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2022-07-15
In Israele buco nell’acqua di Biden sull’Iran
Joe Biden (Ansa)
Prosegue il tour mediorientale di Joe Biden. Il presidente americano è atteso oggi in Arabia saudita, mentre ieri ha incontrato a Gerusalemme il premier israeliano, Yair Lapid, e il presidente israeliano Isaac Herzog. Un viaggio che, nel complesso, continua a rivelarsi in salita per l’inquilino della Casa Bianca.
È pur vero che Biden e Lapid hanno mostrato una significativa sintonia. Mercoledì è stata annunciata la creazione di un comitato bilaterale per promuovere la collaborazione tecnologica, mentre ieri i due leader hanno siglato la «Dichiarazione di Gerusalemme sul partenariato strategico Usa-Israele»: un documento volto, tra le altre cose, a rafforzare la cooperazione bilaterale, rendere più efficace il contrasto all’antisemitismo e a estendere gli accordi di Abramo.
Eppure un dossier ha continuato a incombere sulla tappa israeliana del presidente americano: l’Iran. Anche qui, a prima vista, sembrerebbe esserci piena sintonia. Nella suddetta Dichiarazione, i due Paesi si sono infatti impegnati a scongiurare l’eventualità che Teheran possa entrare in possesso dell’arma nucleare. Inoltre, mercoledì, l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso il ricorso all’uso della forza contro il regime degli ayatollah, pur precisando che, in caso, si tratterebbe dell’«ultima risorsa»: in questo quadro, il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha minacciato ieri una «risposta dura» contro gli Usa e i loro alleati regionali.
Ciononostante, dietro i sorrisi, si è registrata qualche dissonanza tra Biden e Lapid. Ieri, poco prima che iniziasse la conferenza stampa congiunta, il premier israeliano aveva dichiarato: «Abbiamo discusso della minaccia iraniana e di quello che pensiamo sia la cosa giusta da fare per assicurarci, cosa che condividiamo, che non ci sarà un Iran nucleare. Questa non è solo una minaccia per Israele, ma per il mondo». Parole che lasciano intendere come, da parte israeliana, si continui a nutrire significativa ostilità verso l’accordo sul nucleare del 2015: accordo che, siglato da Barack Obama, fu abbandonato da Donald Trump nel 2018 e che Biden ha cercato di ripristinare attraverso colloqui indiretti con Teheran a partire dall’anno scorso.
Un accordo a cui, nonostante le trattative attualmente in salita, il presidente americano non sembra disposto a rinunciare. Interpellato appositamente sull’eventualità di una deadline per rilanciarlo, ieri ha affermato: «Aspettiamo la loro risposta (degli iraniani, ndr). Non sono sicuro quando arriverà, ma non aspetteremo per sempre». Parole che, per quanto severe nei confronti di Teheran, non hanno tuttavia gettato a mare la possibilità di ripristinare quell’intesa che, oltre ad essere pericolosa per la stabilità mediorientale e per l’esistenza di Israele, è anche contraddittoria: l’Iran è infatti uno stretto alleato della Russia e ha annunciato a marzo che aiuterà il Cremlino contro le sanzioni occidentali. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha di recente reso noto che Teheran starebbe per fornire droni militari a Mosca.
È in questo contesto che ieri Lapid ha incalzato Biden sulla deterrenza. «L’unica cosa che fermerà l’Iran è sapere che, se continuerà a sviluppare il suo programma nucleare, il mondo libero userà la forza. L’unico modo per fermarli è mettere sul tavolo una minaccia militare credibile», ha detto il premier israeliano. «Continuo a credere che la diplomazia sia la via migliore», ha affermato il presidente americano, facendo così emergere la propria divergenza con Lapid. Divergenza che potrebbe addirittura aumentare, nel caso Benjamin Netanyahu dovesse tornare premier a novembre: quello stesso Netanyahu che storicamente non intrattiene relazioni idilliache con l’attuale presidente americano (sebbene i due abbiano avuto un colloquio ieri). A conferma della divergenza di vedute, il Times of Israel ha riferito, citando fonti governative, la «frustrazione» di Israele su come Biden ha affrontato il dossier iraniano.
Continua, intanto, l’imbarazzo per la visita odierna in Arabia saudita, dove Biden incontrerà il principe ereditario Mohammad bin Salman. «Le mie opinioni su Khashoggi sono state assolutamente chiare e non ho mai rinunciato a parlare di diritti umani», ha detto il presidente americano ieri. «Il motivo per cui andrò in Arabia Saudita è per promuovere gli interessi degli Stati Uniti», ha aggiunto. Una svolta realista, che mal si concilia tuttavia con il recente passato. In campagna elettorale, Biden aveva promesso che avrebbe reso Riad un «paria», accusando Trump di farsela con i dittatori e garantendo che, da presidente, avrebbe lottato contro le autocrazie. Ora, messo in ginocchio dalla crisi energetica, il presidente spera nell’aiuto dei sauditi, in considerazione del loro peso politico in seno all’Opec. Sauditi che nel frattempo hanno tuttavia consolidato i rapporti con Mosca e Pechino. Non mancano infine le turbolenze di politica interna per Biden. Alcuni esponenti dem non hanno digerito il suo imminente incontro con bin Salman, mentre nell’Asinello rischiano di riesplodere gli attriti tra l’ala centrista (filoisraeliana) e quella più a sinistra (filopalestinese). Un bel problema per il presidente, la cui leadership appare sempre più traballante: un tema non solo politico, ma anche di salute, visto che nella stessa visita israeliana Biden è apparso talvolta balbettante e non esente da gaffes. Con la sua distensione iraniana, il presidente americano ha reso il Medio Oriente più instabile di come lo aveva trovato. E i suoi equilibrismi rischiano adesso di far perdere agli Usa ulteriore influenza sull’area.
I russi hanno conquistato Siversk. Alleanza Corea del Nord-Cremlino
L’Ucraina tenta di respingere le accuse riguardanti i «percorsi» seguiti dalle armi fornite dall’Occidente. Dopo che la Ue ha istituito un hub in Moldavia per la lotta al contrabbando di armi, che pare stiano finendo nelle mani dei trafficanti, anche il capo dell’ufficio del presidente Volodymyr Zelensky, Andriy Yermak, propone di creare una commissione speciale per controllare cosa stia accadendo. In precedenza, un membro del gruppo di hacker russo RaHDIt, aveva dichiarato che l’intelligence ucraina sta lavorando con criminali e contrabbandieri per rivendere le armi occidentali sul mercato nero.
Ipotesi accreditata in parte dalla stessa Unione europea attraverso la creazione di un organismo per contrastare il fenomeno. Ora Kiev sembra intenzionata a fare luce sul punto. Mentre la questione armi scotta sempre di più, sul fronte delle alleanze la Corea del Nord si stringe alla Russia, riconoscendo formalmente l’indipendenza delle due repubbliche popolari separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk. La Corea del Nord è la terza nazione al mondo a procedere al riconoscimento, dopo Russia e Siria.
In risposta alla mossa della Corea del Nord, l’Ucraina ha interrotto i rapporti diplomatici con Pyongyang. Sul riconoscimento del Donbass ha rincarato la dose anche il vice ministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. «Un futuro accordo con l’Ucraina deve prevedere il suo status di Paese non allineato, privo di nucleare, riconoscere le realtà territoriali, compreso l’attuale status di Crimea, Repubblica di Donetsk, Repubblica di Lugansk». Si tenta, invece, di arginare la crisi sul fronte lituano: le merci russe sanzionate potranno di nuovo transitare sul territorio verso Kaliningrad, come affermato dal ministero degli Esteri lituano che ha invertito la sua politica sulla base delle nuove linee guida della Commissione europea.
Il governatore di Kaliningrad, Alikhanov, ha scritto che le nuove linee guida Ue sono «solo il primo passo» per risolvere lo stallo: «Continueremo a lavorare per la completa rimozione delle restrizioni». Mentre le alleanze si consolidano e le decisioni Ue mutano, sul campo restano morti e feriti. Sarebbe di oltre 20 il numero delle vittime dell’attacco missilistico russo sulla città di Vinnytsia: tra loro ci sono tre bambini. Lo ha affermato il vice capo dell’ufficio del presidente ucraino, Tymoshenko, aggiungendo che «i russi hanno colpito con missili Kalibr lanciati da un sottomarino schierato nel Mar Nero». Il servizio di emergenza statale ucraino è ancora alla ricerca di almeno 46 dispersi. Nell’oblast di Donetsk, le truppe russe e quelle separatiste affermano di essere entrate a Siversk. Missili sono stati lanciati dai russi sulla zona industriale di Kramatorsk. La situazione è tragica anche nel Sud del Paese, ma in questo caso le vittime sono state causate dai contrattacchi di Kiev, che hanno colpito Novaya Kakhovka, città occupata dai russi nella regione di Kherson.
«La vita era quasi tornata alla normalità e ci stavamo preparando per il nuovo anno scolastico. Gli ultimi attacchi missilistici ucraini hanno distrutto metà della città», ha dichiarato Vladimir Leontyev, capo dell’amministrazione militare-civile del distretto, insediato dai russi. Attacchi di Mosca sono stati uditi invece a Mykolaiv: secondo le prime informazioni sarebbe stato colpito un hotel.
Nel frattempo, è in uscita un rapporto dell’Osce che si dice «preoccupata» per il trattamento riservato da Mosca ai civili ucraini nei «campi di filtraggio», progettati per identificare i sospettati di legami con le autorità di Kiev. Il rapporto va a sommarsi alle accuse di crimini di guerra sulle quali si stanno confrontando i ministri di 40 Paesi in Olanda, nel corso della «Ukraine accountability conference». I ministri incontreranno il procuratore capo della Corte penale internazionale per discutere di come portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra. Il governo britannico uscente di Boris Johnson ha stanziato 2,5 milioni di sterline per l’indagine. La vicinanza all’Ucraina è stata ribadita ancora una volta da papa Francesco, che ha chiesto che non cali l’attenzione sul conflitto.
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La linea morbida degli Stati Uniti non piace al premier Yair Lapid: «Per fermare il suo programma nucleare dobbiamo far sapere a Teheran che il mondo può usare la forza». Ma il presidente americano vuole la via diplomatica. E oggi arriva in Arabia Saudita.Alleanza Corea del Nord-Russia: Pyongyang riconosce le repubbliche di Donetsk e Lugansk. Ancora morti tra i civili.Lo speciale contiene due articoli.Prosegue il tour mediorientale di Joe Biden. Il presidente americano è atteso oggi in Arabia saudita, mentre ieri ha incontrato a Gerusalemme il premier israeliano, Yair Lapid, e il presidente israeliano Isaac Herzog. Un viaggio che, nel complesso, continua a rivelarsi in salita per l’inquilino della Casa Bianca. È pur vero che Biden e Lapid hanno mostrato una significativa sintonia. Mercoledì è stata annunciata la creazione di un comitato bilaterale per promuovere la collaborazione tecnologica, mentre ieri i due leader hanno siglato la «Dichiarazione di Gerusalemme sul partenariato strategico Usa-Israele»: un documento volto, tra le altre cose, a rafforzare la cooperazione bilaterale, rendere più efficace il contrasto all’antisemitismo e a estendere gli accordi di Abramo. Eppure un dossier ha continuato a incombere sulla tappa israeliana del presidente americano: l’Iran. Anche qui, a prima vista, sembrerebbe esserci piena sintonia. Nella suddetta Dichiarazione, i due Paesi si sono infatti impegnati a scongiurare l’eventualità che Teheran possa entrare in possesso dell’arma nucleare. Inoltre, mercoledì, l’inquilino della Casa Bianca non ha escluso il ricorso all’uso della forza contro il regime degli ayatollah, pur precisando che, in caso, si tratterebbe dell’«ultima risorsa»: in questo quadro, il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha minacciato ieri una «risposta dura» contro gli Usa e i loro alleati regionali. Ciononostante, dietro i sorrisi, si è registrata qualche dissonanza tra Biden e Lapid. Ieri, poco prima che iniziasse la conferenza stampa congiunta, il premier israeliano aveva dichiarato: «Abbiamo discusso della minaccia iraniana e di quello che pensiamo sia la cosa giusta da fare per assicurarci, cosa che condividiamo, che non ci sarà un Iran nucleare. Questa non è solo una minaccia per Israele, ma per il mondo». Parole che lasciano intendere come, da parte israeliana, si continui a nutrire significativa ostilità verso l’accordo sul nucleare del 2015: accordo che, siglato da Barack Obama, fu abbandonato da Donald Trump nel 2018 e che Biden ha cercato di ripristinare attraverso colloqui indiretti con Teheran a partire dall’anno scorso. Un accordo a cui, nonostante le trattative attualmente in salita, il presidente americano non sembra disposto a rinunciare. Interpellato appositamente sull’eventualità di una deadline per rilanciarlo, ieri ha affermato: «Aspettiamo la loro risposta (degli iraniani, ndr). Non sono sicuro quando arriverà, ma non aspetteremo per sempre». Parole che, per quanto severe nei confronti di Teheran, non hanno tuttavia gettato a mare la possibilità di ripristinare quell’intesa che, oltre ad essere pericolosa per la stabilità mediorientale e per l’esistenza di Israele, è anche contraddittoria: l’Iran è infatti uno stretto alleato della Russia e ha annunciato a marzo che aiuterà il Cremlino contro le sanzioni occidentali. Lo stesso consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, Jake Sullivan, ha di recente reso noto che Teheran starebbe per fornire droni militari a Mosca. È in questo contesto che ieri Lapid ha incalzato Biden sulla deterrenza. «L’unica cosa che fermerà l’Iran è sapere che, se continuerà a sviluppare il suo programma nucleare, il mondo libero userà la forza. L’unico modo per fermarli è mettere sul tavolo una minaccia militare credibile», ha detto il premier israeliano. «Continuo a credere che la diplomazia sia la via migliore», ha affermato il presidente americano, facendo così emergere la propria divergenza con Lapid. Divergenza che potrebbe addirittura aumentare, nel caso Benjamin Netanyahu dovesse tornare premier a novembre: quello stesso Netanyahu che storicamente non intrattiene relazioni idilliache con l’attuale presidente americano (sebbene i due abbiano avuto un colloquio ieri). A conferma della divergenza di vedute, il Times of Israel ha riferito, citando fonti governative, la «frustrazione» di Israele su come Biden ha affrontato il dossier iraniano. Continua, intanto, l’imbarazzo per la visita odierna in Arabia saudita, dove Biden incontrerà il principe ereditario Mohammad bin Salman. «Le mie opinioni su Khashoggi sono state assolutamente chiare e non ho mai rinunciato a parlare di diritti umani», ha detto il presidente americano ieri. «Il motivo per cui andrò in Arabia Saudita è per promuovere gli interessi degli Stati Uniti», ha aggiunto. Una svolta realista, che mal si concilia tuttavia con il recente passato. In campagna elettorale, Biden aveva promesso che avrebbe reso Riad un «paria», accusando Trump di farsela con i dittatori e garantendo che, da presidente, avrebbe lottato contro le autocrazie. Ora, messo in ginocchio dalla crisi energetica, il presidente spera nell’aiuto dei sauditi, in considerazione del loro peso politico in seno all’Opec. Sauditi che nel frattempo hanno tuttavia consolidato i rapporti con Mosca e Pechino. Non mancano infine le turbolenze di politica interna per Biden. Alcuni esponenti dem non hanno digerito il suo imminente incontro con bin Salman, mentre nell’Asinello rischiano di riesplodere gli attriti tra l’ala centrista (filoisraeliana) e quella più a sinistra (filopalestinese). Un bel problema per il presidente, la cui leadership appare sempre più traballante: un tema non solo politico, ma anche di salute, visto che nella stessa visita israeliana Biden è apparso talvolta balbettante e non esente da gaffes. Con la sua distensione iraniana, il presidente americano ha reso il Medio Oriente più instabile di come lo aveva trovato. 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In precedenza, un membro del gruppo di hacker russo RaHDIt, aveva dichiarato che l’intelligence ucraina sta lavorando con criminali e contrabbandieri per rivendere le armi occidentali sul mercato nero. Ipotesi accreditata in parte dalla stessa Unione europea attraverso la creazione di un organismo per contrastare il fenomeno. Ora Kiev sembra intenzionata a fare luce sul punto. Mentre la questione armi scotta sempre di più, sul fronte delle alleanze la Corea del Nord si stringe alla Russia, riconoscendo formalmente l’indipendenza delle due repubbliche popolari separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk. La Corea del Nord è la terza nazione al mondo a procedere al riconoscimento, dopo Russia e Siria. In risposta alla mossa della Corea del Nord, l’Ucraina ha interrotto i rapporti diplomatici con Pyongyang. Sul riconoscimento del Donbass ha rincarato la dose anche il vice ministro degli Esteri russo Andrey Rudenko. «Un futuro accordo con l’Ucraina deve prevedere il suo status di Paese non allineato, privo di nucleare, riconoscere le realtà territoriali, compreso l’attuale status di Crimea, Repubblica di Donetsk, Repubblica di Lugansk». Si tenta, invece, di arginare la crisi sul fronte lituano: le merci russe sanzionate potranno di nuovo transitare sul territorio verso Kaliningrad, come affermato dal ministero degli Esteri lituano che ha invertito la sua politica sulla base delle nuove linee guida della Commissione europea. Il governatore di Kaliningrad, Alikhanov, ha scritto che le nuove linee guida Ue sono «solo il primo passo» per risolvere lo stallo: «Continueremo a lavorare per la completa rimozione delle restrizioni». Mentre le alleanze si consolidano e le decisioni Ue mutano, sul campo restano morti e feriti. Sarebbe di oltre 20 il numero delle vittime dell’attacco missilistico russo sulla città di Vinnytsia: tra loro ci sono tre bambini. Lo ha affermato il vice capo dell’ufficio del presidente ucraino, Tymoshenko, aggiungendo che «i russi hanno colpito con missili Kalibr lanciati da un sottomarino schierato nel Mar Nero». Il servizio di emergenza statale ucraino è ancora alla ricerca di almeno 46 dispersi. Nell’oblast di Donetsk, le truppe russe e quelle separatiste affermano di essere entrate a Siversk. Missili sono stati lanciati dai russi sulla zona industriale di Kramatorsk. La situazione è tragica anche nel Sud del Paese, ma in questo caso le vittime sono state causate dai contrattacchi di Kiev, che hanno colpito Novaya Kakhovka, città occupata dai russi nella regione di Kherson. «La vita era quasi tornata alla normalità e ci stavamo preparando per il nuovo anno scolastico. Gli ultimi attacchi missilistici ucraini hanno distrutto metà della città», ha dichiarato Vladimir Leontyev, capo dell’amministrazione militare-civile del distretto, insediato dai russi. Attacchi di Mosca sono stati uditi invece a Mykolaiv: secondo le prime informazioni sarebbe stato colpito un hotel. Nel frattempo, è in uscita un rapporto dell’Osce che si dice «preoccupata» per il trattamento riservato da Mosca ai civili ucraini nei «campi di filtraggio», progettati per identificare i sospettati di legami con le autorità di Kiev. Il rapporto va a sommarsi alle accuse di crimini di guerra sulle quali si stanno confrontando i ministri di 40 Paesi in Olanda, nel corso della «Ukraine accountability conference». I ministri incontreranno il procuratore capo della Corte penale internazionale per discutere di come portare davanti alla giustizia i responsabili di crimini di guerra. Il governo britannico uscente di Boris Johnson ha stanziato 2,5 milioni di sterline per l’indagine. La vicinanza all’Ucraina è stata ribadita ancora una volta da papa Francesco, che ha chiesto che non cali l’attenzione sul conflitto.
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Tra Natale ed Epifania il turismo italiano supera i 7 miliardi di euro di giro d’affari. Crescono presenze, viaggi interni ed esperienze artigianali, con città d’arte e montagne in testa alle preferenze.
Le settimane comprese tra il Natale e l’Epifania si confermano uno dei momenti più redditizi dell’anno per il turismo italiano. Secondo le stime di Cna Turismo e Commercio, il giro d’affari generato tra feste, fine anno e Befana supera i 7 miliardi di euro. Un risultato che non fotografa soltanto l’andamento economico del settore, ma racconta anche un’evoluzione nelle scelte e nelle aspettative dei viaggiatori.
Nel periodo festivo sono attesi oltre 5 milioni di turisti che trascorreranno almeno una notte in una struttura ricettiva: circa 3,7 milioni sono italiani, mentre 1,3 milioni arrivano dall’estero. A questi si aggiunge una platea ben più ampia di persone in movimento: oltre 20 milioni di individui si sposteranno per escursioni giornaliere, soggiorni nelle seconde case o visite a parenti e amici.
Per quanto riguarda i flussi internazionali, la componente europea resta prevalente, con arrivi soprattutto da Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. Fuori dal continente, si segnalano presenze significative da Stati Uniti, Canada e Cina. Le preferenze delle destinazioni confermano una tendenza ormai consolidata. In cima alle scelte ci sono le città e i borghi d’arte, seguiti dalle località di montagna. Due modi diversi di vivere le vacanze natalizie: da un lato l’attrazione per il patrimonio culturale, i mercatini e le atmosfere urbane illuminate dalle feste; dall’altro la ricerca della neve, degli sport invernali e di un contatto più diretto con l’ambiente naturale.
Alla base di questo successo concorrono diversi fattori. L’Italia continua a esercitare un forte richiamo quando si parla di tradizioni natalizie: dai presepi, in particolare quelli napoletani, ai mercatini dell’arco alpino, passando per i centri storici addobbati e le celebrazioni religiose che trovano a Roma uno dei loro punti centrali. Un insieme di elementi che costruisce un’offerta culturale difficilmente replicabile. Proprio la dimensione religiosa e identitaria del Natale italiano rappresenta un elemento di attrazione per molti visitatori nordamericani e per i turisti provenienti da Paesi di tradizione cattolica, spesso alla ricerca di un’esperienza percepita come più autentica rispetto a celebrazioni considerate eccessivamente commerciali. A questo si aggiunge la varietà climatica del Paese: temperature più miti al Sud e nelle isole per chi vuole evitare il freddo, condizioni ideali sulle Alpi per gli amanti dello sci e della montagna. Un segnale particolarmente rilevante arriva dalla crescita delle cosiddette esperienze, soprattutto quelle legate all’artigianato. Sempre più viaggiatori scelgono di affiancare alla visita dei luoghi la partecipazione diretta ad attività tradizionali: dalla preparazione della pasta fresca alle lavorazioni del vetro di Murano, fino alla ceramica umbra e toscana. È un approccio che indica un cambiamento nel modo di viaggiare, meno orientato alla semplice osservazione e più alla partecipazione.
Questo interesse incrocia diverse tendenze attuali: il bisogno di autenticità in un contesto sempre più standardizzato, la volontà di riportare a casa un’esperienza che vada oltre il souvenir e l’attenzione verso il “saper fare” italiano, riconosciuto come patrimonio immateriale di valore internazionale.
Sul piano economico incidono anche fattori più generali. La ripresa del potere d’acquisto delle classi medie in Europa e negli Stati Uniti, dopo anni di incertezza, ha sostenuto la propensione alla spesa per le vacanze. Il rafforzamento del dollaro favorisce i turisti statunitensi, mentre la fase di stabilizzazione successiva alla pandemia ha contribuito a ricostruire la fiducia nei viaggi. Il periodo natalizio rappresenta inoltre uno degli esempi più riusciti di destagionalizzazione, obiettivo perseguito da tempo dagli operatori del settore. Le strutture ricettive registrano livelli di occupazione elevati in settimane che in passato erano considerate marginali. Anche i collegamenti giocano un ruolo chiave: l’espansione dei voli low cost e il miglioramento dell’offerta ferroviaria rendono più accessibili non solo le grandi città, ma anche destinazioni meno centrali, favorendo una distribuzione più ampia dei flussi.
Accanto ai dati positivi emergono però alcune criticità. La concentrazione dei visitatori rischia di mettere sotto pressione alcune mete, mentre altre restano ai margini. Il turismo di prossimità, rappresentato dai milioni di italiani che si spostano senza pernottare in alberghi o strutture ricettive, costituisce un bacino ancora parzialmente inesplorato. Allo stesso tempo, la crescente domanda di esperienze personalizzate richiede investimenti in formazione e una maggiore integrazione tra operatori locali.
Le festività di fine anno restano comunque un motore fondamentale per l’economia del turismo, in grado di coinvolgere l’intera filiera: ristorazione, artigianato, trasporti e offerta culturale. Un patrimonio che, per continuare a produrre risultati nel tempo, richiede una strategia capace di innovare senza snaturare quell’autenticità che rappresenta il vero punto di forza del sistema italiano.
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I computer che guidano i mezzi non sono più stati in grado di calcolare come muoversi anche perché i sensori di bordo leggono lo stato dei semafori e questi erano spenti. Dunque Waymo in sé non ha alcuna colpa, e soltanto domenica pomeriggio è stato ripristinato il servizio. Dunque questa volta non c’è un problema di sicurezza per gli occupanti e neppure un pericolo per chi si trova a guidare, piuttosto, invece, c’è la dimostrazione che le nuove tecnologie sono terribilmente dipendenti da altre: in questo caso il rilevamento delle luci dei semafori, indispensabili per affrontare gli incroci e le svolte. Qui si rivela la differenza tra l’umano che conduce la meccanica e l’intelligenza artificiale: innanzi a un imprevisto, seppure con tutti i suoi limiti e difetti, un essere umano avrebbe improvvisato e tentato una soluzione, mentre la macchina (fortunatamente) ha obbedito alle leggi di controllo. Il problema non ha coinvolto i robotaxi Tesla, che invece agiscono con sistemi differenti, più simili ai ragionamenti umani, ovvero sono più indipendenti dalle infrastrutture della circolazione. Naturalmente Waymo può trarre da questo evento diverse considerazioni. La prima riguarda l’effettiva dipendenza del sistema di guida dalle infrastrutture esterne; la seconda è la valutazione di come i mezzi automatizzati hanno reagito alla mancanza di informazioni. Infine, come sarà possibile modificare i software di controllo affinché, qualora capiti un nuovo incidente tecnico, le auto possano completare in sicurezza il servizio. Dall’esterno della vicenda è invece possibile valutare anche altro: le tecnologie digitali applicate alle dinamiche automobilistiche non sono ancora sufficientemente autonome. Sia chiaro, lo stesso vale per navi e aeroplani, ma mentre per questi ultimi gli algoritmi dei droni stanno già portando a una ricaduta di tecnologia che viene trasferita ai velivoli pilotati, nel campo automobilistico c’è ancora molto lavoro da fare. Proprio ieri, sempre negli Usa, il pilota di un velivolo King Air da nove posti è stato colpito da un malore. La chiamano “pilot incapacitation” e a bordo non c’era nessun altro che potesse prendere il controllo e atterrare. Ed è qui che la tecnologia ha salvato aeroplano e occupanti: il passeggero che sedeva accanto all’uomo ha premuto il tasto del sistema “Autoland”, l’autopilota ha scelto la pista idonea per lunghezza più vicina alla posizione dell’aereo e alla rotta percorsa, ha avvertito il centro di controllo e anche messo il passeggero nelle condizioni di dichiarare la necessità di un’ambulanza sul posto. L’alternativa sarebbe stato un disastro aereo con diverse vittime. La notizia potrebbe sembrare senza alcuna correlazione con quanto accaduto a San Francisco, ma così non è: il produttore del sistema di navigazione dell’aeroplano è Garmin, ovvero il medesimo che fornisce navigatori al settore automotive. E che prima o poi vedremo fornire uno dei suoi prodotti a qualche costruttore di automobili.
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Era inoltre il 22 dicembre, quando il Times of Israel ha riferito che «Israele ha avvertito l'amministrazione Trump che il corpo delle Guardie della rivoluzione Islamica dell'Iran potrebbe utilizzare un'esercitazione militare in corso incentrata sui missili come copertura per lanciare un attacco contro Israele». «Le probabilità di un attacco iraniano sono inferiori al 50%, ma nessuno è disposto a correre il rischio e a dire che si tratta solo di un'esercitazione», ha in tal senso affermato ad Axios un funzionario di Gerusalemme.
Tutto questo, mentre il 17 dicembre il direttore del Mossad, David Barnea, aveva dichiarato che lo Stato ebraico deve «garantire» che Teheran non si doti dell’arma atomica. «L'idea di continuare a sviluppare una bomba nucleare batte ancora nei loro cuori. Abbiamo la responsabilità di garantire che il progetto nucleare, gravemente danneggiato, in stretta collaborazione con gli americani, non venga mai attivato», aveva detto.
Insomma, la tensione tra Gerusalemme e Teheran sta tornando a salire. Ricordiamo che, lo scorso giugno, le due capitali avevano combattuto la «guerra dei dodici giorni»: guerra, nel cui ambito gli Stati Uniti avevano colpito tre siti nucleari iraniani, per poi mediare un cessate il fuoco con l’aiuto del Qatar. Non dimentichiamo inoltre che Trump punta a negoziare un nuovo accordo sul nucleare di Teheran con l’obiettivo di scongiurare l’eventualità che gli ayatollah possano conseguire l’arma atomica. Uno scenario, quest’ultimo, assai temuto tanto dagli israeliani quanto dai sauditi.
Il punto è che le rinnovate tensioni tra Israele e Teheran si stanno verificando in una fase di fibrillazione tra lo Stato ebraico e la Casa Bianca. Trump è rimasto irritato a causa del recente attacco militare di Gerusalemme a Gaza, mentre Netanyahu non vede di buon occhio la possibile vendita di caccia F-35 al governo di Doha. Bisognerà quindi vedere se, nei prossimi giorni, il dossier iraniano riavvicinerà o meno il presidente americano e il premier israeliano.
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