Teresa Cristina di Borbone, sul trono dal 1843 al 1889 fino all’avvento della Prima repubblica. La sovrana, che si distinse per finezza intellettuale e pratica del mecenatismo, fece di Rio de Janeiro un polo della cultura mondiale e una metropoli rinnovata nell’urbanistica che richiamava i gusti della capitale più amata dell’epoca, Parigi. A Rio Teresa Cristina chiamò alla sua corte molti pittori scultori ed architetti italiani, che rappresentarono il primo nucleo, seppur ancora molto ristretto, di lavoratori italiani in Brasile.
La prima grande ondata migratoria dalla Penisola al Sudamerica (e in buona percentuale verso il Brasile) si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento quando l’Italia era unita da pochi anni. Fu principalmente la miseria a spingere gli italiani a lasciare la propria terra per trovarne altra oltreoceano, soprattutto dopo la grande crisi agraria che colpì duramente la penisola nei primi anni postunitari. Dai 1.700 emigranti registrati nel 1872 si passò agli oltre 25mila nel 1888, attratti dall’avventura brasiliana in particolare dagli eventi che interessarono il Paese carioca in quel periodo. Nel 1871 infatti, la madrepatria portoghese emanò la legge che aboliva la schiavitù in patria e nelle colonie (nota come legge del «Ventre Libre») liberando di conseguenza il mercato del lavoro in particolare nel settore agrario allora in forte espansione. Alla chiamata risposero in particolar modo i contadini del Nord Italia, dal Piemonte al Friuli, spinti sull’orlo della fame dalla crisi agraria. L’attrazione verso quelle terre lontane dove grandi estensioni produttive si stavano sviluppando fu talmente forte da creare una nuova organizzazione del «mercato» migratorio tra le due nazioni. Esempio su tutti l’emigrazione sussidiata messa in atto da un emigrato trentino, Pietro Tabacchi. Emigrato negli anni Settanta del secolo XIX, aveva fatto fortuna con l’export di legname e con il commercio del caffè. La rapida espansione delle sue attività lo portò a compiere un viaggio nelle sue terre natali la fine di reclutare mano d’opera fidata tra gli agricoltori del Triveneto. Con sé, Tabacchi portò una «dote» di finanziamenti ottenuti dal governo dello stato di Espirito Santo che permettevano di garantire agli emigranti il viaggio pagato e non soltanto. Una volta sbarcati a Porto Alegre, gli emigranti veneti avrebbero avuto vitto e alloggio iniziali in cambio di un contratto di almeno un anno nelle coltivazioni del magnate italo-brasiliano. In più, al termine del periodo, i coloni avrebbero potuto acquistare appezzamenti a prezzo agevolato. L’idea di Tabacchi iniziò sotto i migliori auspici, ma solamente pochi anni dopo fallì a causa principalmente della durezza del clima e all’ammutinamento di gruppi di coloni insoddisfatti delle condizioni di lavoro. Nel 1902 il Governo italiano, per iniziativa del ministro Giulio Prinetti, mise al bando il sistema ideato dal trentino.
Nonostante le difficoltà come quelle incontrate nel primo periodo dell’emigrazione di massa degli italiani, alcune zone del Brasile (come il Rio Grande do Sul) furono profondamente segnate dalla presenza dei coloni del Nord della Penisola. Il paesaggio agricolo attorno agli insediamenti caratterizzati da dignitose casette in legno, mutò radicalmente per l’introduzione di colture e tecniche importate dagli italiani, in particolare la vite. Pur in mancanza di molti servizi fondamentali igienico sanitari e di un’adeguata struttura scolastica, i veneti con i lombardi i piemontesi e i friulani resero fertile e coltivata una terra precedentemente occupata da una fitta foresta tropicale. Il progressivo acquisto degli appezzamenti fece crescere negli anni una comunità di piccoli proprietari terrieri che riuscirono a raggiungere un relativo benessere nei luoghi fino a pochi anni prima caratterizzati dalla pratica della schiavitù.
Anche nel settore dell’industria, che in Brasile vide la luce nei primi anni del Novecento, gli immigrati italiani ebbero un ruolo preponderante nella crescita dell’economia della nazione. Principalmente concentrata nella provincia di San Paolo, la manifattura industriale vide l’occupazione di italo-brasiliani crescere fino a coprire il 90% della mano d’opera, alimentata da un flusso migratorio che rimase vivo per i primi decenni del secolo XX.
Nel 1935 un censimento indicò che gli italo-brasiliani avevano raggiunto la cifra ragguardevole di 3 milioni di persone. Una potenza oltre che economica, anche politica. Ancora molto legati alle vicende della madrepatria, gli italiani in Brasile approvarono l’opera del fascismo in Italia e all’estero, rispondendo alle esigenze della madrepatria non solo con le rimesse economiche, ma anche con donazioni come in occasione della guerra d’Etiopia. Per il regime l’accresciuta influenza degli italiani era una buona occasione per consolidare l’immagine del governo all’estero. Molti furono i gruppi fascisti (nel 1934 erano oltre 80) concentrati soprattutto a San Paolo, attraverso i quali dall’Italia giungevano sovvenzioni per le scuole italiane dove la dottrina fascista era materia di studio e per le dimostrazioni pubbliche sui progressi della madrepatria guidata dal Duce. Tale fu la presa che la nuova potenza europea ebbe in Sudamerica, che anche in Brasile nacque un partito di ispirazione fascista, l’AIB (Açao Integralista Brasilera) caratterizzata da molti aspetti mutuati dal regime fascista ma caratterizzata allo stesso tempo da una forte spinta unitaria e nazionalista. Il leader era Plinio Salgado, un giovane intellettuale anticomunista che raggruppò attorno a sé un gruppo di professionisti e studiosi affascinati dall’autoritarismo e dal nazionalismo d’Europa. Il partito da lui fondato, che usava il saluto romano e aveva una organizzazione paramilitare nelle «camicie verdi» fu inizialmente appoggiato sia dall’Ambasciata italiana che dall’astro nascente di Vetulio Vargas. Nel 1937 quest’ultimo prese il potere con un colpo di mano, appoggiato anche dall’AIB di Salgado, che fece inizialmente pensare ad un avvicinamento del Brasile ai regimi europei. Fu la guerra a cambiare completamente la situazione. L’Estado Novo, il Brasile autoritario di Vargas, rimase fuori dalla chiamata dell’Asse e nel 1942 si alleò agli Stati Uniti di Roosevelt. Per gli ex alleati dell’AIB fu l’inizio della fine e con loro furono colpiti anche gli italo-brasiliani considerati nemici in patria. I loro beni furono congelati, anche se restituiti appena dopo la fine del conflitto. Il flusso migratorio, arrestatosi durante gli anni bellici, prese una direzione idealmente contraria. Nel 1944 mise piede in Italia un contingente della «Força Expeditionaria Brasileira» che si unì agli Alleati nell’ultima fase della campagna d’Italia. Con le truppe arrivò anche un contingente dell’aviazione militare, il 1°Grupo de Aviaciòn de Caça, che si rese protagonista delle ultime incursioni aeree sulla Pianura Padana e su Milano.
L’ondata migratoria dall’Italia al Brasile riprese nei primi anni Cinquanta, pur meno massiccia e incisiva di quella di mezzo secolo prima. Il Brasile postbellico non era più la terra promessa che avevano cercato i contadini veneti, ma un paese che avrebbe vissuto una lunga crisi a causa del fallimento delle politiche agricole e industriali del Paese. La maggior parte dei nuovi immigrati italiani era infatti composta da operai che venivano chiamati in Brasile direttamente da aziende italiane che avevano impiantato sedi in diversi settori, tra cui quello meccanico.
A fermare il flusso migratorio tra Italia e Brasile furono le mutate condizioni socioeconomiche dei due Paesi a partire dagli anni Sessanta. L’Italia del miracolo economico entrava in una fase di piena industrializzazione mentre il Brasile entrava nella dittatura militare della cosiddetta Quinta repubblica nel clima di tensione internazionale della Guerra Fredda. Dagli anni Settanta in avanti il flusso dei migranti italiani si arrestò completamente ma quei rami cresciuti nei decenni lasciarono in terra carioca moltissimi semi.
Nel lungo periodo dell’emigrazione di massa tra i due Paesi, molte furono le figure di successo emerse dalla comunità italo-brasiliana. Alcune di queste ebbero una risonanza nazionale e in taluni casi anche al di fuori dei confini nazionali. Nei primi anni dell’emigrazione italiana spiccò la figura di Antonio Jannuzzi, uno scalpellino calabrese emigrato con la famiglia nel 1874. Dotato di talento particolare, riuscì ad inserirsi nel fermento della nuova Rio de Janeiro in campo edilizio con la grande rivoluzione urbanistica sul modello parigino. Apprezzato dagli architetti e dagli ingegneri, con la sua impresa di costruzioni firmò molti dei maestosi edifici costruiti alla fine del secolo XIX. Tra questi il Molinho Fluminense, l’Igreja Metodista e il Palacio do Barao di Rio Negro (1903) oltre a molti edifici sulle avenidas di Rio. Da emigrante che aveva assorbito le idee paternalistiche della fine del secolo cercò di opporsi a quella che ancora oggi rappresenta una piaga sociale caratteristica delle megalopoli brasiliane, la «favelizzazione». Jannuzzi cercò di costruire case e quartieri per lavoratori ma le vicende avverse che colpirono i suoi affari (un crollo in un suo grande cantiere fece 43 morti) portarono al fallimento di quell’esperimento all’avanguardia.
A cavallo tra il secolo XIX e il XX si impose la figura pubblica di un altro emigrante italiano, Pasquale Segreto. La sua fu una storia sfavillante, che riempì le pagine dei giornali brasiliani dell’epoca. Nato in provincia di Salerno, nel 1883 lasciò l’Italia per il Brasile accettando il primo umile lavoro di strillone. Avvicinatosi all’ambiente dello spettacolo, fu testimone delle dimostrazioni dei fratelli Lumières nella capitale carioca. Grazie al suo spirito di iniziativa e all’inclinazione al rischio, fu in grado di ottenere la concessione per la riproduzione delle pellicole dei pionieri francesi, fondando il primo cinematografo di Rio de Janeiro, il «Salao de Novidades de Paris». Il successo che ebbe la prima sala fu il trampolino di lancio per una grande avventura imprenditoriale e in pochi anni fu proprietario di sale in tutto il Brasile, oltre che produttore teatrale nell’epoca d’oro della rivista. Una curiosità legata a Segreto: appassionato di cultura orientale conosciuta durante la sua attività di imprenditore dello spettacolo, fu il primo ad importare in Brasile l’antica arte marziale giapponese del Ju-Jitsu.
Il più conosciuto e ammirato di tutti gli italo-brasiliani di successo fu certamente Francesco Matarazzo. Un aneddoto sintetizza quanto importante divenne agli occhi del popolo carioca: si narra che i genitori brasiliani degli anni trenta e quaranta rispondessero ai figli che chiedevano loro troppo denaro con la frase «non siamo mica Matarazzo!». La fortuna di tycoon dell’italo-brasiliano nacque da un barile di lardo. Era tutto ciò che aveva quando lasciò la famiglia di piccoli proprietari terrieri di Castellabate (Salerno) assieme ai fratelli. Durante il viaggio il carico della nave andò perduto, ma non il suo spirito di cercatore indefesso di fortuna. Iniziò la costruzione del suo impero nella cittadina di Sorocaba nei pressi di San Paolo, dove mosse i primi passi con l’importazione di grano dagli Stati Uniti, mentre il fratello ampliava l’attività con una fabbrica di lardo a Porto Alegre. Presto si unirono a lui altri 41 italo-brasiliani come soci di quello che sarebbe diventato uno dei gruppi industriali più floridi del Sudamerica dei primi anni del Novecento. Capace di costruire un’economia di scala, diversificò la produzione che spaziava dal frumento ai contenitori per alimenti, al tessile. Nel 1911 le filiali coprivano tutto il continente americano, con circa 200 società collegate. Con lo scoppio della Grande Guerra Matarazzo guadagnò fama anche in Italia, inviando aiuti in denaro e alimenti, tanto che fu insignito di medaglia dal governo italiano e del titolo di Conte da Vittorio Emanuele III. Nel primo dopoguerra il suo business si ingrandì ulteriormente, accanto alla nomina di primo presidente degli industriali della provincia di San Paolo. Quando morì nel 1937 per un attacco di uremia, Francesco Marrazzo era l’uomo più ricco del Brasile. Sopra di lui soltanto i bilanci della provincia paulista.
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L’Italia è il quindicesimo partner commerciale del Brasile per esportazioni. I rapporti tra i due Paesi sono sempre stati molto floridi, anche ora che è tornata l’amministrazione Lula.Storia e storie degli italo-brasiliani: gli emigranti che fecero grande il Paese e l'eredità culturale ed economica di una delle più grandi comunità etniche del Sudamerica.Lo speciale contiene due articoli. Secondo l’associazione delle camere di commercio italiane all’estero, Il commercio bilaterale con il Brasile-Italia vale 5478,9 miliardi di dollari (l’ultimo dato è aggiornato alla fine del 2021). In particolare, due anni fa, c’è stata una crescita delle importazioni dal Brasile del 34,4% e le esportazioni brasiliane, invece, hanno avuto una crescita del 26,4% rispetto al 2020, particolarmente a causa della ripresa dell’economia dopo la fase più acuta della pandemia. I principali settori con le maggiori importazioni dal Brasile nel 2021 sono stati l’industria manifatturiera (per 5,4 miliardi di dollari), l’agricoltura (29,5 milioni di dollari) e altri prodotti (4,27 milioni di dollari).In dettaglio, sono da segnalare le importazioni dal Brasile verso l’Italia di parti e accessori per autoveicoli e relativi motori che hanno avuto un valore Fob (dall’inglese “free on board”, che corrisponde al prezzo di mercato alla frontiera del paese esportatore) di 424 milioni di dollari, con un incremento del 75,20% rispetto al 2020. I motori a pistoni e i loro componenti avevano quindi un valore Fob di 323 milioni di dollari, in aumento del 69,11% rispetto al 2020. Lo stesso vale per i medicinali e prodotti farmaceutici diversi dai veterinari che hanno un valore 276 milioni, in aumento del 21,59% su base annua. I principali settori con le maggiori esportazioni dal Brasile nel 2021 sono stati l’industria manifatturiera (2,2 milioni di dollari), l’agricoltura (928 milioni di dollari), l’industria estrattiva (662 milioni di dollari) e altri prodotti (35,3 milioni di dollari).Tra queste spiccano le esportazioni di cellulosa, con un valore di 383 milioni di dollari, in crescita del 24,79% rispetto all’anno precedente; Il caffè tostato (477 milioni di dollari), in aumento del 14,38% rispetto al 2020, la soia (382milioni), in crescita dell’81,04% rispetto al 2020, Il ferro e i suoi concentrati 412 milioni di dollari), una crescita record del 169,28%. Non stupisce, insomma, che le aziende italiano che fanno affari “verdeoro” non manchino. Alcune di queste sono tra le più storiche per il Belpaese come Tim, Pirelli, Stellantis, Enel, Ferrero, Leonardo, Fincantieri, Luxottica, Bonfiglioli, Prada, Armani, Valentino, Intesa San Paolo, Unicredit, Generali, Alitalia, Eataly, Barilla, Campari, Illy e Almaviva e Magnaghi Aeronautica. Alcune di queste hanno interi stabilimenti che danno lavoro a migliaia di lavoratori. Luxottica, ad esempio, è presente in Brasile dall'inizio degli anni Novanta. Possiede uno stabilimento produttivo a Campinas, un polo logistico a Jundiai e distribuisce in tutto il Paese. Barilla è presente in Brasile dal 1995 e produce e distribuisce i suoi prodotti in seguito alla firma di un accordo con la società Santista Alimentos.Che dire poi di Tim Brasil, controllata del gruppo Tim, che ha chiuso il 2022 ricavi in crescita del 19,5%, a quota 21,6 miliardi di reais, pari a 3,6 miliardi di euro, superando le stime degli analisti. L’ebitda è salito del 17,2%, superando i 10,2 miliardi di reais (1,79 miliardi di euro), con una marginalità pari al 47,4% del fatturato, ai vertici del settore.Tra le aziende italiane che hanno da sempre interessi in Brasile non può mancare la Fiat, oggi Stellantis. Il gruppo italo francese ha raggiunto la quota di mercato record del 32,3% nel primo semestre 2023 con la sola Fiat che vale il 22% del mercato. Il gruppo ha uno stabilimento a Goiana che dà lavoro a 13.000 persone.Pirelli è invece tra le aziende italiane una di quelle che sta da più tempo in Brasile. Il gruppo è presente in loco dal 1929, da quando cioè la società ha comprato la Conac - Companhia Nacional de Artefactos de Cobre, piccola società brasiliana operante nel settore dei conduttori elettrici con sede a San Bernardo, non lontano da San Paolo. Oggi il settore Pneumatici Pirelli produce in Brasile oltre 18 milioni di pneumatici l'anno, impiegando circa 6200 dipendenti nelle sei fabbriche del Paese. Il settore Cavi e Sistemi Pirelli detiene in Brasile quattro fabbriche -tutte nello Stato di San Paolo, circa 1.000 dipendenti in totale- che operano nella produzione di cavi e sistemi sia energia sia telecomunicazioni. Infine, a Feira de Santana, nello stato di Bahia, a un centinaio di chilometri dalla capitale Salvador de Bahia, Pirelli è dal 1986 attiva nella produzione di pneumatici.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/italia-brasile-commercio-2665875475.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="italo-brasiliani-dalla-fatica-dei-campi-al-successo-nell-impresa" data-post-id="2665875475" data-published-at="1696957502" data-use-pagination="False"> Italo-brasiliani. 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La sovrana, che si distinse per finezza intellettuale e pratica del mecenatismo, fece di Rio de Janeiro un polo della cultura mondiale e una metropoli rinnovata nell’urbanistica che richiamava i gusti della capitale più amata dell’epoca, Parigi. A Rio Teresa Cristina chiamò alla sua corte molti pittori scultori ed architetti italiani, che rappresentarono il primo nucleo, seppur ancora molto ristretto, di lavoratori italiani in Brasile. La prima grande ondata migratoria dalla Penisola al Sudamerica (e in buona percentuale verso il Brasile) si manifestò nella seconda metà dell’Ottocento quando l’Italia era unita da pochi anni. Fu principalmente la miseria a spingere gli italiani a lasciare la propria terra per trovarne altra oltreoceano, soprattutto dopo la grande crisi agraria che colpì duramente la penisola nei primi anni postunitari. Dai 1.700 emigranti registrati nel 1872 si passò agli oltre 25mila nel 1888, attratti dall’avventura brasiliana in particolare dagli eventi che interessarono il Paese carioca in quel periodo. Nel 1871 infatti, la madrepatria portoghese emanò la legge che aboliva la schiavitù in patria e nelle colonie (nota come legge del «Ventre Libre») liberando di conseguenza il mercato del lavoro in particolare nel settore agrario allora in forte espansione. Alla chiamata risposero in particolar modo i contadini del Nord Italia, dal Piemonte al Friuli, spinti sull’orlo della fame dalla crisi agraria. L’attrazione verso quelle terre lontane dove grandi estensioni produttive si stavano sviluppando fu talmente forte da creare una nuova organizzazione del «mercato» migratorio tra le due nazioni. Esempio su tutti l’emigrazione sussidiata messa in atto da un emigrato trentino, Pietro Tabacchi. Emigrato negli anni Settanta del secolo XIX, aveva fatto fortuna con l’export di legname e con il commercio del caffè. La rapida espansione delle sue attività lo portò a compiere un viaggio nelle sue terre natali la fine di reclutare mano d’opera fidata tra gli agricoltori del Triveneto. Con sé, Tabacchi portò una «dote» di finanziamenti ottenuti dal governo dello stato di Espirito Santo che permettevano di garantire agli emigranti il viaggio pagato e non soltanto. Una volta sbarcati a Porto Alegre, gli emigranti veneti avrebbero avuto vitto e alloggio iniziali in cambio di un contratto di almeno un anno nelle coltivazioni del magnate italo-brasiliano. In più, al termine del periodo, i coloni avrebbero potuto acquistare appezzamenti a prezzo agevolato. L’idea di Tabacchi iniziò sotto i migliori auspici, ma solamente pochi anni dopo fallì a causa principalmente della durezza del clima e all’ammutinamento di gruppi di coloni insoddisfatti delle condizioni di lavoro. Nel 1902 il Governo italiano, per iniziativa del ministro Giulio Prinetti, mise al bando il sistema ideato dal trentino. Nonostante le difficoltà come quelle incontrate nel primo periodo dell’emigrazione di massa degli italiani, alcune zone del Brasile (come il Rio Grande do Sul) furono profondamente segnate dalla presenza dei coloni del Nord della Penisola. Il paesaggio agricolo attorno agli insediamenti caratterizzati da dignitose casette in legno, mutò radicalmente per l’introduzione di colture e tecniche importate dagli italiani, in particolare la vite. Pur in mancanza di molti servizi fondamentali igienico sanitari e di un’adeguata struttura scolastica, i veneti con i lombardi i piemontesi e i friulani resero fertile e coltivata una terra precedentemente occupata da una fitta foresta tropicale. Il progressivo acquisto degli appezzamenti fece crescere negli anni una comunità di piccoli proprietari terrieri che riuscirono a raggiungere un relativo benessere nei luoghi fino a pochi anni prima caratterizzati dalla pratica della schiavitù. Anche nel settore dell’industria, che in Brasile vide la luce nei primi anni del Novecento, gli immigrati italiani ebbero un ruolo preponderante nella crescita dell’economia della nazione. Principalmente concentrata nella provincia di San Paolo, la manifattura industriale vide l’occupazione di italo-brasiliani crescere fino a coprire il 90% della mano d’opera, alimentata da un flusso migratorio che rimase vivo per i primi decenni del secolo XX. Nel 1935 un censimento indicò che gli italo-brasiliani avevano raggiunto la cifra ragguardevole di 3 milioni di persone. Una potenza oltre che economica, anche politica. Ancora molto legati alle vicende della madrepatria, gli italiani in Brasile approvarono l’opera del fascismo in Italia e all’estero, rispondendo alle esigenze della madrepatria non solo con le rimesse economiche, ma anche con donazioni come in occasione della guerra d’Etiopia. Per il regime l’accresciuta influenza degli italiani era una buona occasione per consolidare l’immagine del governo all’estero. Molti furono i gruppi fascisti (nel 1934 erano oltre 80) concentrati soprattutto a San Paolo, attraverso i quali dall’Italia giungevano sovvenzioni per le scuole italiane dove la dottrina fascista era materia di studio e per le dimostrazioni pubbliche sui progressi della madrepatria guidata dal Duce. Tale fu la presa che la nuova potenza europea ebbe in Sudamerica, che anche in Brasile nacque un partito di ispirazione fascista, l’AIB (Açao Integralista Brasilera) caratterizzata da molti aspetti mutuati dal regime fascista ma caratterizzata allo stesso tempo da una forte spinta unitaria e nazionalista. Il leader era Plinio Salgado, un giovane intellettuale anticomunista che raggruppò attorno a sé un gruppo di professionisti e studiosi affascinati dall’autoritarismo e dal nazionalismo d’Europa. Il partito da lui fondato, che usava il saluto romano e aveva una organizzazione paramilitare nelle «camicie verdi» fu inizialmente appoggiato sia dall’Ambasciata italiana che dall’astro nascente di Vetulio Vargas. Nel 1937 quest’ultimo prese il potere con un colpo di mano, appoggiato anche dall’AIB di Salgado, che fece inizialmente pensare ad un avvicinamento del Brasile ai regimi europei. Fu la guerra a cambiare completamente la situazione. L’Estado Novo, il Brasile autoritario di Vargas, rimase fuori dalla chiamata dell’Asse e nel 1942 si alleò agli Stati Uniti di Roosevelt. Per gli ex alleati dell’AIB fu l’inizio della fine e con loro furono colpiti anche gli italo-brasiliani considerati nemici in patria. I loro beni furono congelati, anche se restituiti appena dopo la fine del conflitto. Il flusso migratorio, arrestatosi durante gli anni bellici, prese una direzione idealmente contraria. Nel 1944 mise piede in Italia un contingente della «Força Expeditionaria Brasileira» che si unì agli Alleati nell’ultima fase della campagna d’Italia. Con le truppe arrivò anche un contingente dell’aviazione militare, il 1°Grupo de Aviaciòn de Caça, che si rese protagonista delle ultime incursioni aeree sulla Pianura Padana e su Milano. L’ondata migratoria dall’Italia al Brasile riprese nei primi anni Cinquanta, pur meno massiccia e incisiva di quella di mezzo secolo prima. Il Brasile postbellico non era più la terra promessa che avevano cercato i contadini veneti, ma un paese che avrebbe vissuto una lunga crisi a causa del fallimento delle politiche agricole e industriali del Paese. La maggior parte dei nuovi immigrati italiani era infatti composta da operai che venivano chiamati in Brasile direttamente da aziende italiane che avevano impiantato sedi in diversi settori, tra cui quello meccanico.A fermare il flusso migratorio tra Italia e Brasile furono le mutate condizioni socioeconomiche dei due Paesi a partire dagli anni Sessanta. L’Italia del miracolo economico entrava in una fase di piena industrializzazione mentre il Brasile entrava nella dittatura militare della cosiddetta Quinta repubblica nel clima di tensione internazionale della Guerra Fredda. Dagli anni Settanta in avanti il flusso dei migranti italiani si arrestò completamente ma quei rami cresciuti nei decenni lasciarono in terra carioca moltissimi semi. Nel lungo periodo dell’emigrazione di massa tra i due Paesi, molte furono le figure di successo emerse dalla comunità italo-brasiliana. Alcune di queste ebbero una risonanza nazionale e in taluni casi anche al di fuori dei confini nazionali. Nei primi anni dell’emigrazione italiana spiccò la figura di Antonio Jannuzzi, uno scalpellino calabrese emigrato con la famiglia nel 1874. Dotato di talento particolare, riuscì ad inserirsi nel fermento della nuova Rio de Janeiro in campo edilizio con la grande rivoluzione urbanistica sul modello parigino. Apprezzato dagli architetti e dagli ingegneri, con la sua impresa di costruzioni firmò molti dei maestosi edifici costruiti alla fine del secolo XIX. Tra questi il Molinho Fluminense, l’Igreja Metodista e il Palacio do Barao di Rio Negro (1903) oltre a molti edifici sulle avenidas di Rio. Da emigrante che aveva assorbito le idee paternalistiche della fine del secolo cercò di opporsi a quella che ancora oggi rappresenta una piaga sociale caratteristica delle megalopoli brasiliane, la «favelizzazione». Jannuzzi cercò di costruire case e quartieri per lavoratori ma le vicende avverse che colpirono i suoi affari (un crollo in un suo grande cantiere fece 43 morti) portarono al fallimento di quell’esperimento all’avanguardia. A cavallo tra il secolo XIX e il XX si impose la figura pubblica di un altro emigrante italiano, Pasquale Segreto. La sua fu una storia sfavillante, che riempì le pagine dei giornali brasiliani dell’epoca. Nato in provincia di Salerno, nel 1883 lasciò l’Italia per il Brasile accettando il primo umile lavoro di strillone. Avvicinatosi all’ambiente dello spettacolo, fu testimone delle dimostrazioni dei fratelli Lumières nella capitale carioca. Grazie al suo spirito di iniziativa e all’inclinazione al rischio, fu in grado di ottenere la concessione per la riproduzione delle pellicole dei pionieri francesi, fondando il primo cinematografo di Rio de Janeiro, il «Salao de Novidades de Paris». Il successo che ebbe la prima sala fu il trampolino di lancio per una grande avventura imprenditoriale e in pochi anni fu proprietario di sale in tutto il Brasile, oltre che produttore teatrale nell’epoca d’oro della rivista. Una curiosità legata a Segreto: appassionato di cultura orientale conosciuta durante la sua attività di imprenditore dello spettacolo, fu il primo ad importare in Brasile l’antica arte marziale giapponese del Ju-Jitsu.Il più conosciuto e ammirato di tutti gli italo-brasiliani di successo fu certamente Francesco Matarazzo. Un aneddoto sintetizza quanto importante divenne agli occhi del popolo carioca: si narra che i genitori brasiliani degli anni trenta e quaranta rispondessero ai figli che chiedevano loro troppo denaro con la frase «non siamo mica Matarazzo!». La fortuna di tycoon dell’italo-brasiliano nacque da un barile di lardo. Era tutto ciò che aveva quando lasciò la famiglia di piccoli proprietari terrieri di Castellabate (Salerno) assieme ai fratelli. Durante il viaggio il carico della nave andò perduto, ma non il suo spirito di cercatore indefesso di fortuna. Iniziò la costruzione del suo impero nella cittadina di Sorocaba nei pressi di San Paolo, dove mosse i primi passi con l’importazione di grano dagli Stati Uniti, mentre il fratello ampliava l’attività con una fabbrica di lardo a Porto Alegre. Presto si unirono a lui altri 41 italo-brasiliani come soci di quello che sarebbe diventato uno dei gruppi industriali più floridi del Sudamerica dei primi anni del Novecento. Capace di costruire un’economia di scala, diversificò la produzione che spaziava dal frumento ai contenitori per alimenti, al tessile. Nel 1911 le filiali coprivano tutto il continente americano, con circa 200 società collegate. Con lo scoppio della Grande Guerra Matarazzo guadagnò fama anche in Italia, inviando aiuti in denaro e alimenti, tanto che fu insignito di medaglia dal governo italiano e del titolo di Conte da Vittorio Emanuele III. Nel primo dopoguerra il suo business si ingrandì ulteriormente, accanto alla nomina di primo presidente degli industriali della provincia di San Paolo. Quando morì nel 1937 per un attacco di uremia, Francesco Marrazzo era l’uomo più ricco del Brasile. Sopra di lui soltanto i bilanci della provincia paulista.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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