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2018-03-27
Niente visite alla figlia malata perché c’è una donna velata in stanza
LaPresse
La convivenza forzata fra popoli e culture differenti è già difficile nella vita quotidiana, in condizioni di normalità, figuriamoci in situazioni di emergenza, quando la condivisione di spazi comuni si fa obbligata. Tipo in ospedale.
Lo si è visto - ma non è il primo caso del genere - in Austria, dove un padre è stato costretto dai medici a rinunciare a vedere in ospedale la figlia malata a causa delle richieste di un'altra ricoverata, musulmana radicale. La figlia ventitreenne dell'uomo, gravemente malata di sclerosi multipla, si trovava infatti nella stessa stanza di un'islamica osservante, che non gradiva la presenza di un uomo in camera. E questo nonostante fosse presente una tenda divisoria tra i due letti. Il signor Robert Salfenauer non ha quindi potuto salutare la figlia Chiara. Quando l'immigrata si è accorta che nella stanza era presente un uomo ha infatti iniziato a urlare fino a che Salfenauer non è stato costretto dal personale a uscire dalla stanza. Per parlare un po' con la figlia si è fermato sulla soglia, restando nel corridoio, ma anche in questo caso la paziente islamica ha richiesto l'intervento degli infermieri. Una situazione non simpatica, anche a causa della malattia particolarmente grave della giovane. Chiara si è ammalata cinque anni fa di sclerosi multipla. Ammessa a un programma di ricerca presso l'Allgemeines Krankenhaus di Vienna, l'ospedale generale, la ragazza deve andare in clinica per una notte ogni sei mesi. Il farmaco che le viene somministrato, infatti, ha effetti collaterali potenzialmente pericolosi, quindi in queste sedute la giovane è sempre accompagnata dai genitori. Che, già provati dall'esperienza, non meritavano certo di dover fare i conti con le follie dell'Austria multiculturale.
«Siamo rimasti scioccati dal fatto che una musulmana radicale abbia potuto condizionare la vita di un ospedale a Vienna. Di fatto ha potuto decidere che non potessi vedere mia figlia. Eppure ogni forma di radicalismo dovrebbe essere combattuta», ha detto l'uomo. Salfenauer, che di professione fa l'avvocato, il giorno dopo l'incidente si è mosso legalmente. La direzione del nosocomio, dal canto suo, ha dichiarato di essere giunta, dopo aver sentito tutte le testimonianze, a una «visione d'insieme dell'incidente». Che sarebbe questa: «Il padre della giovane paziente voleva guardare oltre la tenda divisoria mentre la donna velata pompava il latte per il suo neonato». Ma Salfenauer ha respinto l'accusa: «Non ho mai provato a guardare oltre la tenda divisoria. Ci sono dei testimoni». Ma, come dicevamo, non è la prima volta che siamo costretti a raccontare episodi simili. lo scorso febbraio, a Parma, un'anziana paziente italiana era stata sfrattata dall'ospedale per volere della vicina di letto musulmana. Secondo quanto aveva raccontato allora La Gazzetta di Parma, una donna di 89 anni, ricoverata all'ospedale maggiore della città emiliana nel reparto maxillo-facciale, sarebbe stata costretta a cambiare stanza dopo le insistenze di una paziente albanese di religione musulmana.
Il problema, anche questa volta, sarebbe sorto per la presenza di un uomo, nello specifico il figlio dell'anziana. Non potendo rimanere in stanza con un uomo, la straniera avrebbe chiesto che la paziente con cui condivideva la camera venisse spostata. Secondo quanto riportato dalla figlia della paziente italiana, la discussione si sarebbe fatta accesa, fino a che l'infermiera di turno avrebbe spostato l'ottantanovenne in un'altra stanza. Sembra, inoltre, che la donna albanese sia rimasta per altre due notti in stanza da sola mentre c'erano pazienti anche in corridoio. La direzione dell'ospedale cercò di chiarire la vicenda, seppur in modo piuttosto sibillino. «Il trasferimento della signora nella stanza a fianco, dal letto 7 al letto 9 non è ovviamente stato imposto ai famigliari della signora, ma è stato eseguito insieme a loro; tant'è che da quanto verificato il nipote della paziente si è dimostrato molto gentile con gli infermieri aiutandoli a spostare gli oggetti della nonna, presenti sopra al comodino», spiegò Giuseppe La Torre, coordinatore infermieristico dell'unità operativa. Lo spostamento, quindi, era effettivamente avvenuto, l'ospedale si limitò a chiarire che esso fosse avvenuto in tutta calma, senza peraltro specificare se invece, in precedenza, si fossero avuti effettivi momenti di tensione.
Ma sulla motivazione religiosa dello spostamento non arrivò alcuna smentita: «Il trasferimento è stato concordato dall'equipe e veniva incontro alle rispettive esigenze. Ci sembra del tutto ragionevole mantenere un clima sereno e collaborativo da parte di tutti, in special modo quando questo non causa disagi ai pazienti e ai loro congiunti», commentò Enrico Sesenna, direttore della chirurgia maxillo facciale.
Allarme terrorismo: l’intelligence teme attentati per Pasqua
Il pericolo terroristico che arriva dalla Tunisia e che, come svela una silenziosa indagine della Procura di Messina, si propaga nelle carceri italiane tramite islamisti radicalizzati, ha prodotto un innalzamento del livello di pericolo e fatto scattare l'allarme pasquale della intelligence italiana. Verranno incrementate le misure di sicurezza a Roma e al Vaticano. Il nervo è scoperto.
E così l'altro giorno è bastata una lettera anonima arrivata all'ambasciata italiana a Tunisi per far partire la caccia all'uomo per Atef Mathlouthi, indicato come presunto terrorista pronto a colpire a Roma. L'uomo, già arrestato a Palermo per spaccio di droga e poi rientrato nel suo Paese, è inseguito da tre mandati di cattura e finirebbe in carcere nel caso mettesse piede in Italia. L'allarme per fortuna è rientrato in fretta. Ma quella è solo l'ultima delle segnalazioni che l'intelligence tunisina ha girato ai servizi di sicurezza italiani. Tra gennaio e marzo sono già sette i tunisini rimpatriati con provvedimento del ministro dell'Interno per motivi di sicurezza (sono 25 le espulsioni dal 2017). Due erano ritenuti contigui all'Isis e sono stati individuati a Ravenna, dove frequentavano i circoli culturali musulmani. Un altro, che viveva a Nettuno, è stato indicato come «elemento in contatto con esponenti dell'autoproclamato Stato islamico». Il quarto uomo intratteneva comunicazioni con appartenenti all'Isis in Francia ed è stato rintracciato ad Anzio.
È alla sua seconda espulsione, invece, il tunisino residente a Vimercate (Monza-Brianza) e rimandato a casa il 6 marzo (l'altra espulsione risale al 2015) perché in contatto con un foreign fighter in Siria. Secondo l'Aise, il servizio di sicurezza che si occupa di minaccia estera, era pronto a un «gesto eclatante». Gli ultimi due erano detenuti in carcere a Padova e Palermo e lavoravano da imam radicali tra i detenuti. L'attenzione dell'intelligence e della Procura nazionale antiterrorismo è concentrata in Sicilia. Lì, un'indagine condotta in gran silenzio dai magistrati di Messina sta andando avanti grazie ad alcune segnalazioni provenienti dall'ambiente penitenziario, bacino definito ricco «di spunti investigativi e di vere e proprie notizie di reato».
La segnalazione firmata dal Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, riguarda scritti e disegni «di soggetti di religione islamica detenuti per favoreggiamento all'immigrazione clandestina» che hanno portato a iscrizioni nel registro degli indagati per il reato di 270 bis, ossia associazione con finalità di terrorismo. Il monitoraggio del Dap ha evidenziato «segnali concreti di radicalizzazione e attività di proselitismo», scrivono i magistrati, «anche attraverso il ricorso a condotte violente nei confronti di altri detenuti di origine musulmana che non intendevano adeguarsi ai comportamenti strettamente ortodossi da loro imposti».
La rotta Tunisia-Italia, insomma, è da allarme rosso. Con il calo dei flussi dalla Libia c'è stato, nel 2017, un aumento del 492 per cento delle partenze tunisine rispetto al 2016. E quest'anno sono già sbarcati 1.187 tunisini su un totale di 6.161 migranti arrivati (il 19 per cento del totale). Nell'ultima relazione al Parlamento gli 007 hanno segnalato che «rispetto agli arrivi dalla Libia, quelli originati dalla Tunisia presentano caratteri peculiari: prevedono sbarchi “occulti", effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici». Ma la jihad tunisina è attiva anche sul web.
Porta lì un'indagine aperta dalla Procura di Salerno per un accesso abusivo al sistema informatico del Comune di Mercato San Severino «che aveva determinato», scrivono i pm Silvio Marco Guarriello e Rocco Alfano, «in luogo della normale visione del sito istituzionale del Comune, la comparsa di immagini di bambini feriti e mutilati». A rivendicare l'azione è stato «il sedicente gruppo Tunisian cyber resistance al fallaga team». E da allora gli 007 hanno messo sotto osservazione diverse campagne di influenza on line sospette, molte delle quali sono targate Tunisia.
Fabio Amendolara
Gli stregoni nigeriani combattono i trafficanti

L'unica sala cinematografica che si trova lungo la chilometrica strada Airpot road accanto al Palazzo del re (oba) nella città di Benin city, in Nigeria, cuore pulsante della criminalità organizzata per il traffico di esseri umani, è a qualche centinaio di metri dall'hotel che mi vede ospite ormai da quasi undici anni.
Il cinema ormai chiuso non poteva essere luogo adatto, oltre al caldo insopportabile, per proiettare La terza madre ultimo film della trilogia delle tre madri di Dario Argento sul tema della stregoneria, perché i film italiani sono assolutamente sconosciuti e non hanno mai toccato suolo nigeriano, e neppure The Prestige, diretto da Christopher Nolan una storia di maghi e magie dal momento che Hollywood è al terzo posto nella classifica, dopo Bollywood e Nollywood. Inoltre i film europei e americani li si può assaporare solo nella nuovissima multisala che si trova dalla parte opposta della città. Poteva allora essere una pièce teatrale nello storico teatro nazionale rinnovato una paio di anni fa e ubicato nello stesso ampio spazio del Centro culturale tradizionale di Benin City accanto al cinema. E invece no.
Quel giorno cinema e teatro erano silenti. L'intrattenimento invece era proprio sul lato opposto della strada, nel Palazzo del re, oba appunto, anzi del nuovo oba Eware II salito al trono da qualche mese. Nella storia, l'area dove oggi sorge Benin city faceva parte del regno del Benin (da non confondere con la repubblica del Benin) divenuto poi tutt'uno con lo la Nigeria con il nome di Edo state. E pensare che Benin city si chiamava «Ubinu», ma fu l'invasione dei portoghesi, giunti via mare e approdati al vicinissimo porto marittimo, che cambiò il nome della città. «Ubinu» veniva pronunciato così male dai portoghesi che lo trasformarono in Benin. Benin city è una città africana, amante delle tradizioni, di quasi due milioni di abitanti. È ben conosciuta in Italia e nel mondo per l'elevatissimo numero di migranti che cominciarono a partire verso l'occidente circa mille anni fa proprio con l'arrivo dei portoghesi.
È una città che quasi tutti in occidente sanno trovare sulla cartina geografica. Infatti il porto marittimo distante pochi chilometri da Benin city, verso la fine del 1400 fu il primo crocevia della tratta degli schiavi verso l'Europa. In quegli anni regnava un certo oba Eware detto «il Grande». Appunto grande viaggiatore e grande combattente e nello stesso tempo anche grande mediatore per il popolo. Aveva però introdotto una nuova legge che obbligava gli uomini sposati a non fare figli per tre anni. Quando realizzò che la popolazione stava riducendosi velocemente, fece realizzare un fosso molto profondo tutto intorno alla città in modo da non consentire ai cittadini di migrare. Oba Eware aveva nel suo regno i più grandi maghi di tutti i tempi.
Grazie alle loro gesta e pratiche «magiche» durante il periodo della tratta di schiavi, furono divinizzati. Tornando ai tempi nostri, la città di Benin city è rimasta tale e quale a quella di centinaia di anni fa ma l'oba attuale, Eware II in virtù delle gesta del suo antenato è un grande viaggiatore e ancor più grande mediatore. Prima di essere incoronato oba fu ambasciatore in Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Angola, Albania e in Italia. Il palazzo dell'oba è un enorme area con cortile e una serie di palazzine con tetti in lamierino e ubicate sul lato meno trafficato di Airport road, la strada che porta all'aeroporto di Benin city. Il cortile che può contenere migliaia di persone per eventi straordinari. Oba Eware II, re e non sacerdote o santone, appunto grazie alla sua spiccata mediazione, ha voluto organizzare, dopo circa 600 anni un incontro che volesse riproporre le gesta del suo antenato. Il 9 marzo del 2018, oba Eware II ha ricevuto a palazzo tutti i «native doctor» dell'Edo state, per il più grande rituale vudù della storia del nostro pianeta. Un'adunata generale di maghi, maghe, streghe e stregoni, i «native doctor» (termine che non si può tradurre in «dottori» e neppure in «preti»), per un evento storico unico. Il fine: agire attraverso pratiche ritualistiche voodoo contro trafficanti di esseri umani e cosche criminali in Africa e all'estero per liberare definitivamente tutte le donne schiavizzate e incatenate psicologicamente da rituali malvagi animisti come il juju. Molte giovani, vittime di imbrogli ancora oggi, cercano di lasciare le famiglie per scappare verso l'occidente. E non pensiate siano incolte e con basso livello scolastico. Molte di loro provengono proprio dalle varie università del territorio nigeriano e dal vicino Niger.
Il mega evento è stato programmato non solo dall'oba di Benin city in qualità di mediatore (non è né un santone e neppure un sacerdote) ma anche con il governo federale dello stato di Edo e l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni nel mondo. Insieme per esercitare una pressione mediatica senza precedenti. Insomma un grande set cinematografico del reale da proporre in tv, via Internet, attraverso Whatsapp, Youtube etc... Un grande evento ritualistico mediatico con tanto di inviti a tutti i capi dei villaggi, principi, duchi e via dicendo. Ogni mago e maga portava i propri «strumenti di lavoro» dal villaggio e dal proprio santuario: ossa, legni, polveri, conchiglie, escrementi e «intrugli magici» più che altro miscelati al «distillato secco più venduto in Nigeria», il gin, da sputare durante l'esibizione. Nessun animale coinvolto. Ogni maga e mago, ogni sciamano con la propria tunica rossa si è esibito con altri colleghi per creare un' enorme energia benigna e annientare tutte le forze maligne che oggi tengono imprigionate le schiave nel mondo. Parole e preghiere, oggetti e polveri magiche, alcool e superstizione si sono combinati insieme per produrre un campo di energia trasportato dai media. L'effetto ha raggiunto così tutti nigeriani in occidente e in oriente. Lo stesso messaggio dall'oba quel giorno proclamava «libere» tutte le donne incatenate in schiavitù coatta. E inoltre nessun obbligo di versare denaro per esigere la propria libertà. Riscatto annullato. Che sia dunque terminata tutto d'un colpo una lunghissima storia di prostituzione, migrazione e criminalità organizzata proveniente dall'Africa e iniziata addiritturanel lontano 1400?
Ho voluto chiamare al telefono in questi giorni un «native doctor» di Benin city che conosco. Mi ha detto: «Qualora questa grande cerimonia ritualistica non avesse funzionato sono pronti ad una sessione vudù di massa molto più potente». C'è da dire che da Torino a Palermo le ragazze da qualche giorno (anche alcuni ragazzi) vittime del traffico di esseri umani, stanno cominciando ad avvicinarsi agli sportelli degli uffici delle varie associazioni di volontariato di provincia per presentare denuncia contro i trafficanti e le madame. Dunque sembra che funzioni. Ma forse non per tutti. C'è da dire che in Italia il sistema di accoglienza funziona così male che le stesse ospiti dei Centri di accoglienza straordinaria, essendo libere di poter girovagare e uscire a loro piacimento, si prostituiscono per poter incassare. E molte volte per portare alle loro madame cammuffate da richiedenti asilo politico all'interno delle strutture, i profitti dovuti. Praticamente questi Cas sono dei centri di prostituzione a tutti gli effetti e non esiste alcun controllo. E per di più siamo in Italia. E qui l'oba purtroppo non può fare molto. I nuovi politici sì.
Alberto Cicala da Benin city (Nigeria)
Razzismo migrante: nelle banlieue gli arabi non vogliono altri africani
Un africano a spasso per il quartiere, nudo. La scena, vista spesso anche nelle nostre città, avviene a Seine-Saint-Denis. Per poco tempo, però: il tizio che ci ha provato, immigrato di fresco arrivo, finisce all'ospedale con il cranio fracassato. Qualcuno gli ha spaccato una bottiglia in testa. Ma non parlate di raid razzista: a fare «giustizia» ci hanno pensato i padroni del quartiere. Africani, pure loro, ma di lunga data, spesso di seconda o terza generazione. Coloro che fanno il bello e il cattivo tempo in certi quartieri di Parigi dove lo Stato non mette più piede. Quando non se la prendono con i poliziotti o con qualche petit blanc finito troppo lontano da casa, i padroni della banlieue hanno un nemico: i «Lampédouz».
Questo termine dispregiativo, chiaramente derivato dal nome della nostra isola di Lampedusa, indica quelli che sono appena sbarcati, gli ultimi arrivati, gli sradicati, gli alienati, coloro che non riescono a inserirsi nelle reti claniche che innervano le periferie francesi africanizzate. Quelli che rovinano il fragile equilibrio sociale, religioso e anche criminale delle banlieue. Su questa realtà, è appena uscito in Francia, a firma di Manon Quérouil-Bruneel, La Part du ghetto (Fayard), di cui Le Figaro magazine ha pubblicato ampi stralci qualche giorno fa. Qui scopriamo questa realtà che contraddice potentemente la narrazione sull'Europa razzista e sul bianco nemico di questa négritude sempre umana, simpatica, desiderosa di arricchire il prossimo, socialmente e culturalmente. Vecchi immigrati contro nuovi, quindi, africani contro africani. «La nuova violenza che agita regolarmente il quartiere», scrive Quérouil-Bruneel, «è quella che oppone questi giovani con un background nell'immigrazione ai nuovi arrivati: spesso uomini soli, che dormono in occupazioni all'ombra delle grandi case popolari o si ammassano in appartamenti insalubri affittati dai mercanti di sonno. Vivono e lavorano in nero nei cantieri, vendendo sigarette di contrabbando, scippando borse o telefonini. Ma i furti commessi nel quartiere scatenano sempre rappresaglie, a colpi di mazze da baseball e spranghe di ferro. I giovani della zona scendono in strada in gruppo e pestano tutti i migranti che incontrano».
Malek, abitante storico del quartiere, esprime la logica spietata ma lineare di questo ordine feroce: «Siamo già tutti in una galera, non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo». È questa la realtà di Seine-Saint-Denis, dipartimento che costituiva un tempo il cuore rosso della cintura operaia a nord di Parigi e che, ormai da anni, non è più in Europa. Oggi è abitato da quasi 1,6 milioni di persone, con una densità di 6.748 abitanti per chilometro quadrato. Il 30% degli abitanti ha meno di 20 anni. Secondo i dati riportati dallo studioso Christophe Guilluy, tra il 1968 e il 2005, i giovani di origine straniera vi sono passati dal 18,8% al 50,1%. Qui, i bambini di cui entrambi i genitori sono nati in Francia sono passati, nello stesso periodo, da 41% al 13,5%.
Questa periferia non è più quella raccontata nel 1995 da L'odio di Mathieu Kassovitz. «I giovani non bruciano più le auto, fanno affari senza troppo clamore, coscienti che i tafferugli nuocciono al business». Cioè allo spaccio di hashish. Cocaina o eroina si smerciano, ma lontano dal quartiere. Qualche anno fa, un tizio della zona ha aperto una rivendita di crack sul territorio. Lo hanno fatto chiudere. Non la gendarmeria, ma i capi del quartiere. Omar, algerino, padre di Malek, non si è mai abituato a tutto ciò: «Una volta qui c'erano boulangerie tradizionali, macellerie equine, ragazze in minogonna. Io non mi sentivo algerino o francese, ma operaio». Negli anni Novanta sarebbe arrivato il ripiego religioso, il rifiuto della cultura francese, il salafismo onnipresente. E, infine, la jihad. Delizie di quel che è chiamato «vivre ensemble». Ma sempre più spesso, come dice Renaud Camus, fra «vivre» e «ensemble» bisogna fare una scelta.
Adriano Scianca
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In una clinica viennese una musulmana non tollera la presenza di maschi nella camera. Così i medici proibiscono alla ragazza affetta da sclerosi multipla di stare con suo padre. Intanto, Pasqua si avvicina e l'intelligence teme attentati. Cronache da Benin city e dalle banlieue francesi.Lo speciale contiene quattro articoliLa convivenza forzata fra popoli e culture differenti è già difficile nella vita quotidiana, in condizioni di normalità, figuriamoci in situazioni di emergenza, quando la condivisione di spazi comuni si fa obbligata. Tipo in ospedale. Lo si è visto - ma non è il primo caso del genere - in Austria, dove un padre è stato costretto dai medici a rinunciare a vedere in ospedale la figlia malata a causa delle richieste di un'altra ricoverata, musulmana radicale. La figlia ventitreenne dell'uomo, gravemente malata di sclerosi multipla, si trovava infatti nella stessa stanza di un'islamica osservante, che non gradiva la presenza di un uomo in camera. E questo nonostante fosse presente una tenda divisoria tra i due letti. Il signor Robert Salfenauer non ha quindi potuto salutare la figlia Chiara. Quando l'immigrata si è accorta che nella stanza era presente un uomo ha infatti iniziato a urlare fino a che Salfenauer non è stato costretto dal personale a uscire dalla stanza. Per parlare un po' con la figlia si è fermato sulla soglia, restando nel corridoio, ma anche in questo caso la paziente islamica ha richiesto l'intervento degli infermieri. Una situazione non simpatica, anche a causa della malattia particolarmente grave della giovane. Chiara si è ammalata cinque anni fa di sclerosi multipla. Ammessa a un programma di ricerca presso l'Allgemeines Krankenhaus di Vienna, l'ospedale generale, la ragazza deve andare in clinica per una notte ogni sei mesi. Il farmaco che le viene somministrato, infatti, ha effetti collaterali potenzialmente pericolosi, quindi in queste sedute la giovane è sempre accompagnata dai genitori. Che, già provati dall'esperienza, non meritavano certo di dover fare i conti con le follie dell'Austria multiculturale. «Siamo rimasti scioccati dal fatto che una musulmana radicale abbia potuto condizionare la vita di un ospedale a Vienna. Di fatto ha potuto decidere che non potessi vedere mia figlia. Eppure ogni forma di radicalismo dovrebbe essere combattuta», ha detto l'uomo. Salfenauer, che di professione fa l'avvocato, il giorno dopo l'incidente si è mosso legalmente. La direzione del nosocomio, dal canto suo, ha dichiarato di essere giunta, dopo aver sentito tutte le testimonianze, a una «visione d'insieme dell'incidente». Che sarebbe questa: «Il padre della giovane paziente voleva guardare oltre la tenda divisoria mentre la donna velata pompava il latte per il suo neonato». Ma Salfenauer ha respinto l'accusa: «Non ho mai provato a guardare oltre la tenda divisoria. Ci sono dei testimoni». Ma, come dicevamo, non è la prima volta che siamo costretti a raccontare episodi simili. lo scorso febbraio, a Parma, un'anziana paziente italiana era stata sfrattata dall'ospedale per volere della vicina di letto musulmana. Secondo quanto aveva raccontato allora La Gazzetta di Parma, una donna di 89 anni, ricoverata all'ospedale maggiore della città emiliana nel reparto maxillo-facciale, sarebbe stata costretta a cambiare stanza dopo le insistenze di una paziente albanese di religione musulmana. Il problema, anche questa volta, sarebbe sorto per la presenza di un uomo, nello specifico il figlio dell'anziana. Non potendo rimanere in stanza con un uomo, la straniera avrebbe chiesto che la paziente con cui condivideva la camera venisse spostata. Secondo quanto riportato dalla figlia della paziente italiana, la discussione si sarebbe fatta accesa, fino a che l'infermiera di turno avrebbe spostato l'ottantanovenne in un'altra stanza. Sembra, inoltre, che la donna albanese sia rimasta per altre due notti in stanza da sola mentre c'erano pazienti anche in corridoio. La direzione dell'ospedale cercò di chiarire la vicenda, seppur in modo piuttosto sibillino. «Il trasferimento della signora nella stanza a fianco, dal letto 7 al letto 9 non è ovviamente stato imposto ai famigliari della signora, ma è stato eseguito insieme a loro; tant'è che da quanto verificato il nipote della paziente si è dimostrato molto gentile con gli infermieri aiutandoli a spostare gli oggetti della nonna, presenti sopra al comodino», spiegò Giuseppe La Torre, coordinatore infermieristico dell'unità operativa. Lo spostamento, quindi, era effettivamente avvenuto, l'ospedale si limitò a chiarire che esso fosse avvenuto in tutta calma, senza peraltro specificare se invece, in precedenza, si fossero avuti effettivi momenti di tensione. Ma sulla motivazione religiosa dello spostamento non arrivò alcuna smentita: «Il trasferimento è stato concordato dall'equipe e veniva incontro alle rispettive esigenze. 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Un altro, che viveva a Nettuno, è stato indicato come «elemento in contatto con esponenti dell'autoproclamato Stato islamico». Il quarto uomo intratteneva comunicazioni con appartenenti all'Isis in Francia ed è stato rintracciato ad Anzio. È alla sua seconda espulsione, invece, il tunisino residente a Vimercate (Monza-Brianza) e rimandato a casa il 6 marzo (l'altra espulsione risale al 2015) perché in contatto con un foreign fighter in Siria. Secondo l'Aise, il servizio di sicurezza che si occupa di minaccia estera, era pronto a un «gesto eclatante». Gli ultimi due erano detenuti in carcere a Padova e Palermo e lavoravano da imam radicali tra i detenuti. L'attenzione dell'intelligence e della Procura nazionale antiterrorismo è concentrata in Sicilia. Lì, un'indagine condotta in gran silenzio dai magistrati di Messina sta andando avanti grazie ad alcune segnalazioni provenienti dall'ambiente penitenziario, bacino definito ricco «di spunti investigativi e di vere e proprie notizie di reato». La segnalazione firmata dal Dap, il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, riguarda scritti e disegni «di soggetti di religione islamica detenuti per favoreggiamento all'immigrazione clandestina» che hanno portato a iscrizioni nel registro degli indagati per il reato di 270 bis, ossia associazione con finalità di terrorismo. Il monitoraggio del Dap ha evidenziato «segnali concreti di radicalizzazione e attività di proselitismo», scrivono i magistrati, «anche attraverso il ricorso a condotte violente nei confronti di altri detenuti di origine musulmana che non intendevano adeguarsi ai comportamenti strettamente ortodossi da loro imposti». La rotta Tunisia-Italia, insomma, è da allarme rosso. Con il calo dei flussi dalla Libia c'è stato, nel 2017, un aumento del 492 per cento delle partenze tunisine rispetto al 2016. E quest'anno sono già sbarcati 1.187 tunisini su un totale di 6.161 migranti arrivati (il 19 per cento del totale). Nell'ultima relazione al Parlamento gli 007 hanno segnalato che «rispetto agli arrivi dalla Libia, quelli originati dalla Tunisia presentano caratteri peculiari: prevedono sbarchi “occulti", effettuati sotto costa per eludere la sorveglianza marittima aumentando con ciò, di fatto, la possibilità di infiltrazione di elementi criminali e terroristici». Ma la jihad tunisina è attiva anche sul web. Porta lì un'indagine aperta dalla Procura di Salerno per un accesso abusivo al sistema informatico del Comune di Mercato San Severino «che aveva determinato», scrivono i pm Silvio Marco Guarriello e Rocco Alfano, «in luogo della normale visione del sito istituzionale del Comune, la comparsa di immagini di bambini feriti e mutilati». A rivendicare l'azione è stato «il sedicente gruppo Tunisian cyber resistance al fallaga team». E da allora gli 007 hanno messo sotto osservazione diverse campagne di influenza on line sospette, molte delle quali sono targate Tunisia. Fabio Amendolara <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/islam-vienna-ospedale-divieto-2553267359.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="gli-stregoni-nigeriani-combattono-i-trafficanti" data-post-id="2553267359" data-published-at="1765873040" data-use-pagination="False"> Gli stregoni nigeriani combattono i trafficanti L'unica sala cinematografica che si trova lungo la chilometrica strada Airpot road accanto al Palazzo del re (oba) nella città di Benin city, in Nigeria, cuore pulsante della criminalità organizzata per il traffico di esseri umani, è a qualche centinaio di metri dall'hotel che mi vede ospite ormai da quasi undici anni. Il cinema ormai chiuso non poteva essere luogo adatto, oltre al caldo insopportabile, per proiettare La terza madre ultimo film della trilogia delle tre madri di Dario Argento sul tema della stregoneria, perché i film italiani sono assolutamente sconosciuti e non hanno mai toccato suolo nigeriano, e neppure The Prestige, diretto da Christopher Nolan una storia di maghi e magie dal momento che Hollywood è al terzo posto nella classifica, dopo Bollywood e Nollywood. Inoltre i film europei e americani li si può assaporare solo nella nuovissima multisala che si trova dalla parte opposta della città. Poteva allora essere una pièce teatrale nello storico teatro nazionale rinnovato una paio di anni fa e ubicato nello stesso ampio spazio del Centro culturale tradizionale di Benin City accanto al cinema. E invece no. Quel giorno cinema e teatro erano silenti. L'intrattenimento invece era proprio sul lato opposto della strada, nel Palazzo del re, oba appunto, anzi del nuovo oba Eware II salito al trono da qualche mese. Nella storia, l'area dove oggi sorge Benin city faceva parte del regno del Benin (da non confondere con la repubblica del Benin) divenuto poi tutt'uno con lo la Nigeria con il nome di Edo state. E pensare che Benin city si chiamava «Ubinu», ma fu l'invasione dei portoghesi, giunti via mare e approdati al vicinissimo porto marittimo, che cambiò il nome della città. «Ubinu» veniva pronunciato così male dai portoghesi che lo trasformarono in Benin. Benin city è una città africana, amante delle tradizioni, di quasi due milioni di abitanti. È ben conosciuta in Italia e nel mondo per l'elevatissimo numero di migranti che cominciarono a partire verso l'occidente circa mille anni fa proprio con l'arrivo dei portoghesi. È una città che quasi tutti in occidente sanno trovare sulla cartina geografica. Infatti il porto marittimo distante pochi chilometri da Benin city, verso la fine del 1400 fu il primo crocevia della tratta degli schiavi verso l'Europa. In quegli anni regnava un certo oba Eware detto «il Grande». Appunto grande viaggiatore e grande combattente e nello stesso tempo anche grande mediatore per il popolo. Aveva però introdotto una nuova legge che obbligava gli uomini sposati a non fare figli per tre anni. Quando realizzò che la popolazione stava riducendosi velocemente, fece realizzare un fosso molto profondo tutto intorno alla città in modo da non consentire ai cittadini di migrare. Oba Eware aveva nel suo regno i più grandi maghi di tutti i tempi. Grazie alle loro gesta e pratiche «magiche» durante il periodo della tratta di schiavi, furono divinizzati. Tornando ai tempi nostri, la città di Benin city è rimasta tale e quale a quella di centinaia di anni fa ma l'oba attuale, Eware II in virtù delle gesta del suo antenato è un grande viaggiatore e ancor più grande mediatore. Prima di essere incoronato oba fu ambasciatore in Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia, Angola, Albania e in Italia. Il palazzo dell'oba è un enorme area con cortile e una serie di palazzine con tetti in lamierino e ubicate sul lato meno trafficato di Airport road, la strada che porta all'aeroporto di Benin city. Il cortile che può contenere migliaia di persone per eventi straordinari. Oba Eware II, re e non sacerdote o santone, appunto grazie alla sua spiccata mediazione, ha voluto organizzare, dopo circa 600 anni un incontro che volesse riproporre le gesta del suo antenato. Il 9 marzo del 2018, oba Eware II ha ricevuto a palazzo tutti i «native doctor» dell'Edo state, per il più grande rituale vudù della storia del nostro pianeta. Un'adunata generale di maghi, maghe, streghe e stregoni, i «native doctor» (termine che non si può tradurre in «dottori» e neppure in «preti»), per un evento storico unico. Il fine: agire attraverso pratiche ritualistiche voodoo contro trafficanti di esseri umani e cosche criminali in Africa e all'estero per liberare definitivamente tutte le donne schiavizzate e incatenate psicologicamente da rituali malvagi animisti come il juju. Molte giovani, vittime di imbrogli ancora oggi, cercano di lasciare le famiglie per scappare verso l'occidente. E non pensiate siano incolte e con basso livello scolastico. Molte di loro provengono proprio dalle varie università del territorio nigeriano e dal vicino Niger. Il mega evento è stato programmato non solo dall'oba di Benin city in qualità di mediatore (non è né un santone e neppure un sacerdote) ma anche con il governo federale dello stato di Edo e l'Oim, l'Organizzazione internazionale per le migrazioni nel mondo. Insieme per esercitare una pressione mediatica senza precedenti. Insomma un grande set cinematografico del reale da proporre in tv, via Internet, attraverso Whatsapp, Youtube etc... Un grande evento ritualistico mediatico con tanto di inviti a tutti i capi dei villaggi, principi, duchi e via dicendo. Ogni mago e maga portava i propri «strumenti di lavoro» dal villaggio e dal proprio santuario: ossa, legni, polveri, conchiglie, escrementi e «intrugli magici» più che altro miscelati al «distillato secco più venduto in Nigeria», il gin, da sputare durante l'esibizione. Nessun animale coinvolto. Ogni maga e mago, ogni sciamano con la propria tunica rossa si è esibito con altri colleghi per creare un' enorme energia benigna e annientare tutte le forze maligne che oggi tengono imprigionate le schiave nel mondo. Parole e preghiere, oggetti e polveri magiche, alcool e superstizione si sono combinati insieme per produrre un campo di energia trasportato dai media. L'effetto ha raggiunto così tutti nigeriani in occidente e in oriente. Lo stesso messaggio dall'oba quel giorno proclamava «libere» tutte le donne incatenate in schiavitù coatta. E inoltre nessun obbligo di versare denaro per esigere la propria libertà. Riscatto annullato. Che sia dunque terminata tutto d'un colpo una lunghissima storia di prostituzione, migrazione e criminalità organizzata proveniente dall'Africa e iniziata addiritturanel lontano 1400? Ho voluto chiamare al telefono in questi giorni un «native doctor» di Benin city che conosco. Mi ha detto: «Qualora questa grande cerimonia ritualistica non avesse funzionato sono pronti ad una sessione vudù di massa molto più potente». C'è da dire che da Torino a Palermo le ragazze da qualche giorno (anche alcuni ragazzi) vittime del traffico di esseri umani, stanno cominciando ad avvicinarsi agli sportelli degli uffici delle varie associazioni di volontariato di provincia per presentare denuncia contro i trafficanti e le madame. Dunque sembra che funzioni. Ma forse non per tutti. C'è da dire che in Italia il sistema di accoglienza funziona così male che le stesse ospiti dei Centri di accoglienza straordinaria, essendo libere di poter girovagare e uscire a loro piacimento, si prostituiscono per poter incassare. E molte volte per portare alle loro madame cammuffate da richiedenti asilo politico all'interno delle strutture, i profitti dovuti. Praticamente questi Cas sono dei centri di prostituzione a tutti gli effetti e non esiste alcun controllo. E per di più siamo in Italia. E qui l'oba purtroppo non può fare molto. I nuovi politici sì. Alberto Cicala da Benin city (Nigeria) <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem3" data-id="3" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/islam-vienna-ospedale-divieto-2553267359.html?rebelltitem=3#rebelltitem3" data-basename="razzismo-migrante-nelle-banlieue-gli-arabi-non-vogliono-altri-africani" data-post-id="2553267359" data-published-at="1765873040" data-use-pagination="False"> Razzismo migrante: nelle banlieue gli arabi non vogliono altri africani Un africano a spasso per il quartiere, nudo. La scena, vista spesso anche nelle nostre città, avviene a Seine-Saint-Denis. Per poco tempo, però: il tizio che ci ha provato, immigrato di fresco arrivo, finisce all'ospedale con il cranio fracassato. Qualcuno gli ha spaccato una bottiglia in testa. Ma non parlate di raid razzista: a fare «giustizia» ci hanno pensato i padroni del quartiere. Africani, pure loro, ma di lunga data, spesso di seconda o terza generazione. Coloro che fanno il bello e il cattivo tempo in certi quartieri di Parigi dove lo Stato non mette più piede. Quando non se la prendono con i poliziotti o con qualche petit blanc finito troppo lontano da casa, i padroni della banlieue hanno un nemico: i «Lampédouz». Questo termine dispregiativo, chiaramente derivato dal nome della nostra isola di Lampedusa, indica quelli che sono appena sbarcati, gli ultimi arrivati, gli sradicati, gli alienati, coloro che non riescono a inserirsi nelle reti claniche che innervano le periferie francesi africanizzate. Quelli che rovinano il fragile equilibrio sociale, religioso e anche criminale delle banlieue. Su questa realtà, è appena uscito in Francia, a firma di Manon Quérouil-Bruneel, La Part du ghetto (Fayard), di cui Le Figaro magazine ha pubblicato ampi stralci qualche giorno fa. Qui scopriamo questa realtà che contraddice potentemente la narrazione sull'Europa razzista e sul bianco nemico di questa négritude sempre umana, simpatica, desiderosa di arricchire il prossimo, socialmente e culturalmente. Vecchi immigrati contro nuovi, quindi, africani contro africani. «La nuova violenza che agita regolarmente il quartiere», scrive Quérouil-Bruneel, «è quella che oppone questi giovani con un background nell'immigrazione ai nuovi arrivati: spesso uomini soli, che dormono in occupazioni all'ombra delle grandi case popolari o si ammassano in appartamenti insalubri affittati dai mercanti di sonno. Vivono e lavorano in nero nei cantieri, vendendo sigarette di contrabbando, scippando borse o telefonini. Ma i furti commessi nel quartiere scatenano sempre rappresaglie, a colpi di mazze da baseball e spranghe di ferro. I giovani della zona scendono in strada in gruppo e pestano tutti i migranti che incontrano». Malek, abitante storico del quartiere, esprime la logica spietata ma lineare di questo ordine feroce: «Siamo già tutti in una galera, non possiamo accogliere tutta la miseria del mondo». È questa la realtà di Seine-Saint-Denis, dipartimento che costituiva un tempo il cuore rosso della cintura operaia a nord di Parigi e che, ormai da anni, non è più in Europa. Oggi è abitato da quasi 1,6 milioni di persone, con una densità di 6.748 abitanti per chilometro quadrato. Il 30% degli abitanti ha meno di 20 anni. Secondo i dati riportati dallo studioso Christophe Guilluy, tra il 1968 e il 2005, i giovani di origine straniera vi sono passati dal 18,8% al 50,1%. Qui, i bambini di cui entrambi i genitori sono nati in Francia sono passati, nello stesso periodo, da 41% al 13,5%. Questa periferia non è più quella raccontata nel 1995 da L'odio di Mathieu Kassovitz. «I giovani non bruciano più le auto, fanno affari senza troppo clamore, coscienti che i tafferugli nuocciono al business». Cioè allo spaccio di hashish. Cocaina o eroina si smerciano, ma lontano dal quartiere. Qualche anno fa, un tizio della zona ha aperto una rivendita di crack sul territorio. Lo hanno fatto chiudere. Non la gendarmeria, ma i capi del quartiere. Omar, algerino, padre di Malek, non si è mai abituato a tutto ciò: «Una volta qui c'erano boulangerie tradizionali, macellerie equine, ragazze in minogonna. Io non mi sentivo algerino o francese, ma operaio». Negli anni Novanta sarebbe arrivato il ripiego religioso, il rifiuto della cultura francese, il salafismo onnipresente. E, infine, la jihad. Delizie di quel che è chiamato «vivre ensemble». Ma sempre più spesso, come dice Renaud Camus, fra «vivre» e «ensemble» bisogna fare una scelta. Adriano Scianca
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Questo, infatti, «prevede un principio fondamentale del nostro ordinamento, non derogabile neppure da fonti internazionali. Insieme all’articolo 2», ossia quello che sancisce l’inviolabilità dei diritti umani, «può fungere da controlimite anche verso il diritto Ue, che non avrebbe ingresso in Italia».
Prodigi dell’ideologia: all’improvviso, il corpaccione di direttive e regolamenti europei non è più sacro, inviolabile, sistematicamente anteposto alle leggi nazionali; se di mezzo ci sono i rimpatri veloci, oppure l’idea che Egitto, Bangladesh e Tunisia siano Stati nei quali è lecito rispedire i migranti, i giudici riscoprono nella nostra Costituzione un argine. E anziché disapplicare le norme italiane, vietano l’«ingresso» a quelle europee.
Peraltro, Minniti, già candidato al Csm per Area, corrente di centrosinistra, nel 2021, era stato uno dei primi, un paio d’anni fa, a sconfessare la lista governativa dei Paesi sicuri: bocciò la decisione di infilarci dentro proprio la Tunisia. Va però segnalato che, a dispetto dell’omonimia con il ministro piddino, noto per aver messo un freno alle missioni delle Ong nel Mediterraneo, quello della Costituzione «come limite alla regressione e spinta al rafforzamento della protezione dello straniero» - citiamo il titolo di un suo articolo del 2018 - era un vecchio pallino di Minniti. Ne scrisse già sette anni fa, appunto, su Questione Giustizia, la rivista di Magistratura democratica. Tanto per fugare ogni eventuale dubbio sulla sua neutralità politica.
La posizione delle toghe, dunque, è questa: se le leggi italiane sono più severe delle norme europee in materia di immigrazione, allora bisogna snobbare le leggi nazionali, in nome del primato del diritto Ue, autenticamente umanitario; ma se l’Ue, su impulso dell’Eurocamera e del Consiglio, impone un giro di vite, allora il primato del diritto europeo va a farsi benedire, perché gli subentra il controlimite della Costituzione. Oltre alla possibilità, accordata dalla Corte di Lussemburgo ai magistrati e rivendicata da Minniti, di questionare gli elenchi dei Paesi sicuri.
È un meccanismo che si mette in moto ogni volta che Roma o Bruxelles cercano di moderare i flussi migratori e di accelerare le espulsioni. Ed è un peccato che, tra i «principi fondamentali del nostro ordinamento, non derogabili neppure da fonti internazionali», di cui parlava Minniti al Manifesto, insieme alle prerogative degli stranieri, non vengano considerate quelle degli italiani.
Nel novero dei «diritti inviolabili», sancito dall’articolo 2 della Carta, dovrebbero rientrare tutti quelli indicati dalla Dichiarazione Onu del 1948. Compresi il diritto alla vita e alla «sicurezza della propria persona». Che, a quanto risulta dalle statistiche del Viminale, sono messi a repentaglio dall’invasione degli immigrati, i quali vengono arrestati o denunciati per il 60% dei reati predatori, senza contare il 44% delle violenze sessuali, benché gli stranieri siano solo il 9% della popolazione.
E poi, la Costituzione non afferma che la sovranità appartiene al popolo? Nell’esercitarla, i rappresentanti eletti in Parlamento non possono certo perpetrare degli abusi sulle minoranze. Ma in mezzo ai tanti diritti intoccabili di bengalesi, egiziani e subsahariani, possibile non ci sia uno spazietto per il diritto del popolo a regolamentare il fenomeno dell’immigrazione? A rendere più efficace e rapido il sistema dei rimpatri?
Non vogliamo spingerci fino a sostenere un argomento estremo: siccome la Costituzione fu sospesa durante la pandemia a detrimento degli italiani, rinchiusi, multati se circolavano dopo le dieci di sera, esclusi da lavoro e stipendio se non si vaccinavano, allora essa può ben essere sospesa allo scopo di controllare i confini e tutelare l’ordine pubblico. No, il punto è un altro: siamo così sicuri che rimandare a casa sua un adulto sano, che non rischia di essere perseguitato né ucciso in guerra, senza aspettare i consueti «due anni» che secondo Minniti impiegano le Corti per pronunciarsi, significhi fare carne di porco della nostra nobile civiltà giuridica? Va benissimo preoccuparsi della «protezione dello straniero». Ma gli italiani chi li protegge?
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Ansa
L’ordinanza, firmata dal giudice Ludovico Morello, dispone «la cessazione del trattenimento» nel Cpr, smentendo la convalida già emessa dalla stessa Corte e arrivando a smontarla, senza che nel frattempo sia accaduto nulla che non fosse già noto. E infatti gli uffici del ministero dell’Interno starebbero valutando di impugnare la decisione.
Il giudice, nella premessa, ricorda che il ricorso è ammesso «qualora si verifichino circostanze o emergano nuove informazioni che possano mettere in discussione la legittimità del trattenimento». Poi interpreta: «Seppure non possa parlarsi di revoca giurisdizionale della convalida, è da ritenere consentita comunque una domanda di riesame del trattenimento dello straniero e che, mancando una apposita disciplina normativa al riguardo, esso possa farsi valere con lo strumento generico del procedimento camerale […] per ottenere un diverso esame dei presupposti del trattenimento alla luce di circostanze di fatto nuove o non considerate nella sede della convalida». Alla base della decisione ci sarebbe quindi l’assenza «di un’apposita disciplina normativa». Ed ecco trovato il varco. Il primo elemento indicato riguarda i procedimenti penali richiamati nel decreto di convalida: uno, nato su segnalazione della Digos, per le parole pronunciate durante una manifestazione, il 9 ottobre, che sembravano giustificare il pogrom di Hamas del 7 ottobre 2023, il secondo per un blocco stradale risalente allo scorso maggio al quale l’imam avrebbe partecipato insieme a un gruppo pro Pal. Il giudice scrive che «gli atti relativi a tali procedimenti non risultano essere stati secretati» e che l’assenza di segreto era stata, «contrariamente a quanto si pensava in un primo momento», ignorata nella decisione precedente, che aveva valorizzato proprio quel presupposto «a supporto del giudizio di pericolosità». Il primo procedimento, secondo il giudice, sarebbe stato «immediatamente archiviato (in data 16 ottobre, ndr) da parte della stessa Procura», perché le dichiarazioni del trattenuto sarebbero «espressione di pensiero che non integra estremi di reato». Ma se l’archiviazione è del 16 ottobre e la convalida è del 28 novembre, il fatto non è sopravvenuto. È precedente. Eppure viene trattato come elemento nuovo.
Non solo. La Corte precisa, citando la Costituzione, che le dichiarazioni dell’imam sarebbero «pienamente lecite» e aggiunge che la «condivisibilità o meno e la loro censurabilità etica e morale» è un giudizio che «non compete in alcun modo» alla Corte e «non può incidere di per sé solo sul giudizio di pericolosità in uno Stato di diritto».
«Parliamo di una persona che ha definito l’attacco del 7 ottobre un atto di “resistenza”, negandone la violenza», ha commentato sui social il premier Giorgia Meloni, aggiungendo: «Dalle mie parti significa giustificare, se non istigare, il terrorismo. Qualcuno mi può spiegare come facciamo a difendere la sicurezza degli italiani se ogni iniziativa che va in questo senso viene sistematicamente annullata da alcuni giudici?». La stessa dinamica si ripete sul blocco stradale del 17 maggio 2025. La Corte afferma che «dall’esame degli atti emerge una condotta del trattenuto non connotata da alcuna violenza». Anche qui non viene indicato alcun fatto nuovo. Cambia solo il giudizio. Anche i contatti con soggetti indagati o condannati per terrorismo vengono ridimensionati. Nella precedente decisione a quelle relazioni era stato attribuito un certo peso specifico: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo, trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Nel 2018, in un’indagine su Elmahdi Halili (condannato nel 2019, con sentenza divenuta irrevocabile nel 2022, per aver partecipato all’organizzazione terroristica dello Stato islamico), «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». Rapporti che ora diventano «isolati, decisamente datati» e «ampiamente spiegati e giustificati dal trattenuto nel corso della convalida». Spiegazioni che erano già state rese prima del 28 novembre, ma che allora non avevano impedito la convalida.
Nel decreto di Piantedosi, l’imam veniva indicato come un uomo «radicalizzato», «portatore di ideologia fondamentalista e antisemita». Ma, soprattutto, come vicino alla Fratellanza musulmana, movimento politico-religioso sunnita nato in Egitto nel 1928, che punta a costruire uno Stato ispirato alla legge islamica. Unico passaggio, quello sulla Fratellanza musulmana, al quale il giudice non fa cenno.
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Mohammad Shahin (Ansa)
Naturalmente non stupisce che la Corte d’Appello sia di manica larga con un imam che teorizza che l’assassinio di 1.200 persone e il rapimento di altre 250 non sia violenza. In fondo la sentenza si inserisce in una tendenza che nei tribunali italiani gode di una certa popolarità. Non furono ritenute incompatibili con il trattenimento nel Cpr in Albania anche decine di extracomunitari con la fedina penale lunga una spanna? Nonostante nel casellario giudiziale figurassero precedenti per reati anche gravi come aggressioni e perfino un tentato omicidio, i migranti furono prontamente rimpatriati e ovviamente lasciati liberi di scorrazzare per il Paese e di commettere altri crimini. Sia mai che qualcuno venga trattenuto e successivamente espulso.
Del resto, recentemente un altro magistrato, questa volta di Bologna, ha detto al Manifesto che le recenti disposizioni europee in materia di Paesi sicuri sono da ritenersi incostituzionali. Perché ovviamente per alcune toghe il diritto è à la carte, cioè si sceglie da un menù quello che più gusta. Se bisogna opporre un diniego alla legge varata dal Parlamento ci si appella alla giurisprudenza europea, che va da sé è preminente rispetto a quella nazionale. Ma se poi una direttiva Ue o del Consiglio europeo non piace si fa il contrario e ci si appella al diritto italiano, che in questo caso torna prevalente. Insomma, comunque vada il migrante ha sempre ragione e deve essere ritenuto discriminato e dunque coccolato e tutelato. Se un italiano inneggia al fascismo deve essere messo in galera, se un imam si dichiara d’accordo con una strage, non considerandola violenza ma resistenza invece scatta la libertà di espressione, quella stessa espressione che gli autori del massacro di Charlie Hebdo anni fa negarono ai vignettisti del settimanale francese, colpevoli di aver disegnato immagini sarcastiche sull’islam.
Purtroppo, la tendenza a giustificare tutto e dare addosso a chi denuncia i pericoli legati a un’immigrazione indiscriminata ormai dilaga. Ieri sulla prima pagina di Repubblica campeggiava uno studio in cui la questione che lega gli stranieri al crescente clima di insicurezza era addebitata ai media. Colpa di giornali e tv se si parla di migranti. «I picchi di informazione e audience sul pericolo stranieri avvengono nei periodi elettorali», tiene a precisare il quotidiano che la famiglia Agnelli ha messo in vendita. In realtà i picchi coincidono sempre con fatti di cronaca nera. Stragi, rapine, stupri: quei fatti che né i giudici, né alcuni giornali vogliono vedere.
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