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2024-04-19
Le sviolinate dem hanno rafforzato Teheran
Federica Mogherini e Hassan Rowhani a Teheran nel 2015 (Ansa)
L’aggressività dell’Iran non minaccia soltanto Israele ma, attraverso i suoi proxy, il regime khomeinista sta destabilizzando l’intero scacchiere mediorientale. Una pericolosità, quella di Teheran, che - come ricordato l’altro ieri su queste colonne da Maurizio Belpietro - è cresciuta innanzitutto a causa dell’appeasement condotto dalle amministrazioni americane di Barack Obama e di Joe Biden. Ma attenzione: la responsabilità è anche della sinistra europea.
Nel 2015, Martin Schulz, alto esponente del Pse e all’epoca presidente dell’Europarlamento, si recò nella Repubblica islamica, per «intensificare il dialogo tra l’Ue e l’Iran». Sempre nel 2015, l’allora Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, fu tra i principali negoziatori del controverso accordo sul nucleare con Teheran (Jcpoa). Anche la Mogherini era in quota Pse e aveva ottenuto il suo incarico europeo su indicazione dell’allora premier Matteo Renzi, di cui era stata ministro degli Esteri.
Non a caso, quando Donald Trump lasciò il Jcpoa nel 2018, il Pse si lamentò. «Il Partito dei socialisti europei si rammarica profondamente della decisione del presidente Trump di ritirare gli Usa dall’accordo sul nucleare con l’Iran», recitava una nota dell’epoca. «Questo impulso a distruggere non ci sta portando da nessuna parte», dichiarò la Mogherini, riferendosi all’allora presidente americano. Prese di distanza da Trump arrivarono anche dall’allora premier italiano, Paolo Gentiloni, e dall’attuale Spitzenkandidat del Pse -appoggiato da Elly Schlein - Nicolas Schmit. Era inoltre il 2020, quando il capodelegazione del Pd all’Europarlamento, Brando Benifei, definì il Jcpoa «il maggior risultato della politica estera europea degli ultimi anni». Ancora nel 2022, la deputata dem, Lia Quartapelle, criticava Trump per aver abbandonato quell’accordo. Appartenente al Pse è anche il successore della Mogherini, Josep Borrell, che, da quando è entrato in carica, ha spesso auspicato un ripristino del Jcpoa: una posizione, la sua, che non sembra mutata dopo il 7 ottobre. Secondo il Tehran Times, a fine marzo, ha infatti avuto una telefonata con il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, auspicando una ripresa dei colloqui sul nucleare.
Al netto della retorica sui diritti umani, ad avere delle responsabilità sono anche alcune figure presenti nella lista «Stati Uniti d’Europa», in campo per le prossime europee. Ci riferiamo, in particolare, a Renzi e a Emma Bonino. Renzi, quando era premier e ancora a capo del Pd, prima espresse «soddisfazione» per il raggiungimento del Jcpoa, poi, nel 2016, si recò a Teheran dove firmò sei accordi economici. Quello stesso anno, approfittando del clima di distensione, l’allora governatrice dem del Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, annunciò tre intese di collaborazione tra la Repubblica islamica e il porto di Trieste. Nel dicembre 2013, Emma Bonino, all’epoca ministro degli Esteri del governo Letta, andò in visita in Iran: fu il primo titolare della Farnesina a farlo nell’arco di ben dieci anni. Appena pochi giorni prima del viaggio della Bonino, Massimo D’Alema si era recato a Teheran, dove aveva incontrato l’allora ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif: quello stesso Zarif che sarebbe diventato uno degli architetti del Jcpoa. Guarda caso, recentemente intervistato su La 7, D’Alema ha detto che, se fosse americano, a novembre voterebbe per Biden, il quale, nonostante qualche sanzione, si è ben guardato dal ripristinare la politica della «massima pressione» su Teheran, attuata dal predecessore.
Certo, la sinistra europea si è sempre trincerata dietro la tesi, secondo cui il Jcpoa sarebbe una questione distinta da quella della violazione dei diritti umani, perpetrata dal regime khomeinista. Peccato però che le cose non stiano così. Ripristinare (o cercare di ripristinare) quel controverso accordo significa rafforzare politicamente, diplomaticamente ed economicamente quello stesso regime che reprime internamente il dissenso, minaccia Israele e destabilizza l’intera regione con i suoi proxy. Criticare gli ayatollah per la violazione dei diritti umani ed essere al contempo favorevoli al Jcpoa, come fa la sinistra europea, è un’eclatante contraddizione. Borrell oggi dice di valutare sanzioni contro Teheran, mentre Gentiloni accusa i khomeinisti di una «escalation senza precedenti». Eppure le loro politiche non hanno mai fatto granché per arginare realmente l’aggressività degli ayatollah.
E non è finita qui. La tesi secondo cui la pericolosità iraniana sarebbe stata alimentata dalla linea dura di Trump è smentita dai fatti. Dal 2021, Biden ha intrapreso un appeasement in piena regola verso Teheran, avviando colloqui indiretti sul nucleare, togliendo gli Huthi dalla lista delle entità terroristiche, sospendendo varie sanzioni e sbloccando asset iraniani precedentemente congelati. Risultato: l’Iran ha rafforzato i legami con Mosca e Pechino, continuando a foraggiare Hamas e gli altri proxy. Inoltre, facendo leva sull’attacco del 7 ottobre, i khomeinisti sono riusciti nell’intento di far deragliare, almeno per ora, il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. La politica dei dem americani e della sinistra europea si è, insomma, rivelata un totale fallimento. Tenere fuori il Pse dalla prossima Commissione Ue è fondamentale anche per far sì che Bruxelles cambi finalmente rotta in politica estera. A maggior ragione se Trump dovesse vincere a novembre: esattamente quello che gli ayatollah e D’Alema non vogliono.
Giallo sull’accordo Biden-Netanyahu «Attaccate Rafah, non gli ayatollah»
Secondo alcune indiscrezioni rilanciate da fonti egiziane e del Qatar, gli Stati Uniti avrebbero accettato il piano di Israele di invadere Rafah «a condizione di non lanciare un’offensiva su larga scala contro l’Iran». In realtà è una mezza verità, perché, come scrive Axios, «nelle ultime settimane, diversi gruppi di lavoro di livello inferiore si sono incontrati virtualmente per discutere i piani operativi delle forze di difesa israeliane per Rafah e proposte umanitarie».
Ieri sera i colloqui sono saliti di livello con la presenza del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca (preoccupata per i civili), Jake Sullivan, il ministro per gli affari strategici di Israele, Ron Dermer, e il consigliere per la sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi.
Ma cosa troveranno le truppe delle Forze di difesa israeliane a Rafah? Secondo il Times of Israel, sono rimasti quattro battaglioni dell’organizzazione terroristica (1.500-2.000 uomini) e oltre 1 milione di civili, molti dei quali si sono rifugiati lì a causa dei combattimenti nella Striscia. Rafah è anche l’ultimo nascondiglio dei leader di Hamas, Yaya Sinwar e Mohammed Deif, che si fanno scudo degli ostaggi israeliani ancora in vita e che sperano ancora di riuscire a fuggire in Egitto, per poi raggiungere l’Algeria, la Tunisia oppure la Turchia. Quanti sono gli ostaggi ancora vivi? Funzionari statunitensi e israeliani hanno chiarito a Nbc News che «potrebbero essere vivi molti meno ostaggi di quanto sia pubblicamente noto»; mentre un parente di uno di loro, che ha parlato sotto anonimato, ha detto che i funzionari della sicurezza israeliani hanno mostrato agli americani che sanno dove si trovano molti degli ostaggi, ma che questi sono tenuti in movimento.
In vista della possibile operazione a Rafah, Hamas ora prova a giocarsi di nuovo la carta delle trattative; secondo quanto riporta l’emittente israeliana Kan, l’alto funzionario Mousa Abu Marzouk ha affermato che «Hamas non si è ritirata dai colloqui indiretti con Israele e non si è ancora raggiunta una situazione di stallo».
Secondo l’emittente americana Abc, Israele non attaccherà l’Iran prima della Pasqua ebraica, che quest’anno inizierà la sera del 22 aprile e terminerà il 30 aprile, però «tutto potrebbe cambiare in base all’evoluzione della situazione sul terreno». Gli iraniani, che temono comunque una reazione israeliana, continuano a minacciare e ieri è toccato al comandante dell’aeronautica militare del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (Irgc), Amir Ali Hazijadeh, che all’agenzia Tasmin News ha affermato: «Abbiamo colpito i sionisti con vecchie armi dalla potenza minima. Non abbiamo utilizzato nemmeno i missili balistici Khorramshahr-4, Sejil, Haj Qasem , Kheibar Shekan e il missile ipersonico 2 (presumibilmente Fattah, ndr)». Minacce anche da parte di Hahmad Haghtalab, comandante dei pasdaran: «Se Israele attacca i nostri siti nucleari, certamente risponderemo. I siti nucleari israeliani sono stati identificati, se necessario potremmo rivedere la nostra dottrina nucleare».
Mentre scriviamo decine di terroristi sono stati eliminati e oltre 100 infrastrutture terroristiche sono state decimate nel centro della Striscia di Gaza. Infine, dopo quelle americane, per l’Iran sono in arrivo nuove sanzioni da parte dell’Unione europea, «in particolare in relazione ai veicoli aerei senza pilota e ai missili» e della Gran Bretagna, che ha annunciato «una nuova serie di sanzioni contro figure chiave del regime iraniano».
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Riduci
Se l’Iran è in grado di destabilizzare il Medio Oriente è anche grazie agli assist della sinistra europea e Usa. Dalla Mogherini a Borrell, passando per Renzi e D’Alema: così la trattativa verso un’intesa sul nucleare ha nutrito le ambizioni dei pasdaran.Axios smentisce il «baratto» tra Biden e Netanyahu su Rafah e Iran. Il regime minaccia: «Raid sui siti nucleari? Reagiremo».Lo speciale contiene due articoli.L’aggressività dell’Iran non minaccia soltanto Israele ma, attraverso i suoi proxy, il regime khomeinista sta destabilizzando l’intero scacchiere mediorientale. Una pericolosità, quella di Teheran, che - come ricordato l’altro ieri su queste colonne da Maurizio Belpietro - è cresciuta innanzitutto a causa dell’appeasement condotto dalle amministrazioni americane di Barack Obama e di Joe Biden. Ma attenzione: la responsabilità è anche della sinistra europea.Nel 2015, Martin Schulz, alto esponente del Pse e all’epoca presidente dell’Europarlamento, si recò nella Repubblica islamica, per «intensificare il dialogo tra l’Ue e l’Iran». Sempre nel 2015, l’allora Alto rappresentante Ue per la politica estera, Federica Mogherini, fu tra i principali negoziatori del controverso accordo sul nucleare con Teheran (Jcpoa). Anche la Mogherini era in quota Pse e aveva ottenuto il suo incarico europeo su indicazione dell’allora premier Matteo Renzi, di cui era stata ministro degli Esteri.Non a caso, quando Donald Trump lasciò il Jcpoa nel 2018, il Pse si lamentò. «Il Partito dei socialisti europei si rammarica profondamente della decisione del presidente Trump di ritirare gli Usa dall’accordo sul nucleare con l’Iran», recitava una nota dell’epoca. «Questo impulso a distruggere non ci sta portando da nessuna parte», dichiarò la Mogherini, riferendosi all’allora presidente americano. Prese di distanza da Trump arrivarono anche dall’allora premier italiano, Paolo Gentiloni, e dall’attuale Spitzenkandidat del Pse -appoggiato da Elly Schlein - Nicolas Schmit. Era inoltre il 2020, quando il capodelegazione del Pd all’Europarlamento, Brando Benifei, definì il Jcpoa «il maggior risultato della politica estera europea degli ultimi anni». Ancora nel 2022, la deputata dem, Lia Quartapelle, criticava Trump per aver abbandonato quell’accordo. Appartenente al Pse è anche il successore della Mogherini, Josep Borrell, che, da quando è entrato in carica, ha spesso auspicato un ripristino del Jcpoa: una posizione, la sua, che non sembra mutata dopo il 7 ottobre. Secondo il Tehran Times, a fine marzo, ha infatti avuto una telefonata con il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amir-Abdollahian, auspicando una ripresa dei colloqui sul nucleare.Al netto della retorica sui diritti umani, ad avere delle responsabilità sono anche alcune figure presenti nella lista «Stati Uniti d’Europa», in campo per le prossime europee. Ci riferiamo, in particolare, a Renzi e a Emma Bonino. Renzi, quando era premier e ancora a capo del Pd, prima espresse «soddisfazione» per il raggiungimento del Jcpoa, poi, nel 2016, si recò a Teheran dove firmò sei accordi economici. Quello stesso anno, approfittando del clima di distensione, l’allora governatrice dem del Friuli-Venezia Giulia, Debora Serracchiani, annunciò tre intese di collaborazione tra la Repubblica islamica e il porto di Trieste. Nel dicembre 2013, Emma Bonino, all’epoca ministro degli Esteri del governo Letta, andò in visita in Iran: fu il primo titolare della Farnesina a farlo nell’arco di ben dieci anni. Appena pochi giorni prima del viaggio della Bonino, Massimo D’Alema si era recato a Teheran, dove aveva incontrato l’allora ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif: quello stesso Zarif che sarebbe diventato uno degli architetti del Jcpoa. Guarda caso, recentemente intervistato su La 7, D’Alema ha detto che, se fosse americano, a novembre voterebbe per Biden, il quale, nonostante qualche sanzione, si è ben guardato dal ripristinare la politica della «massima pressione» su Teheran, attuata dal predecessore.Certo, la sinistra europea si è sempre trincerata dietro la tesi, secondo cui il Jcpoa sarebbe una questione distinta da quella della violazione dei diritti umani, perpetrata dal regime khomeinista. Peccato però che le cose non stiano così. Ripristinare (o cercare di ripristinare) quel controverso accordo significa rafforzare politicamente, diplomaticamente ed economicamente quello stesso regime che reprime internamente il dissenso, minaccia Israele e destabilizza l’intera regione con i suoi proxy. Criticare gli ayatollah per la violazione dei diritti umani ed essere al contempo favorevoli al Jcpoa, come fa la sinistra europea, è un’eclatante contraddizione. Borrell oggi dice di valutare sanzioni contro Teheran, mentre Gentiloni accusa i khomeinisti di una «escalation senza precedenti». Eppure le loro politiche non hanno mai fatto granché per arginare realmente l’aggressività degli ayatollah.E non è finita qui. La tesi secondo cui la pericolosità iraniana sarebbe stata alimentata dalla linea dura di Trump è smentita dai fatti. Dal 2021, Biden ha intrapreso un appeasement in piena regola verso Teheran, avviando colloqui indiretti sul nucleare, togliendo gli Huthi dalla lista delle entità terroristiche, sospendendo varie sanzioni e sbloccando asset iraniani precedentemente congelati. Risultato: l’Iran ha rafforzato i legami con Mosca e Pechino, continuando a foraggiare Hamas e gli altri proxy. Inoltre, facendo leva sull’attacco del 7 ottobre, i khomeinisti sono riusciti nell’intento di far deragliare, almeno per ora, il processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e Arabia Saudita. La politica dei dem americani e della sinistra europea si è, insomma, rivelata un totale fallimento. Tenere fuori il Pse dalla prossima Commissione Ue è fondamentale anche per far sì che Bruxelles cambi finalmente rotta in politica estera. 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In realtà è una mezza verità, perché, come scrive Axios, «nelle ultime settimane, diversi gruppi di lavoro di livello inferiore si sono incontrati virtualmente per discutere i piani operativi delle forze di difesa israeliane per Rafah e proposte umanitarie». Ieri sera i colloqui sono saliti di livello con la presenza del consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca (preoccupata per i civili), Jake Sullivan, il ministro per gli affari strategici di Israele, Ron Dermer, e il consigliere per la sicurezza nazionale, Tzachi Hanegbi. Ma cosa troveranno le truppe delle Forze di difesa israeliane a Rafah? Secondo il Times of Israel, sono rimasti quattro battaglioni dell’organizzazione terroristica (1.500-2.000 uomini) e oltre 1 milione di civili, molti dei quali si sono rifugiati lì a causa dei combattimenti nella Striscia. Rafah è anche l’ultimo nascondiglio dei leader di Hamas, Yaya Sinwar e Mohammed Deif, che si fanno scudo degli ostaggi israeliani ancora in vita e che sperano ancora di riuscire a fuggire in Egitto, per poi raggiungere l’Algeria, la Tunisia oppure la Turchia. Quanti sono gli ostaggi ancora vivi? Funzionari statunitensi e israeliani hanno chiarito a Nbc News che «potrebbero essere vivi molti meno ostaggi di quanto sia pubblicamente noto»; mentre un parente di uno di loro, che ha parlato sotto anonimato, ha detto che i funzionari della sicurezza israeliani hanno mostrato agli americani che sanno dove si trovano molti degli ostaggi, ma che questi sono tenuti in movimento. In vista della possibile operazione a Rafah, Hamas ora prova a giocarsi di nuovo la carta delle trattative; secondo quanto riporta l’emittente israeliana Kan, l’alto funzionario Mousa Abu Marzouk ha affermato che «Hamas non si è ritirata dai colloqui indiretti con Israele e non si è ancora raggiunta una situazione di stallo». Secondo l’emittente americana Abc, Israele non attaccherà l’Iran prima della Pasqua ebraica, che quest’anno inizierà la sera del 22 aprile e terminerà il 30 aprile, però «tutto potrebbe cambiare in base all’evoluzione della situazione sul terreno». Gli iraniani, che temono comunque una reazione israeliana, continuano a minacciare e ieri è toccato al comandante dell’aeronautica militare del Corpo dei guardiani della rivoluzione islamica (Irgc), Amir Ali Hazijadeh, che all’agenzia Tasmin News ha affermato: «Abbiamo colpito i sionisti con vecchie armi dalla potenza minima. Non abbiamo utilizzato nemmeno i missili balistici Khorramshahr-4, Sejil, Haj Qasem , Kheibar Shekan e il missile ipersonico 2 (presumibilmente Fattah, ndr)». Minacce anche da parte di Hahmad Haghtalab, comandante dei pasdaran: «Se Israele attacca i nostri siti nucleari, certamente risponderemo. I siti nucleari israeliani sono stati identificati, se necessario potremmo rivedere la nostra dottrina nucleare». Mentre scriviamo decine di terroristi sono stati eliminati e oltre 100 infrastrutture terroristiche sono state decimate nel centro della Striscia di Gaza. Infine, dopo quelle americane, per l’Iran sono in arrivo nuove sanzioni da parte dell’Unione europea, «in particolare in relazione ai veicoli aerei senza pilota e ai missili» e della Gran Bretagna, che ha annunciato «una nuova serie di sanzioni contro figure chiave del regime iraniano».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Riduci
Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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