Ecco #DimmiLaVerità del 18 dicembre 2025. Con il nostro Stefano Piazza facciamo il punto sul terrorismo islamico dopo la strage in Australia.
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2025-12-17
Indonesia tra proteste e ambizioni globali: il gigante musulmano al bivio tra Cina e Occidente
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- Il più grande arcipelago del mondo conta 250 milioni di musulmani. Nei Brics dal 2024, è guidato dal vecchio generale Prabowo Subianto che ha attirato il voto dei giovani con i social. Ma l'economia è erosa dall'inflazione, che ha generato proteste di piazza. Economicamente il Paese sta cercando di evitare la totale dipendenza dalla Cina guardando agli Usa ma anche all'Europa.
- Il francescano Odorico da Pordenone, nel suo viaggio verso la Cina, visitò l'Indonesia. Nella sua Relatio del 1330 un racconto di Sumatra e Giava negli ultimi anni prima dell'islamizzazione.
Lo speciale contiene due articoli.
L’Indonesia è un gigante che sfiora i 300 milioni di abitanti ed è il più grande arcipelago del mondo. La sua capitale Jakarta è la città più popolosa del globo con quasi 42 milioni di abitanti e nel 2025 ha superato Dacca e Tokyo in questa classifica. Adagiata sulla costa dell’isola di Giava, questa città è diventata un conglomerato incontrollabile che sta lentamente affondando sotto il peso della sua popolazione. L’Indonesia ha il maggior numero di musulmani con quasi 250 milioni di fedeli e secondo alcune proiezioni come quelle della Banca Mondiale o del Fondo Monetario Internazionale potrebbe diventare una delle quattro principali economie internazionali entro il 2050. Jakarta nel 2024 è entrata a far parte del gruppo economico dei Brics, guidato da Cina, Russia ed India, ma non ha mai smesso di attirare investimenti statunitensi e ad avere un rapporto diplomatico diretto con Washington.
In questo quadro economicamente positivo però sono scoppiate una serie di proteste che hanno fortemente contestato il governo del presidente Prabowo Subianto. Questo ex generale, conosciuto per la ferocia con cui ha sempre represso ogni tipo di dissenso, ha stravinto le elezioni utilizzando un avatar che lo ha trasformato in un nonno amorevole. Durante la campagna per le presidenziali, il suo staff ha utilizzato strumenti di intelligenza artificiale come Midjourney per creare un'immagine carina e amichevole ("gemoy", un termine gergale indonesiano per "carino" o "coccoloso") di Prabowo, rivolta in particolare agli elettori più giovani sui social come TikTok. Questa mossa ha avuto un enorme successo portando molti giovani alle urne e consegnando oltre il 60% delle preferenze al vecchio generale. Il nuovo presidente aveva promesso un miracolo economico puntando ad una crescita dell’8% annuale, che però si è fermata intorno al 5,2%. Intanto il costo della vita è sensibilmente cresciuto così come la disoccupazione, mentre la rupia indonesiana ha continuato a svalutarsi arrivando ad un cambio con il dollaro a 16600 ad 1.
Contemporaneamente i cittadini indonesiani hanno visto una progressiva perdita di potere d’acquisto che ha portato ad una stagnazione dei consumi delle famiglie. Ad ottobre l’inflazione è arrivata al 2,75%, massimo livello dalla primavera del 2024, e la gente è scesa in strada per chiedere le dimissioni di tutto il governo. Se internamente le cose stanno andando male per Prabowo Subianto, l’ex generale, ha puntato tutto sulla proiezione internazionale del suo paese, dichiarando più volte di volerlo far diventare una potenza geopolitica regionale. Il ruolo indonesiano nel sud-est asiatico è in crescita e negli anni si sono rafforzati i rapporti con le nazioni vicine, soprattutto con la Malesia. Più complessi i tentativi di avvicinamento con le Filippine, fortemente schierate nell’orbita statunitense, mentre con l’India le relazioni sono sempre state piuttosto altalenanti. L’Indonesia si trova anche spettatore nel latente scontro indo-pacifico fra Pechino e Washington, nel quale per ora Jakarta ha scelto una linea politica basata sull’equidistanza. Con la Cina l’Indonesia ha siglato un accordo per lo sfruttamento congiunto delle risorse nelle acque contese, per evitare una disputa diretta, anche perché Pechino è il suo primo partner economico e commerciale, con gli scambi nel 2025 sono stimati in 160 miliardi di dollari. Jakarta sta cercando di diversificare le sue relazioni commerciali per evitare un’eccessiva dipendenza dalla Cina, intensificando gli scambi anche con l’Unione Europea. L’interscambio con la Ue nel 2024 ha superato i 27 miliardi di euro con l’Europa che importa olio di palma, tessuti, calzature, minerali (nichel e rame), mentre esporta nella nazione asiatica latticini, carni, frutta, macchinari e farmaceutici. Gli Usa restano comunque un partner cruciale per l’Indonesia in ambito di difesa e sicurezza, con esercitazioni congiunte e acquisto di armi, delle quali Washington è il secondo fornitore. L’attivismo di Prabowo Subianto si è visto anche nella questione mediorientale, con il presidente, unico leader del sud-est asiatico, presente in Egitto alla firma della tregua a Gaza.
Odorico da Pordenone, un Marco Polo meno noto che raccontò l'Indonesia nel secolo XIV
Non solo Marco Polo ed il suo «Milione», il resoconto sull’Estremo Oriente forse più famoso al mondo. Altre importanti testimonianze scritte di viaggi «meravigliosi» attraverso l’Asia sono giunte a noi dal Medioevo. Grandi protagonisti delle esplorazioni e dello scambio interreligioso (con le missioni) ma anche di quello geopolitico, furono i francescani. Come afferma il Prof. Luciano Bertazzo, storico francescano e direttore del Centro Studi Antoniani di Padova, contattato dalla Verità. «A fianco di Marco Polo esiste tutta una letteratura non meno interessante in cui il mondo francescano non fu solo portatore di evangelizzazione, ma anche di una spinta all'internazionalizzazione». Già alla metà del Duecento, la presenza della Chiesa cattolica in Estremo Oriente intersecava l'Europa all'Asia. I resoconti dei frati alimentarono il "Meraviglioso" nei racconti di viaggio (detti anche odeporici) sulla scia della «Vita di Alessandro Magno», che inaugurò il connubio tra scientia e mirabilia».
Ai tempi delle crociate, i frati minori assunsero un ruolo «diplomatico» all’interno di un mondo in forte fermento. Erano gli anni della «cattività» del Papato ad Avignone, dell’espansione dell’Islam verso oriente e del potentissimo regno dei Mongoli discendenti di Gengis Khan. Nel mosaico delle forze dominanti i francescani, attivi nell’opera di evangelizzazione alla base dei loro viaggi, furono anche incaricati dal Papato e dai sovrani occidentali di riportare notizie sullo stato dei popoli dell’estremo Oriente per cercare di misurarne la potenza politica e militare unito ad un intento più diplomatico, con il proposito di esplorare una possibile alleanza in funzione anti islamica. I religiosi italiani erano già presenti in Asia fino dalla metà del XIII secolo, come testimoniano i resoconti del francescano Giovanni di Pian del Carpine, che alla metà del Duecento scrisse una «Historia Mongalorum» dopo essere giunto fino a Kharakorum, ricca di informazioni strategico-militari sulla potenza dell’impero mongolo che premeva verso Occidente. Anche Giovanni da Montecorvino, francescano campano, giunse fino in Cina alla corte di Kubilai Khan, morto appena prima dell’arrivo del frate italiano. Qui fondò la prima missione cattolica della Cina e la prima chiesa nel 1305 e fu nominato arcivescovo da Clemente V.
A pochi anni dal viaggio di Giovanni da Montecorvino si colloca la spedizione di Odorico da Pordenone, che toccherà anche l’Indonesia, allora praticamente sconosciuta al mondo occidentale. Nato sembra intorno al 1280, fu ordinato frate a Udine ancora giovanissimo, secondo le poche notizie giunte a noi. Il suo viaggio in Oriente, con destinazione Cina, si colloca attorno al 1318 e seguì un itinerario da Venezia a Trebisonda, quindi dalla penisola arabica via nave fino all’India, dove a Thana (attuale Mumbai) raccolse le spoglie dei francescani martirizzati dai musulmani nel 1321. La tappa successiva fu l’Indonesia, una terra praticamente inesplorata fino ad allora. Nella sua Relatio, Odorico dedica spazio alla descrizione di usi e costumi dell’arcipelago. Lamori è il primo abitato dell’Indonesia che il frate friulano descrisse, dipingendolo come una terra non proprio ospitale. Così Odorico dipinse quella che è ritenuta essere un antico regno situato nella parte settentrionale di Sumatra: «Cominciai a perdere la tramontana quando toccai quella terra. In questa regione il calore è enorme e sia gli uomini che le donne vanno in giro nudi, senza coprirsi nessuna parte del corpo. Essi mi deridevano, perché dicevano che Dio aveva creato Adamo nudo e io invece volevo essere vestito contro la volontà di Dio. In questo paese tutte le donne sono messe in comune fra tutti, cosicché nessuno può dire «questa è mia moglie», oppure «questo è mio marito». Quando poi una donna partorisce un figlio o una figlia, lo dà o la dà a chi vuole tra uno di quelli con i quali ha avuto rapporti intimi, e quel bimbo o bimba lo considera il proprio padre. Anche tutto il terreno è in comune fra tutti gli abitanti, cosicché nessuno può dire: «questa o quella parte di terra è mia». Le case invece sono ognuna per conto proprio. Questa gente è pestifera e malvagia: infatti mangiano carne umana, come qui da noi si mangia la carne bovina o quella delle pecore. Tuttavia di per sé questa è una terra buona, che ha grande abbondanza di carni, di biade e di riso, inoltre vi si trova oro in abbondanza[…]».
Un ritratto di una società primitiva e ostile, quella che Odorico raccontò nella sua prima tappa indonesiana. Tutt’altra impressione il frate ebbe della tappa successiva, Giava. Secondo le fonti storiche, nel periodo in cui l’isola fu visitata da Odorico l’isola viveva l’ultimo periodo prospero prima dell’arrivo dell’Islam dall’India, quello del regno Majapahit che, sotto il comandante militare e consigliere dei regnanti Gajah Mada, riuscì nell’espansione territoriale con la conquista di Bali. A Giava l’Islam non era ancora giunto quando Odorico fece visita al palazzo reale, e le religioni principali erano il buddhismo, l’induismo e l’animismo. La descrizione che il friulano fece dell’isola era a dir poco entusiastica: «Quest’isola è abitata molto bene ed è la seconda isola più bella che ci sia al mondo. In essa nasce la canfora e vi crescono cubebe (pepe di Giava), melaghette (nota come melegueta o grani del Paradiso, della famiglia dello zenzero con sentore di zenzero e cardamomo) e noci moscate e molte altre specie di erbe preziose. Vi è grande abbondanza di vettovaglie, a eccezione del vino. Il re di quest’isola possiede un palazzo davvero meraviglioso». E più avanti, nel capitolo dedicato all’arcipelago indonesiano, Odorico sottolineava la potenza militare di Giava, che seppe resistere alla potenza della Cina di Kubilai Khan. «Il Gran Khan del Catai fu molte volte in guerra contro questo regno di Giava, ma questo re riuscì sempre vincitore e lo superò».
Lasciata l’Indonesia, passando forse per il Borneo e probabilmente dalle Filippine, Odorico sbarcò finalmente in Cina dal porto di Canton. Poi via terra riuscì a raggiungere Khambaliq (Pechino), dove lasciò le spoglie dei confratelli martiri e risiedette per tre anni prima di intraprendere il viaggio di ritorno via terra in compagnia del francescano frate Giacomo d’Irlanda attraverso il Tibet, la Persia e di nuovo da Trebisonda fino a Venezia. Odorico tornò nel 1330, dopo 12 anni. A Padova scrisse la sua Relatio, di fronte a frate Guido, ministro provinciale, e allo scriba Guglielmo da Solagna. La destinazione del resoconto di Odorico era Avignone, dove si ipotizza che il frate avrebbe dovuto recarsi per relazionare le meraviglie d’Oriente e dei suoi popoli al Pontefice. Odorico da Pordenone non la raggiungerà mai. Morirà a Udine si presume il 14 gennaio 1331 stroncato da una grave forma di enfisema dovuto alle esalazioni di monossido di carbonio respirate nelle tende dei «Tatari». La fama di santità seguirà immediatamente dopo la morte. A Udine fu realizzata una splendida arca dove riposavano le spoglie. Il processo di canonizzazione iniziò solamente nel 1755 ma fu interrotto. Due volte ancora fu ripreso ed interrotto nel 1931 e nel 1956. Nuovamente istruito negli anni Duemila, l'iter è attualmente in corso.
Per un approfondimento sul viaggio di Odorico da Pordenone si consiglia la lettura di Racconto delle cose meravigliose d'Oriente (Edizioni Messaggero Padova), basato sull'opera critica di riferimento a cura di Annalia Marchisio Relatio de mirabilibus orientalium Tatarorum (Sismel-Edizioni del Galluzzo).
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2025-12-16
Dimmi La Verità | Giuseppe Santomartino: «L'islamofobia è un assist per i terroristi islamici»
Ecco #DimmiLaVerità del 16 dicembre 2025. Il generale Giuseppe Santomartino ci spiega perché non ha più senso parlare di Isis e perché la islamofobia è un assist per i terroristi islamici.
Ansa
Gli antagonisti, tra cui qualche ex brigatista, manifestano insieme a imam radicalizzati e maranza. Come Omar Boutere, italo marocchino ricercato dopo gli scontri a Torino, ritrovato a casa della leader di Askatasuna. Una saldatura evidente che preoccupa gli inquirenti.
La saldatura che preoccupa investigatori e intelligence ormai non è più un’ipotesi, è una fotografia scattata nelle piazze: gli antagonisti, compreso qualche indomito ex brigatista, manifestano contro Israele, marciano accanto agli imam radicalizzati comparsi in inchieste sul terrorismo jihadista e applaudono a predicatori salafiti che arringano la folla tra le bandiere rosse e quelle palestinesi. È tutto lì, in una sola immagine: anarchici, jihadisti, vecchio terrorismo rosso e sigle filopalestinesi fusi negli stessi cortei, con gli stessi slogan, contro gli stessi nemici. Una convergenza che non è spontanea: è il risultato di un’ideologia vecchia di 20 anni, quella di Nadia Desdemona Lioce, che aveva già teorizzato che «le masse arabe e islamiche espropriate e umiliate sono il naturale alleato del proletariato metropolitano».
Oggi quella frase non è più teoria. È cronaca. Quella dell’altro giorno, quando un gruppo di attivisti di Askatasuna, del Collettivo universitario autonomo e del Kollettivo studentesco autorganizzato, riconducibili sempre al centro sociale, hanno fatto irruzione nella redazione torinese del quotidiano La Stampa. Circa 30 di loro sono stati identificati dopo aver lasciato sui muri dell’open space del quotidiano piemontese slogan d’antan: «Giornalista terrorista, sei il primo della lista». Ma soprattutto: «Giornalisti complici dell’arresto in Cpr di Mohamed Shahin». Ovvero l’imam di Torino ristretto nel Cpr di Caltanissetta con un decreto di espulsione del questore approvato dalla Corte d’Appello.
La Questura ha messo in fila ciò che negli ambienti progressisti fingono di non vedere: «Nel marzo 2012 veniva fermato a Imperia insieme a Giuliano Ibrahim Del Nievo (genovese, ndr), trasferitosi quello stesso anno in Siria per unirsi alle formazioni jihadiste e morto in combattimento nel 2013». Non solo. Nel 2018, durante un’indagine su Elmahdi Halili (condannato per terrorismo islamico con sentenza passata in giudicato) «veniva registrata una conversazione in cui questi consigliava ad altro soggetto di rivolgersi a Shanin presso la moschea di Torino». È tutto in quei due episodi: una parte di Italia scende in piazza per difendere un uomo che negli atti giudiziari compare come interlocutore di personaggi del circuito jihadista. E che in pubblico ha detto di essere «d’accordo con quello che è successo il 7 ottobre». Ma nell’ambiente torinese agitato da Askatasuna si muoveva anche Omar Boutere, il liceale italo-marocchino diciottenne finito nei guai per gli scontri del 15 novembre per il «No Meloni Day» (durante i quali otto agenti sono rimasti feriti). Dopo le botte negli uffici della Città metropolitana, Boutere scappa. E dove va a nascondersi? A casa della leader di Askatasuna, Sara Munari. È lì che la Digos lo scova. Il giudice del Tribunale gli concede l’obbligo di firma, ma dopo aver riconosciuto il rischio di recidiva per «l’indole violenta». La fotografia simbolo è la sua: profilo Facebook, mano destra alzata, gesto della P38 accanto a una bandiera palestinese. Non è un dettaglio. Gli ambienti che proteggono i protagonisti delle piazze violente sono gli stessi che scendono in strada per difendere imam espulsi per ragioni di sicurezza nazionale. Al centro della piazza di Bologna, tra bandiere rosse e palestinesi, infatti, c’era un personaggio che nemmeno gli ambienti islamici moderati tolleravano: Zulfiqar Khan, imam salafita. L’uomo che in tv diceva che «gli ebrei sono ingannatori», quello beccato dalla Verità mentre convertiva un minorenne in diretta Facebook e che parlava davanti alle telecamere del centro culturale Iqraa pubblicando i suoi sermoni, è stato espulso esattamente un anno fa. Le sue frasi sono testuali, e basta leggerle per comprenderne il taglio: «Questo governo americano e questo governo israeliano e la loro agenda portano il terrorismo e mettono nei cuori il terrorismo». E ancora: «Questa storia nasce cento anni fa, quando si diceva “vedrete che i palestinesi non saranno sulla terra della Palestina”. Questa è la loro agenda». E poi l’appello più preoccupante di tutti: «I libri sacri sono l’unica via per radunare tutti quanti». Un comizio salafita, nel cuore di un corteo antagonista. Nessun imbarazzo, ma tanta solidarietà. Per capire la saldatura, però, bisogna tornare al mondo anarco-insurrezionalista. Il 30 novembre 2022 il Gom della polizia penitenziaria registra un colloquio in cui Alfredo Cospito, l’arruffapopoli in 41 bis, avrebbe detto che «alla protesta in corso (quella contro il carcere duro alimentata dallo sciopero della fame del leader della Federazione anarchica informale/Fronte rivoluzionario internazionale, ndr) avrebbero aderito anche i detenuti “musulmani jihadisti”». Il panorama della «A» cerchiata con gli ambienti jihadisti: la saldatura, già teorizzata, prende forma. Nelle piazze del 2024, a Milano, c’è infatti un volto che chi ricorda la cronaca italiana degli anni Settanta non può ignorare: Francesco Giordano, Brigata XXVIII Marzo, condannato per l’omicidio di Walter Tobagi, guidava un corteo per la «Palestina libera» mentre reggeva uno striscione che invitava al boicottaggio di Israele: «Non finanziare l’Apartheid israeliana». Il 25 aprile scorso, invece, a bordo di un camion, c’era un altro ex brigatista rosso: Paolo Maurizio Ferrari, 79 anni. Sfilava davanti alla componente antagonista, insieme ai giovani palestinesi e alle sigle pro Palestina. Ma in molti hanno finto di non vedere la convergenza tra veterani del terrorismo rosso e attivisti della causa palestinese. Anche quando sul sito del Nuovo partito comunista italiano è comparsa una foto di Marco Carrai con la bandiera di Israele dietro. Sopra, un banner insanguinato: «Criminale di guerra». Sotto: «Agente sionista complice del genocidio». Chiude la falce e martello accompagnata dallo slogan: «Non aspettarsi giustizia ma essere giustizia». È diventato un bersaglio. Un simbolo perfetto per una galassia che unisce estremismo ideologico e radicalismo etnico-religioso.
L’ex docente parigino Gilles Kepel, già giovane trozkista poi fine studioso dei movimenti arabi in lotta contro le dittature del Medio oriente e del jihadismo, minacciato di morte dai gruppi pro Isis, spiega il cuore del fenomeno: «La bandiera palestinese sventolata nelle piazze è assurta a simbolo della lotta contro tutte le ingiustizie. Lo vedete benissimo anche in Italia, le manifestazioni per Gaza diventano un pretesto per qualsiasi tipo di rivendicazione politica o sociale». La questione palestinese, insomma, è diventata una cornice in cui poter infilare qualsiasi cosa. Davanti al Tribunale dell’Aquila, infatti, gli antagonisti si sono mobilitati per chiedere la liberazione del palestinese Anan Yaeesh, accusato di terrorismo internazionale sulla base di indagini israeliane, arrestato nel 2023 e rinviato a giudizio con altri due attivisti. C’è il presidio, ci sono gli slogan. Lui ha attaccato l’Italia, definendo l’arresto «illegittimo secondo il diritto internazionale» e valutando il suo processo come «influenzato dai rapporti diplomatici dell’Italia con Israele».
La macchina del dissenso trova il suo carburante. Yaeesh viene trasferito nel carcere di Melfi. E il comitato Free Anan parla di trasferimento «arbitrario», denunciando che gli «incontri con i legali» sarebbero «sempre più difficili e rari». Anche lui, come Cospito, avvia uno sciopero della fame. Anche la strategia, a questo punto, coincide perfettamente con quella antagonista.
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Un frame del video dell'aggressione a Costanza Tosi (nel riquadro) nella macelleria islamica di Roubaix
Giornalista di «Fuori dal coro», sequestrata in Francia nel ghetto musulmano di Roubaix.
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Mercoledì scorso Costanza era impegnata a fare il suo lavoro: telecamera addosso, telefono in mano e operatore al seguito, da giornalista esperta quale è, faceva interviste alla gente per strada e nei negozi. Domande semplici sulle abitudini di vita del quartiere, sulla possibilità di vivere all’occidentale, domande lecite, che vogliono mettere in luce una realtà poco lontana da noi e che potrebbe diventare presto anche la nostra.
Ma a Roubaix le domande non le puoi fare.
Costanza è entrata in una macelleria halal, dietro al bancone il proprietario del negozio. Poche parole tra i due, prima cortesi, poi lui, all’improvviso, cambia atteggiamento: «Quando mi ha detto di appoggiare il telefono ho pensato, semplicemente, che non volesse essere ripreso. Ho fatto come mi ha chiesto, ma non mi aspettavo certo quello che poi è successo». L’uomo si impossessa del cellulare, dal retrobottega arriva un giovane, forse il figlio, poi un terzo uomo entra nel negozio. Si passano il telefono di mano in mano, cercando forsennatamente di accendere lo schermo. «Il telefono era bloccato e, per questo, si sono innervositi», racconta Costanza Tosi. «Mi hanno intimato di dare loro il codice di accesso, ho proposto di cancellare di mano mia il video appena fatto, se era quello che volevano... ma loro no. Insistevano per avere il codice del telefono, tanto che il primo uomo ha minacciato di buttarlo nel tritacarne se non gli avessi risposto. Ho capito di essere in pericolo quando era troppo tardi. Nella stanza sono entrate anche alcune donne che hanno bloccato la porta, in modo da non farmi uscire».
Costanza prova a convincere i suoi sequestratori, dice che chiamerà la polizia, chiede rispetto per il suo lavoro, ripete che quello che stanno facendo è illegale, che non possono tenerla prigioniera, che devono farla uscire. Ma il gruppo non sente ragioni. «Se continui ancora ti tiro un destro in testa», la minaccia uno degli energumeni, mentre gli altri ridono. La porta è sempre bloccata dall’interno, la giornalista chiede aiuto attraverso il vetro, gesticolando disperata, ma nessuno le va in soccorso. Le persone passano davanti alla vetrina, probabilmente la vedono ma, per loro, lei - bionda, occhi azzurri e senza velo - non è una vittima, ma una che «certamente merita quella punizione».
Dopo oltre un’ora Costanza è distrutta. Seduta a terra in quel negozio che odora di carne, schiacciata dall’indifferenza e dalla violenza delle persone che le stanno intorno e che le ripetono: «È inutile che speri, sei sola qui, non ti aiuterà nessuno». Piange, si sente mancare il respiro. Poi cede e rivela il codice. «Da quel momento con il mio telefono hanno fatto di tutto: hanno cancellato i video, sono entrati nei profili social, hanno fotografato i dati personali in modo da sapere chi sono e dove abito. Ridevano di me per umiliarmi e continuare a farmi paura», racconta ancora, «e poi mi hanno obbligata a chiedere scusa, per tre volte». Lei chiede scusa per salvarsi da quella situazione assurda, figlia di una mentalità che non rispetta le leggi, che non ha rispetto o pietà per una donna sola in balia di un gruppo di uomini e che non ha nessun timore delle forze dell’ordine. «Chiama pure la polizia, mi dicevano, tanto arresterà te che filmavi senza chiedere», racconta ancora la giornalista. E se non è stato così, poco ci è mancato. «Quando sono andata in caserma gli agenti mi hanno accolta sottolineando che non avrei dovuto registrare quei video senza permesso», spiega l’inviata di Fuori dal coro, «e, come fosse una cosa normale, mi hanno informata che di solito, per entrare nel quartiere in cui mi ero addentrata, bisogna chiedere prima all’imam...».
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