2025-07-10
Yellowjackets: «Siamo figli di Davis e dei Weather Report»
Yellowjackets (Anna Webber)
Le giubbe gialle della fusion sbarcano in Italia per un tributo alla visionaria band di Joe Zawinul e Wayne Shorter: «Hanno cambiato la musica che amiamo e le nostre vite. Non saremo la brutta copia degli eroi della svolta elettrica, la voce di Kurt Elling ci permetterà di osare».Il tempo passa, ma la stagione dei Weather Report non sembra finire mai. A cimentarsi in un nuovo tributo ai figli diletti della svolta elettrica di Miles Davis (pionieri anche nel nome, visto che oggi «Bollettino meteorologico» tirerebbe parecchio) stavolta saranno le giubbe gialle della fusion. Questa sera infatti gli Yellowjackets porteranno al Bergamo Jazz Festival (nella prestigiosa variante estiva che si svolge al Lazzaretto e che si concluderà il 18 luglio con un certo Herbie Hancock) un omaggio che solletica l’attesa dei fedeli alla visionaria band fondata da Joe Zawinul, Wayne Shorter e Miroslav Vitouš all’inizio degli anni Settanta (avvertenze: è l’unica data italiana, oltre a Umbria Jazz il 15 luglio). La formazione degli Yellowjackets è quella dell’ultimo decennio: i veterani Bob Mintzer ai sassofoni e Russel Ferrante alle tastiere, poi il bassista australiano Dane Alderson - con i suoi 42 anni è il più giovane - e William Kennedy alla batteria. Ma c’è un regalo aggiuntivo: il virtuosismo vocale di Kurt Elling (per il Guardian «un Frank Sinatra con i superpoteri»). E la curiosità cresce. «Stiamo parlando di uno dei gruppi più rilevanti della fusion anni Ottanta, al pari degli Steps Ahead e dei Brecker Brothers», spiega alla Verità il musicologo Stefano Zenni, autore di un’imponente Storia del jazz aggiornata, appena uscita per Quodlibet, «che decide di confrontarsi, riconoscendo in qualche modo il suo debito nei confronti dei massimi esponenti di quel magico anno e mezzo, diciamo fino al 1972, nel quale il jazz rock si è intrecciato con il free jazz, la sperimentazione sonora ed elettronica e un’improvvisazione dall’intreccio polifonico, prima di finire imbrigliato dentro a schemi più rigidi. I Weather Report, soprattutto grazie a Shorter, inventeranno un nuovo vocabolario armonico che poi si scioglierà nella fusion degli Yellowjackets e nel pop raffinato di Prince o di Michael Jackson». Non resta che lasciar raccontare le giubbe gialle, che raggiungiamo telefonicamente durante uno dei trasferimenti del loro tour europeo.A livello personale com’è avvenuto l’incontro con la musica dei Weather Report?Russell Ferrante: «Non avevo neanche 20 anni quando uscì il primo album (Weather Report, 1971, ndr). Nelle mie orecchie di giovane studente di jazz suonava astratto, ma coinvolgente. Ed ebbi la stessa impressione quando mi fiondai a vederli alla Carnegie Hall di New York».Bob Mintzer: «A colpirmi fu il loro secondo lavoro, I sing the body electric (1972, ndr). Era qualcosa di totalmente inedito a livello compositivo, soprattutto come combinazione di stili. Da sassofonista, l’approccio di Shorter era una lezione di understatement e di parsimonia: chi ha qualcosa da dire necessita di poche parole».Senza l’avvento dei Weather gli Yellowjackets sarebbero nati qualche anno dopo?B.M.: «Difficile dire cosa sarebbe successo, è chiaro però che quel gruppo aprì la strada a quelli come noi e a tutto il jazz contemporaneo. Quasi ogni loro disco ha spalancato una porta nuova. Penso a Black Market o a Heavy Weather».R.F.: «Nel jazz rock si stavano imponendo anche altri maestri, ma quello che stavano elaborando musicisti come John McLaughlin o Chick Corea era molto diverso dagli esperimenti di Shorter e Zawinul. Quest’ultimo aveva un’altra sofisticatezza armonica e utilizzava i sintetizzatori in modo orchestrale, forse ispirato dagli strumenti a fiato. Lo stile di Corea era più aggressivo e chitarristico. Non a caso ho citato quattro artisti che parteciparono alla creazione di Bitches Brew di Miles Davis (1970, ndr), il disco che segna la svolta elettrica del jazz».Quali sono i vostri brani nei quali emerge maggiormente l’influenza di quel supergruppo?B.M.: «Guarded Optimism (dall’album Cohearance del 2016, ndr) è una delle mie composizioni che contiene le citazioni più evidenti, ma la lista sarebbe lunga…» (ride).R.F.: «Io dico The Hornet (dal disco d’esordio Yellowjackets del 1981, ndr). È sicuramente figlia di tutto quello che ascoltavamo in quel periodo».La più grande differenza tra le due band è nel grado di organizzazione della musica? Soprattutto confrontando le strutture molto aperte dei primi Weather Report e il vostro approccio più strutturato?R.F.: «Sì, probabilmente noi abbiamo dei binari più chiari, senza rinunciare all’interazione e alla spontaneità».«We never solo, we always solo», era il famoso motto di Joe Zawinul. Quando uno parte in solitaria, gli altri non si limitino ad accompagnare. B.M.: «È un’idea che mi è sempre piaciuta, ma la differenza più importante tra noi secondo me è un’altra. I Weather avevano in Zawinul e Shorter due leader indiscussi. Le giubbe gialle non hanno capi, per cui serve un maggiore sforzo collaborativo».R.F.: «A proposito di soli, ho una chicca che mi confidò Erskine (l’unico batterista passato in entrambe le formazioni, ndr). Stando insieme a Wayne e Joe, Peter capì che in un assolo il climax non è obbligatorio. Sembra un dettaglio, ma la maggior parte degli improvvisatori segue questo schema. Parte in sordina e prepara l’esplosione finale. Va benissimo, ma non sempre. La musica può anche ribollire…» (ride).Una visione più circolare.William Kennedy: «Quando ascolto Erskine e gli altri batteristi dei Weather percepisco la presenza di Zawinul. Joe era in sintonia con i ritmi del mondo e pretendeva un approccio globale. Un brano che mi è rimasto impresso è Birdland, ma nella versione dell’album 8.30. È stato un enorme successo, in quella versione live però decolla a un altro livello. Non a caso alla batteria c’è Peter Erskine...».Un titolo che probabilmente è nelle orecchie anche di chi pensa di non conoscerlo. Negli anni Ottanta venne usato come sigla dello spot di un amaro che diede il via alla «Milano da bere». W.K.: «Senza dimenticare Teen Town. Quando scoprii che il batterista era Jaco Pastorius (il musicista classe 1951 che cambiò la storia del basso elettrico, ndr) rimasi a bocca aperta. Ha delle intuizioni notevoli».L’uscita di scena di Miroslav Vitouš e più avanti l’ingresso al basso di Pastorius contribuiranno a cambiare il suono della band. Mi piacerebbe sapere da Dane Alderson, quale dei due colleghi lo ha ispirato di più.D.A.: «Sinceramente mi sento più legato a Jaco. Ho scoperto i Weather grazie ai dischi di mio padre, ascoltando Port of entry da Night Passage. Il suo assolo mi mandò ko, non avevo mai sentito nulla di simile. D’altra parte, conosco pochi bassisti che non dividino la storia del basso in due ere: pre e post Pastorius. Ed è difficile non commuoversi davanti a Portrait of Tracy...».A proposito di incroci della vita, il figlio di Jaco è stato per qualche anno un membro degli Yellowjackets.R.F.: «Suonare con Felix è stato fantastico. Purtroppo ha potuto conoscere il padre solo attraverso la sua musica perché Jaco morì tragicamente quando lui era ancora bambino (fatale una rissa con un buttafuori nel 1987, ndr). Nonostante la ferita era sempre disponibile con chi gli chiedeva di parlargli di suo papà».Questa sera si unirà a voi Kurt Elling. Piccolo dettaglio, la musica dei Weather Report non prevede parti vocali. E qui viene il bello.R.F.: «Infatti, lasciamo un po’ di sorpresa» (ride). «Lui ha scritto dei testi meravigliosi e noi non vogliamo essere una brutta copia, giudicherete voi il risultato. Vi lascio con un insegnamento che mi diede Shorter mentre stavo improvvisando: “Suona le note accanto a quelle che vorresti suonare”. Non bisogna arrendersi alle idee scontate!».