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2022-07-15
In Israele buco nell’acqua di Biden sull’Iran
Joe Biden (Ansa)
Prosegue il tour mediorientale di Joe Biden. Il presidente americano è atteso oggi in Arabia saudita, mentre ieri ha incontrato a Gerusalemme il premier israeliano, Yair Lapid, e il presidente israeliano Isaac Herzog. Un viaggio che, nel complesso, continua a rivelarsi in salita per l’inquilino della Casa Bianca.
È pur vero che Biden e Lapid hanno mostrato una significativa sintonia. Mercoledì è stata annunciata la creazione di un comitato bilaterale per promuovere la collaborazione tecnologica, mentre ieri i due leader hanno siglato la «Dichiarazione di Gerusalemme sul partenariato strategico Usa-Israele»: un documento volto, tra le altre cose, a rafforzare la cooperazione bilaterale, rendere più efficace il contrasto all’antisemitismo e a estendere gli accordi di Abramo.
Eppure un dossier ha continuato a incombere sulla tappa israeliana del presidente americano: l’Iran. Anche qui, a prima vista, sembrerebbe esserci piena sintonia. Nella suddetta Dichiarazione, i due Paesi si sono infatti impegnati a scongiurare l’eventualità che Teheran possa entrare in possesso dell’arma nucleare. Inoltre, mercoledì, l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso il ricorso all’uso della forza contro il regime degli ayatollah, pur precisando che, in caso, si tratterebbe dell’«ultima risorsa»: in questo quadro, il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha minacciato ieri una «risposta dura» contro gli Usa e i loro alleati regionali.
Ciononostante, dietro i sorrisi, si è registrata qualche dissonanza tra Biden e Lapid. Ieri, poco prima che iniziasse la conferenza stampa congiunta, il premier israeliano aveva dichiarato: «Abbiamo discusso della minaccia iraniana e di quello che pensiamo sia la cosa giusta da fare per assicurarci, cosa che condividiamo, che non ci sarà un Iran nucleare. Questa non è solo una minaccia per Israele, ma per il mondo». Parole che lasciano intendere come, da parte israeliana, si continui a nutrire significativa ostilità verso l’accordo sul nucleare del 2015: accordo che, siglato da Barack Obama, fu abbandonato da Donald Trump nel 2018 e che Biden ha cercato di ripristinare attraverso colloqui indiretti con Teheran a partire dall’anno scorso.
Un accordo a cui, nonostante le trattative attualmente in salita, il presidente americano non sembra disposto a rinunciare. Interpellato appositamente sull’eventualità di una deadline per rilanciarlo, ieri ha affermato: «Aspettiamo la loro risposta (degli iraniani, ndr). Non sono sicuro quando arriverà, ma non aspetteremo per sempre». Parole che, per quanto severe nei confronti di Teheran, non hanno tuttavia gettato a mare la possibilità di ripristinare quell’intesa che, oltre ad essere pericolosa per la stabilità mediorientale e per l’esistenza di Israele, è anche contraddittoria: l’Iran è infatti uno stretto alleato della Russia e ha annunciato a marzo che aiuterà il Cremlino contro le sanzioni occidentali. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha di recente reso noto che Teheran starebbe per fornire droni militari a Mosca.
È in questo contesto che ieri Lapid ha incalzato Biden sulla deterrenza. «L’unica cosa che fermerà l’Iran è sapere che, se continuerà a sviluppare il suo programma nucleare, il mondo libero userà la forza. L’unico modo per fermarli è mettere sul tavolo una minaccia militare credibile», ha detto il premier israeliano. «Continuo a credere che la diplomazia sia la via migliore», ha affermato il presidente americano, facendo così emergere la propria divergenza con Lapid. Divergenza che potrebbe addirittura aumentare, nel caso Benjamin Netanyahu dovesse tornare premier a novembre: quello stesso Netanyahu che storicamente non intrattiene relazioni idilliache con l’attuale presidente americano (sebbene i due abbiano avuto un colloquio ieri). A conferma della divergenza di vedute, il Times of Israel ha riferito, citando fonti governative, la «frustrazione» di Israele su come Biden ha affrontato il dossier iraniano.
Continua, intanto, l’imbarazzo per la visita odierna in Arabia saudita, dove Biden incontrerà il principe ereditario Mohammad bin Salman. «Le mie opinioni su Khashoggi sono state assolutamente chiare e non ho mai rinunciato a parlare di diritti umani», ha detto il presidente americano ieri. «Il motivo per cui andrò in Arabia Saudita è per promuovere gli interessi degli Stati Uniti», ha aggiunto. Una svolta realista, che mal si concilia tuttavia con il recente passato. In campagna elettorale, Biden aveva promesso che avrebbe reso Riad un «paria», accusando Trump di farsela con i dittatori e garantendo che, da presidente, avrebbe lottato contro le autocrazie. Ora, messo in ginocchio dalla crisi energetica, il presidente spera nell’aiuto dei sauditi, in considerazione del loro peso politico in seno all’Opec. Sauditi che nel frattempo hanno tuttavia consolidato i rapporti con Mosca e Pechino. Non mancano infine le turbolenze di politica interna per Biden. Alcuni esponenti dem non hanno digerito il suo imminente incontro con bin Salman, mentre nell’Asinello rischiano di riesplodere gli attriti tra l’ala centrista (filoisraeliana) e quella più a sinistra (filopalestinese). Un bel problema per il presidente, la cui leadership appare sempre più traballante: un tema non solo politico, ma anche di salute, visto che nella stessa visita israeliana Biden è apparso talvolta balbettante e non esente da gaffes. Con la sua distensione iraniana, il presidente americano ha reso il Medio Oriente più instabile di come lo aveva trovato. E i suoi equilibrismi rischiano adesso di far perdere agli Usa ulteriore influenza sull’area.
I russi hanno conquistato Siversk. Alleanza Corea del Nord-Cremlino
L’Ucraina tenta di respingere le accuse riguardanti i «percorsi» seguiti dalle armi fornite dall’Occidente. Dopo che la Ue ha istituito un hub in Moldavia per la lotta al contrabbando di armi, che pare stiano finendo nelle mani dei trafficanti, anche il capo dell’ufficio del presidente Volodymyr Zelensky, Andriy Yermak, propone di creare una commissione speciale per controllare cosa stia accadendo. In precedenza, un membro del gruppo di hacker russo RaHDIt, aveva dichiarato che l’intelligence ucraina sta lavorando con criminali e contrabbandieri per rivendere le armi occidentali sul mercato nero.
Ipotesi accreditata in parte dalla stessa Unione europea attraverso la creazione di un organismo per contrastare il fenomeno. Ora Kiev sembra intenzionata a fare luce sul punto. Mentre la questione armi scotta sempre di più, sul fronte delle alleanze la Corea del Nord si stringe alla Russia, riconoscendo formalmente l’indipendenza delle due repubbliche popolari separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk. La Corea del Nord è la terza nazione al mondo a procedere al riconoscimento, dopo Russia e Siria.
In risposta alla mossa della Corea del Nord, l’Ucraina ha interrotto i rapporti diplomatici con Pyongyang. Sul riconoscimento del Donbass ha rincarato la dose anche il vice ministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. «Un futuro accordo con l’Ucraina deve prevedere il suo status di Paese non allineato, privo di nucleare, riconoscere le realtà territoriali, compreso l’attuale status di Crimea, Repubblica di Donetsk, Repubblica di Lugansk». Si tenta, invece, di arginare la crisi sul fronte lituano: le merci russe sanzionate potranno di nuovo transitare sul territorio verso Kaliningrad, come affermato dal ministero degli Esteri lituano che ha invertito la sua politica sulla base delle nuove linee guida della Commissione europea.
Il governatore di Kaliningrad, Alikhanov, ha scritto che le nuove linee guida Ue sono «solo il primo passo» per risolvere lo stallo: «Continueremo a lavorare per la completa rimozione delle restrizioni». Mentre le alleanze si consolidano e le decisioni Ue mutano, sul campo restano morti e feriti. Sarebbe di oltre 20 il numero delle vittime dell’attacco missilistico russo sulla città di Vinnytsia: tra loro ci sono tre bambini. Lo ha affermato il vice capo dell’ufficio del presidente ucraino, Tymoshenko, aggiungendo che «i russi hanno colpito con missili Kalibr lanciati da un sottomarino schierato nel Mar Nero». Il servizio di emergenza statale ucraino è ancora alla ricerca di almeno 46 dispersi. Nell’oblast di Donetsk, le truppe russe e quelle separatiste affermano di essere entrate a Siversk. Missili sono stati lanciati dai russi sulla zona industriale di Kramatorsk. La situazione è tragica anche nel Sud del Paese, ma in questo caso le vittime sono state causate dai contrattacchi di Kiev, che hanno colpito Novaya Kakhovka, città occupata dai russi nella regione di Kherson.
«La vita era quasi tornata alla normalità e ci stavamo preparando per il nuovo anno scolastico. Gli ultimi attacchi missilistici ucraini hanno distrutto metà della città», ha dichiarato Vladimir Leontyev, capo dell’amministrazione militare-civile del distretto, insediato dai russi. Attacchi di Mosca sono stati uditi invece a Mykolaiv: secondo le prime informazioni sarebbe stato colpito un hotel.
Nel frattempo, è in uscita un rapporto dell’Osce che si dice «preoccupata» per il trattamento riservato da Mosca ai civili ucraini nei «campi di filtraggio», progettati per identificare i sospettati di legami con le autorità di Kiev. Il rapporto va a sommarsi alle accuse di crimini di guerra sulle quali si stanno confrontando i ministri di 40 Paesi in Olanda, nel corso della «Ukraine accountability conference». I ministri incontreranno il procuratore capo della Corte penale internazionale per discutere di come portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra. Il governo britannico uscente di Boris Johnson ha stanziato 2,5 milioni di sterline per l’indagine. La vicinanza all’Ucraina è stata ribadita ancora una volta da papa Francesco, che ha chiesto che non cali l’attenzione sul conflitto.
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La linea morbida degli Stati Uniti non piace al premier Yair Lapid: «Per fermare il suo programma nucleare dobbiamo far sapere a Teheran che il mondo può usare la forza». Ma il presidente americano vuole la via diplomatica. E oggi arriva in Arabia Saudita.Alleanza Corea del Nord-Russia: Pyongyang riconosce le repubbliche di Donetsk e Lugansk. Ancora morti tra i civili.Lo speciale contiene due articoli.Prosegue il tour mediorientale di Joe Biden. Il presidente americano è atteso oggi in Arabia saudita, mentre ieri ha incontrato a Gerusalemme il premier israeliano, Yair Lapid, e il presidente israeliano Isaac Herzog. Un viaggio che, nel complesso, continua a rivelarsi in salita per l’inquilino della Casa Bianca. È pur vero che Biden e Lapid hanno mostrato una significativa sintonia. Mercoledì è stata annunciata la creazione di un comitato bilaterale per promuovere la collaborazione tecnologica, mentre ieri i due leader hanno siglato la «Dichiarazione di Gerusalemme sul partenariato strategico Usa-Israele»: un documento volto, tra le altre cose, a rafforzare la cooperazione bilaterale, rendere più efficace il contrasto all’antisemitismo e a estendere gli accordi di Abramo. Eppure un dossier ha continuato a incombere sulla tappa israeliana del presidente americano: l’Iran. Anche qui, a prima vista, sembrerebbe esserci piena sintonia. Nella suddetta Dichiarazione, i due Paesi si sono infatti impegnati a scongiurare l’eventualità che Teheran possa entrare in possesso dell’arma nucleare. Inoltre, mercoledì, l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso il ricorso all’uso della forza contro il regime degli ayatollah, pur precisando che, in caso, si tratterebbe dell’«ultima risorsa»: in questo quadro, il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha minacciato ieri una «risposta dura» contro gli Usa e i loro alleati regionali. Ciononostante, dietro i sorrisi, si è registrata qualche dissonanza tra Biden e Lapid. Ieri, poco prima che iniziasse la conferenza stampa congiunta, il premier israeliano aveva dichiarato: «Abbiamo discusso della minaccia iraniana e di quello che pensiamo sia la cosa giusta da fare per assicurarci, cosa che condividiamo, che non ci sarà un Iran nucleare. Questa non è solo una minaccia per Israele, ma per il mondo». Parole che lasciano intendere come, da parte israeliana, si continui a nutrire significativa ostilità verso l’accordo sul nucleare del 2015: accordo che, siglato da Barack Obama, fu abbandonato da Donald Trump nel 2018 e che Biden ha cercato di ripristinare attraverso colloqui indiretti con Teheran a partire dall’anno scorso. Un accordo a cui, nonostante le trattative attualmente in salita, il presidente americano non sembra disposto a rinunciare. Interpellato appositamente sull’eventualità di una deadline per rilanciarlo, ieri ha affermato: «Aspettiamo la loro risposta (degli iraniani, ndr). Non sono sicuro quando arriverà, ma non aspetteremo per sempre». Parole che, per quanto severe nei confronti di Teheran, non hanno tuttavia gettato a mare la possibilità di ripristinare quell’intesa che, oltre ad essere pericolosa per la stabilità mediorientale e per l’esistenza di Israele, è anche contraddittoria: l’Iran è infatti uno stretto alleato della Russia e ha annunciato a marzo che aiuterà il Cremlino contro le sanzioni occidentali. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha di recente reso noto che Teheran starebbe per fornire droni militari a Mosca. È in questo contesto che ieri Lapid ha incalzato Biden sulla deterrenza. «L’unica cosa che fermerà l’Iran è sapere che, se continuerà a sviluppare il suo programma nucleare, il mondo libero userà la forza. L’unico modo per fermarli è mettere sul tavolo una minaccia militare credibile», ha detto il premier israeliano. «Continuo a credere che la diplomazia sia la via migliore», ha affermato il presidente americano, facendo così emergere la propria divergenza con Lapid. Divergenza che potrebbe addirittura aumentare, nel caso Benjamin Netanyahu dovesse tornare premier a novembre: quello stesso Netanyahu che storicamente non intrattiene relazioni idilliache con l’attuale presidente americano (sebbene i due abbiano avuto un colloquio ieri). A conferma della divergenza di vedute, il Times of Israel ha riferito, citando fonti governative, la «frustrazione» di Israele su come Biden ha affrontato il dossier iraniano. Continua, intanto, l’imbarazzo per la visita odierna in Arabia saudita, dove Biden incontrerà il principe ereditario Mohammad bin Salman. «Le mie opinioni su Khashoggi sono state assolutamente chiare e non ho mai rinunciato a parlare di diritti umani», ha detto il presidente americano ieri. «Il motivo per cui andrò in Arabia Saudita è per promuovere gli interessi degli Stati Uniti», ha aggiunto. Una svolta realista, che mal si concilia tuttavia con il recente passato. In campagna elettorale, Biden aveva promesso che avrebbe reso Riad un «paria», accusando Trump di farsela con i dittatori e garantendo che, da presidente, avrebbe lottato contro le autocrazie. Ora, messo in ginocchio dalla crisi energetica, il presidente spera nell’aiuto dei sauditi, in considerazione del loro peso politico in seno all’Opec. Sauditi che nel frattempo hanno tuttavia consolidato i rapporti con Mosca e Pechino. Non mancano infine le turbolenze di politica interna per Biden. Alcuni esponenti dem non hanno digerito il suo imminente incontro con bin Salman, mentre nell’Asinello rischiano di riesplodere gli attriti tra l’ala centrista (filoisraeliana) e quella più a sinistra (filopalestinese). Un bel problema per il presidente, la cui leadership appare sempre più traballante: un tema non solo politico, ma anche di salute, visto che nella stessa visita israeliana Biden è apparso talvolta balbettante e non esente da gaffes. Con la sua distensione iraniana, il presidente americano ha reso il Medio Oriente più instabile di come lo aveva trovato. E i suoi equilibrismi rischiano adesso di far perdere agli Usa ulteriore influenza sull’area.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/israele-buco-acqua-biden-iran-2657676983.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="i-russi-hanno-conquistato-siversk-alleanza-corea-del-nord-cremlino" data-post-id="2657676983" data-published-at="1657872066" data-use-pagination="False"> I russi hanno conquistato Siversk. Alleanza Corea del Nord-Cremlino L’Ucraina tenta di respingere le accuse riguardanti i «percorsi» seguiti dalle armi fornite dall’Occidente. Dopo che la Ue ha istituito un hub in Moldavia per la lotta al contrabbando di armi, che pare stiano finendo nelle mani dei trafficanti, anche il capo dell’ufficio del presidente Volodymyr Zelensky, Andriy Yermak, propone di creare una commissione speciale per controllare cosa stia accadendo. In precedenza, un membro del gruppo di hacker russo RaHDIt, aveva dichiarato che l’intelligence ucraina sta lavorando con criminali e contrabbandieri per rivendere le armi occidentali sul mercato nero. Ipotesi accreditata in parte dalla stessa Unione europea attraverso la creazione di un organismo per contrastare il fenomeno. Ora Kiev sembra intenzionata a fare luce sul punto. Mentre la questione armi scotta sempre di più, sul fronte delle alleanze la Corea del Nord si stringe alla Russia, riconoscendo formalmente l’indipendenza delle due repubbliche popolari separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk. La Corea del Nord è la terza nazione al mondo a procedere al riconoscimento, dopo Russia e Siria. In risposta alla mossa della Corea del Nord, l’Ucraina ha interrotto i rapporti diplomatici con Pyongyang. Sul riconoscimento del Donbass ha rincarato la dose anche il vice ministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. «Un futuro accordo con l’Ucraina deve prevedere il suo status di Paese non allineato, privo di nucleare, riconoscere le realtà territoriali, compreso l’attuale status di Crimea, Repubblica di Donetsk, Repubblica di Lugansk». Si tenta, invece, di arginare la crisi sul fronte lituano: le merci russe sanzionate potranno di nuovo transitare sul territorio verso Kaliningrad, come affermato dal ministero degli Esteri lituano che ha invertito la sua politica sulla base delle nuove linee guida della Commissione europea. Il governatore di Kaliningrad, Alikhanov, ha scritto che le nuove linee guida Ue sono «solo il primo passo» per risolvere lo stallo: «Continueremo a lavorare per la completa rimozione delle restrizioni». Mentre le alleanze si consolidano e le decisioni Ue mutano, sul campo restano morti e feriti. Sarebbe di oltre 20 il numero delle vittime dell’attacco missilistico russo sulla città di Vinnytsia: tra loro ci sono tre bambini. Lo ha affermato il vice capo dell’ufficio del presidente ucraino, Tymoshenko, aggiungendo che «i russi hanno colpito con missili Kalibr lanciati da un sottomarino schierato nel Mar Nero». Il servizio di emergenza statale ucraino è ancora alla ricerca di almeno 46 dispersi. Nell’oblast di Donetsk, le truppe russe e quelle separatiste affermano di essere entrate a Siversk. Missili sono stati lanciati dai russi sulla zona industriale di Kramatorsk. La situazione è tragica anche nel Sud del Paese, ma in questo caso le vittime sono state causate dai contrattacchi di Kiev, che hanno colpito Novaya Kakhovka, città occupata dai russi nella regione di Kherson. «La vita era quasi tornata alla normalità e ci stavamo preparando per il nuovo anno scolastico. Gli ultimi attacchi missilistici ucraini hanno distrutto metà della città», ha dichiarato Vladimir Leontyev, capo dell’amministrazione militare-civile del distretto, insediato dai russi. Attacchi di Mosca sono stati uditi invece a Mykolaiv: secondo le prime informazioni sarebbe stato colpito un hotel. Nel frattempo, è in uscita un rapporto dell’Osce che si dice «preoccupata» per il trattamento riservato da Mosca ai civili ucraini nei «campi di filtraggio», progettati per identificare i sospettati di legami con le autorità di Kiev. Il rapporto va a sommarsi alle accuse di crimini di guerra sulle quali si stanno confrontando i ministri di 40 Paesi in Olanda, nel corso della «Ukraine accountability conference». I ministri incontreranno il procuratore capo della Corte penale internazionale per discutere di come portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra. Il governo britannico uscente di Boris Johnson ha stanziato 2,5 milioni di sterline per l’indagine. La vicinanza all’Ucraina è stata ribadita ancora una volta da papa Francesco, che ha chiesto che non cali l’attenzione sul conflitto.
(Arma dei Carabinieri)
Presso la Scuola Ufficiali Carabinieri l'evento è stato presentato da Licia Colò, alla presenza del Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, Gilberto Pichetto Fratin, e del Gen. C.A. Fabrizio Parrulli, Comandante del Cufaa(Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari Carabinieri). Nel corso dell’evento, anche il Segretario Generale della Convenzione delle Nazioni Unite Cites, Ivonne Higuero, ha rivolto un video-messaggio di saluto alla platea, elogiando l’impegno pluriennale profuso dai Carabinieri e dalle autorità italiane nel contrasto ai traffici di specie selvatiche protette.
La Convenzione Cites, ratificata dall’Italia con la legge n. 874 del 19 dicembre 1975, rappresenta oggi il più importante strumento internazionale per garantire un commercio sostenibile di oltre 40.000 specie di fauna e flora protette. Adottata dalle Nazioni Unite e ratificata da 185 Paesi, la Convenzione costituisce il pilastro normativo per impedire che mercati illegali, abusi e prelievi eccessivi compromettano la sopravvivenza delle specie più vulnerabili.
Il Calendario Cites 2026, realizzato dal Raggruppamento Carabinieri Cites del Comando Carabinieri per la Tutela della Biodiversità del Cufaa, ripercorre l’incessante lavoro svolto prima dal Corpo Forestale dello Stato e, dal 2017, dall’Arma dei Carabinieri attraverso i Nuclei Cites, nel contrasto ai traffici illegali e nella salvaguardia della biodiversità globale.
L’opera accompagna il pubblico in un viaggio attraverso 12 storie emblematiche, ognuna dedicata a una specie protetta che, grazie all’azione dei Carabinieri, ha trovato una nuova possibilità di vita. Tra queste, Edy e Bingo, due scimpanzé sottratti a gravi maltrattamenti in circhi e locali notturni; il leopardo rinvenuto in uno zoo privato illegale a Guspini (VS) e trasferito in una struttura idonea; Oscar, una rara tigre bianca recuperata da condizioni incompatibili con il benessere animale.
Il calendario racconta, inoltre, il ritorno alla libertà di centinaia di esemplari di Testudo graeca e Testudo hermanni, reimmessi nei loro habitat naturali dopo essere stati sequestrati ai traffici illegali, così come il delicato rimpatrio di numerose piante del genere Copiapoa nel deserto di Atacama, in Cile.
A chiudere il racconto, l’energia dei tursiopi, nuovamente liberi di nuotare in acque pulite e adeguate, testimonianza del successo delle attività di recupero e trasferimento operate dagli specialisti Cites.
Ogni storia rappresenta un simbolo del trionfo della legalità sulla sofferenza, sull’abuso e sul profitto illecito, e riflette l’impegno quotidiano dei Carabinieri nel difendere ecosistemi, specie rare e patrimoni naturali che appartengono all’intera umanità.
Nel corso dell’evento, sempre all’interno della Scuola Ufficiali Carabinieri, è stata allestita una mostra fotografica a cura del fotografo Marco Lanza, dal titolo: “Vite spezzate: dal contrasto al commercio illegale in Italia, i reperti confiscati del deposito centrale dei Carabinieri Cites”, con scatti realizzati nel Deposito di Magliano dei Marsi (AQ), gestito dal Raggruppamento Carabinieri Cites, dove viene custodita gran parte dei reperti confiscati durante le attività di contrasto al traffico illecito di animali e piante in via d’estinzione. Ogni fotografia riporta animali diventati oggetti tra oggetti, volutamente inseriti dall’autore in un contesto scarno ed essenziale, che quasi fanno percepire incredulità nel trovarsi in un luogo come questo; animali che interrogano l’osservatore mentre sembra vogliano uscire e riconquistare il proprio ruolo in natura.
Il cinquantesimo anniversario della Cites e il nuovo Calendario 2026 sono dunque l’occasione per riaffermare il valore della cooperazione internazionale e il ruolo determinante dell’Italia – e dell’Arma dei Carabinieri – nel contrasto alla criminalità ambientale e nella protezione della biodiversità mondiale.
Sul Calendario è riportata anche una personale dichiarazione del Gen. C.A. Salvatore Luongo, Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri: «L’anniversario per i 50 anni dell’Atto di ratifica in Italia della Convenzione di Washington rappresenta un’occasione di riflessione sull’importanza della salvaguardia della biodiversità su scala planetaria e sulla necessità di affrontare sempre più efficacemente la criminalità che lucra senza alcuno scrupolo sullo sfruttamento della fauna e flora minacciate di estinzione. Conservazione attiva, educazione alla legalità, prevenzione e contrasto sono le direttrici che vedono l’Arma dei Carabinieri, nel suo insieme e con i propri assetti di specialità del Cufaa, sempre più impegnata per dare piena attuazione ai principi fondamentali della Carta Costituzionale su tutto il territorio nazionale e negli scenari di cooperazione internazionale».
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Guido Carlino (Imagoeconomica)
È mancato quindi, grazie al «salvacondotto» approvato dal governo Conte nel 2020, quel controllo preventivo che ha portato i magistrati contabili a bocciare il progetto per la realizzazione del Ponte di Messina. Un paradosso in parte comprensibile, visto che l’emergenza per definizione richiede una certa flessibilità, ma che da quello che è emerso nel corso dell’audizione non viene applicata ad altre strutture commissariali che gestiscono emergenze. Come quella che gestisce la ricostruzione post terremoto del Centro Italia e quella che ha in carico le alluvioni dell’Emilia-Romagna.
In particolare, si legge ancora nel documento, «il perimetro stesso del controllo è stato delimitato attraverso la sottrazione al sindacato preventivo dei contratti relativi all’acquisto di dispositivi e, più in generale, di ogni altro atto negoziale posto in essere dal dipartimento della Protezione civile della presidenza del consiglio dei ministri e dai soggetti attuatori, in quanto conseguente all’urgente necessità di far fronte all’emergenza. A ciò si è accompagnata la limitazione della responsabilità amministrativo-contabile per tali atti “ai soli casi in cui sia stato accertato il dolo del funzionario o dell’agente che li ha posti in essere o che vi ha dato esecuzione”». «Ne è derivata», è la lapidaria conclusione, «una significativa compressione delle funzioni di controllo e di quelle giurisdizionali che ha coinvolto anche l’attività del commissario straordinario».
Sta di fatto che gli approfondimenti svolti dai magistrati contabili sembrano essere importanti: «Ad oggi, particolarmente intensa è stata l’istruttoria svolta nei confronti della presidenza del consiglio dei ministri, del dipartimento della Protezione civile, del ministero della Salute, del ministero dell’Economia e delle finanze nonché dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli, con riferimento ai flussi finanziari, ai costi della struttura commissariale, alle procedure negoziali, alle eventuali criticità gestionali rilevate e alle conseguenti azioni correttive, agli eventuali contenziosi, nonché alle attività di monitoraggio poste in essere, anche a seguito della chiusura dello stato di emergenza.
Oggetto di approfondimento è stato altresì lo sdoganamento dei dispositivi di protezione individuale e dei beni mobili di qualsiasi genere occorrenti per fronteggiare l’emergenza pandemica». I risultati delle attività in corso però sono ancora top secret: «Della conclusione dell’indagine si darà atto al momento della sua approvazione e pubblicazione».
Per Carlino l’argomento delle emergenze è delicato: «Non può tuttavia non richiamarsi sin d’ora la rilevanza di una particolare attenzione alle modalità di gestione attraverso strutture commissariali, alla luce di quanto è stato osservato dalla Corte dei Conti rispetto a fattispecie analoghe. È evidente che situazioni emergenziali impongono risposte rapide, capaci di superare l’ordinario assetto delle competenze e le regole che governano il normale svolgimento dell’azione amministrativa».
Una riflessione che ha portato la capogruppo di Fratelli d’Italia in commissione Covid, Alice Buonguerrieri a chiedere a Carlino: «Esistono delle limitazioni ad oggi di controlli preventivi concomitanti pari a quelle che abbiamo letto nel Cura Italia per la struttura commissariale, anche su altre strutture emergenziali?». La risposta del magistrato contabile è netta: «Per quanto riguarda i controlli concomitanti, non abbiamo avuto altre limitazioni nelle attività di controllo. L’unica limitazione avuta è quella che riguarda i controlli sulle gestioni del Pnrr e del piano nazionale complementare».
Più diplomatica, ma altrettanto chiara, la risposta alla domanda della parlamentare di Fdi che chiedeva se quello messo in piedi da Giuseppe Conte fosse un modello da replicare. «Io ritengo», spiega Carlino, «che l’obiettivo non solo della Corte dei Conti ma del legislatore debba essere quello di garantire il buon andamento dell’azione amministrativa allora il buon andamento dell’azione amministrativa va garantito attraverso l’introduzione, attraverso il mantenimento di controlli seri, efficaci, esterni quali sono i controlli svolti dalla Corte dei Conti, siano essi controlli preventivi di legittimità, ovvero i controlli successivi».
Ma non basta. Nel documento c’è anche una frase che mette in discussione il modello sanitario sviluppato nel corso degli anni dai governi precedenti, in larga misura a trazione progressista, con un esplicito riferimento ai tagli, più volte minimizzati dagli esponenti del centrosinistra: «Dagli esami svolti dalla Corte è emerso come il biennio dell’emergenza pandemica abbia evidenziato criticità strutturali, quali le carenze nella rete dei servizi territoriali e il sottodimensionamento delle risorse umane, particolarmente incise dalle misure di contenimento della spesa operate nel decennio precedente».
L’audizione della toga ha portato a una dura presa di posizione di Fratelli d’Italia. «Il presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, ha confermato in commissione Covid che, durante la prima fase della pandemia, si è consumato un fatto gravissimo: soltanto la struttura commissariale guidata da Domenico Arcuri ha goduto, grazie alle norme del governo Conte, di un annullamento dei controlli da parte della Corte dei Conti. Nessun controllo, né preventivo né concomitante». A dirlo sono i capigruppo FdI a Camera e Senato, Galeazzo Bignami e Lucio Malan. «Questo fatto», prosegue la nota, «è stato aggravato da uno scudo penale, previsto dallo stesso esecutivo, che ha determinato una vera e propria immunità totale, poiché danni erariali ingenti venivano archiviati restando dunque impuniti». «Tutte le spese», concludono i due esponenti di Fdi, «erano giustamente attenzionate, tranne quelle di Arcuri e della sua struttura. I risultati di questo trattamento di favore, li abbiamo visiti: sperperi, mascherine inidonee cinesi e mediatori occulti amici».
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L’imam Shahin lascia il CPR: per i giudici non sarebbe una minaccia tale da giustificare la detenzione, nonostante le sue parole sul 7 ottobre e un passato già segnalato dal Viminale. Il provvedimento di espulsione resta, ma la decisione riapre una questione cruciale: fino a che punto la sicurezza nazionale può essere messa in secondo piano rispetto ai ricorsi e alle interpretazioni giudiziarie?
Friedrich Merz, che sabato, al congresso della Csu in Baviera, ha detto che i decenni di pax americana sono finiti, ha rassicurato nei giorni scorsi i siderurgici tedeschi affermando che proteggerà l’acciaio nazionale, anche con dazi alla Cina se necessario. Il suo governo ha cambiato idea circa la clausola Made in Europe su appalti e beni industriali e ora la sostiene.
Un mese fa il Consiglio di sicurezza nazionale tedesco ha espresso preoccupazione per il predominio cinese sui materiali critici e le filiere strategiche. Dopo che il presidente francese Emmanuel Macron si è espresso a favore dei dazi per fermare lo strapotere cinese, anche Berlino sta vincendo la propria riluttanza e sembra intenzionata a intensificare quello che Ursula von der Leyen aveva chiamato sinora, prudentemente, derisking.
La Germania ha perso quote di mercato a favore della Cina proprio nei settori industriali più pesanti, cioè macchinari industriali, apparecchiature elettriche, autoveicoli, componentistica e chimica.
La banca statale Kfw, una specie di Cassa depositi e prestiti tedesca che il governo usa per mascherare gli aiuti di Stato, sta chiedendo al governo di decidere cosa acquistare in Cina e cosa produrre in casa. La produzione manifatturiera tedesca è scesa del 14% dal picco raggiunto nel 2017, con un calo costante. Il deficit commerciale nei confronti della Cina è arrivato a 73 miliardi nei primi dieci mesi di quest’anno, mentre il surplus complessivo cinese tra gennaio e novembre ha superato per la prima volta i 1.000 miliardi di dollari.
Ma Merz è in una posizione difficile, per un paio di serissime ragioni. La prima è la frattura tra le grandi case automobilistiche e chimiche tedesche, che ancora stanno investendo in Cina (vedi Volkswagen e Bmw, che hanno annunciato di poter produrre là al 100%), e l’associazione degli industriali produttori di macchinari di Vorstadt-Dach-Main (Vdma), che accusa Pechino di concorrenza sleale e chiede al governo di difendere l’industria tedesca.
La seconda è una ragione ben più profonda. La situazione attuale della Germania è il risultato stesso della spinta europea alla competitività sui mercati mondiali basata su moneta unica, austerità e bassi salari. La delocalizzazione in Cina e l’abbraccio con l’economia cinese è servita all’Ue per mantenere il proprio modello export-led. Importare dalla Cina ha permesso di ricevere prodotti a basso prezzo che i lavoratori europei, pagati meno del giusto, possono permettersi. In altre parole, il deficit commerciale con la Cina è uno strumento politico di supporto alla compressione delle dinamiche salariali.
L’austerità interna all’eurozona si nutre delle merci cinesi meno costose, che ne sono un pilastro. La Germania, e di riflesso l’eurozona, hanno favorito e coltivato questo modello e ora ne sono soverchiate. Ecco perché per Berlino scegliere di rompere i legami con la Cina e rendere più care le importazioni con i dazi può significare la fine del proprio modello economico e sociale, basato sulla crescita trainata dalle esportazioni e sulla compressione della domanda interna. Per Merz non si tratta tanto di proteggere la propria industria, quanto di decidere se cambiare l’assetto complessivo della Germania o perire. Cioè se ridare fiato alla domanda interna, investendo risorse pubbliche, lasciando aumentare i salari e gestendo l’inflazione senza panico, o proseguire nella strategia suicida perseguita sinora.
La necessità delle merci cinesi per tenere in piedi il baraccone della moneta unica europea è un fatto, ma il cancelliere tedesco si trova davanti ad un compito per il quale non sembra preparato, né culturalmente né politicamente.
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