2025-06-30
«Le campagne contro il vino fanno più male dei dazi Usa»
Riccardo Cotarella (Imagoeconomica)
Il presidente di Assoenologi, Riccardo Cotarella: «Tariffe al 10% sono sostenibili. Attacchi e disinformazione vengono portati avanti da giganti del cibo, che vogliono indebolire il mondo agricolo».Per acclamazione: Riccardo Cotarella da Monterubiaglio borgata di Castel Viscardo in provincia di Rieti, là dove l’Umbria si fa Toscana e la Toscana Lazio, che tra 48 ore, il 2 luglio, compirà 77 anni, è confermato nell’epica terra di Agrigento, dove si è tenuto il 78° congresso dell’associazione professionale, alla guida dell’Assoenologi, come già sta al vertice degli enologi del mondo. Ha di fronte due sfide probanti e una gratificazione personale. La prima è riaffermare che l’enologo è sì il «sarto» del vino, che gli dà forma usando la vigna come tessuto, la propria creatività come stile e la tecnica come filo da cucito, ma è prima di tutto uno che sa di scienza; la seconda è sostenere il vino in una crisi certo reale, ma molto «mediatica». La «coccola» è il suo libro Il vino: la mia vita che esce a settembre, tempo di vendemmia, con Mondadori-Rizzoli. Lo chiamano l’enologo dei Vip e il Vip degli enologi perché tra i suoi «clienti» manca solo Jeff Bezos, tanto per stare al gossip attuale, ma lui ripete: «Sono nato contadino in una famiglia di contadini e il vino va fatto, bevuto, inteso come un frutto della e per la famiglia». Sarà un caso, ma l’azienda che ha messo su per sperimentare in proprio con il fratello Renzo (anche lui uno dei massimi enologi: è amministratore delegato di Antinori, e basta la parola), la figlia e le nipoti, si chiama «Famiglia Cotarella»: il Montiano è il loro vino Vip! Con l’Assoenologi si occupa di oltre 5.000 tecnici, di un settore che nel mondo vale 353 miliardi di dollari e in Italia sfiora i 15 miliardi di euro che coi moltiplicatori sfiorano i cento.È davvero possibile che tutto questo sia in crisi? «Non si può negare che il vino stia vivendo nel mondo un momento difficile. In Europa e in Italia i sintomi sono acuti. Ma a preoccupare non è tanto il rallentamento del mercato, è semmai la caduta del consumo. Negli anni del Covid sembrava tutto finito e siamo ripartiti meglio di prima, con la crisi dei debiti sovrani avemmo una contrazione e poi il mercato è lievitato. Perfino dopo lo scandalo del metanolo – pagina tristissima e delinquenziale: quando ci sono di mezzo i morti, non sono ammessi sconti – siamo stati in grado di fare di quella tragedia una spinta a innovare e ripartire. Ma stavolta è diverso».Perché?«Perché c’è un attacco frontale al vino e credo che lo s’intenda colpire perché è il prodotto che identifica la nostra civiltà, perché sostanzia l’aristocrazia agricola nel senso che è quello che più parla e più fa parlare di sé e ha anche i margini economici più alti, perché chi ha interesse a nutrire il mondo – e sono dei giganti – facendo a meno dei contadini deve prima distruggere i pilastri del mondo agricolo e il vino è il più consistente di questi pilastri. Ma lo stesso vale per la carne rossa, per i formaggi. Si usano argomenti ossessivamente ripetuti, la salute e il cambiamento climatico, per attaccarci. Si sostiene che l’alcol fa male, ma nessuno dice mai che il rhum va bandito, tutti dicono che il vino fa male perché il vino amplifica quella comunicazione, peraltro sbagliata. Infiniti studi dicono che il vino è compatibile con la salute, ovviamente se non se ne abusa, perché è marginalmente alcol, ma ha tantissime sostanze benefiche. Screening di massa dimostrano che chi beve moderatamente ha un’aspettativa di vita superiore a chi è astemio. Ciò che è mortificante è l’attacco in Italia».Chi vi attacca?«Beh c’è stata e perdura una comunicazione fuorviante che ha prodotto anche attacchi diretti a persone e aziende e francamente è inspiegabile. In Francia non sarebbe mai stato possibile anche perché lì il consumatore è molto più avvertito e soprattutto il sistema vino è davvero un interesse nazionale. Un po’ di colpa però ce l’abbiamo pure noi. Ci siamo affidati a influencer, a messaggi che hanno fatto moda, ma di quanto sia economicamente e socialmente consistente il vino, della sua centralità culturale, della sua indispensabilità come lievito dei rapporti umani abbiamo detto poco e male. Anche rispetto all’ambiente nessuno dice mai che la ricerca, e noi enologi siamo prima di tutto persone di scienza, consente oggi alla vitivinicoltura di essere un prezioso alleato per l’ambiente. Ci sono strumenti in cantina che catturano la C02 di fermentazione e la riusano. Ma se questi strumenti li fai vedere in un certo modo ci si può costruire sopra una comunicazione allarmistica. Ed è ciò che è accaduto e che condanno e rifiuto». Dunque è un attacco orchestrato? Anche in Europa?«In Europa ci sono norme che ci penalizzano, ci sono stati diversi tentativi di emarginare il vino. Ma è comprensibile: i Paesi del Nord, che il vino non lo possono e non lo sanno fare, vogliono dirottare le risorse altrove e favorire i loro prodotti. Pensiamo alle etichette allarmistiche che introduce l’Irlanda o all’atteggiamento della Germania che beve sì vino, ma lo vuole pagare sempre meno e soprattutto in sede Ue non lo difende. C’è una distanza rilevante tra i Paesi mediterranei e quelli del Nord Europa. Poi c’è la solita invadenza del peso burocratico che c’impone l’Europa».Il governo non vi protegge?«Devo dire che il governo di Giorgia Meloni ci è vicino, il ministro della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida va ovunque per difendere la nostra agricoltura. Spero però che il governo capisca che ora c’è bisogno di una spinta per superare questa crisi che come ho detto è anomala. E poi c’è un’ulteriore causa che tocca a noi sconfiggere».E sarebbe?«La cupezza che ci attanaglia. Il vino si beve per essere felici, non è vero che si beve per dimenticare; si consuma per gioire. Se ci sono le guerre, se i nostri giovani si portano dietro la difficoltà all’incontro generata dal lockdown, se c’è incertezza sulla situazione economica e gli stipendi sono bassi, vendere vino è molto più complicato. Ma anche noi produttori e tecnici dobbiamo fare uno sforzo: contenere i prezzi, fare ottimi vini accessibili. Poi ci sono le grandi bottiglie, ma per quelle fasce di mercato la crisi è solo chiacchiera da salotto».Eppure tutti gridano per i dazi: crolla l’America che per noi è comunque il primo mercato. È così?«Se i dazi si limitano, come ormai pare, al 10% il danno non è rilevante. Alcune bottiglie di fascia molto bassa possono soffrire, ma il mercato americano non è in crisi per i dazi. Semmai lo è per il dollaro debole. E se potessi dare un consiglio a Donald Trump gli direi di bere un buon bicchiere italiano: starebbe sereno e se si consuma vino in serenità va tutto molto meglio».È vero che ci sono più donne nella vostra professione che in passato e che loro il vino lo fanno meglio?«Sì, ci sono valentissime tecniche ed è vero che c’è una differenza di percezione sensoriale tra maschi e femmine all’olfatto. Sono felicissimo che ci siano sempre più enologhe, migliora il nostro lavoro, ma non c’è differenza tra il vino fatto da un uomo o da una donna, la differenza c’è se il tecnico è bravo o no, se è uomo di scienza o no e soprattutto se ascolta, cura e interpreta la vigna o no. Perché è in vigna che nasce il successo».Lei è un caposcuola? I ragazzi vogliono fare l’enologo? E più in generale che rapporto c’è tra i giovani e il vino? «Non so se sono un caposcuola, so che ho cento ragazzi scelti tra i miei studenti, non solo in base al profitto, ma piuttosto in base alla passione, che collaborano con me e con le aziende di cui mi occupo. I corsi di enologia sono richiestissimi: oggi abbiamo il problema di dove collocare questi tecnici; consiglio loro di fare i cantinieri e poi salire. È quello che abbiamo fatto io e mio fratello. Rivelo un particolare che non dispiacerà a Renzo. Quando doveva mettere a punto il Cervaro della Sala, il grande chardonnay di Antinori fatto a Orvieto, lo ha provato prima nella nostra cantina di adozione, la Vaselli, dove io entrai giovanissimo, venni per così dire bullizzato da due tecnici, ma dopo due anni loro erano fuori e io a 29 anni il direttore della cantina. Ai giovani enologi vanno insegnati studio, passione e perseveranza e tre cose fondamentali: il vino si fa se si ama, il vino si fa se si ha cultura del vino e dei suoi territori, il vino si fa se si ha una buona vigna: da un’uva malata si fa un vino malato. Quanto ai giovani in generale, non è vero che sono lontani dal vino: i corsi di sommelier sono stracolmi. Dobbiamo però cambiare linguaggio di racconto del vino e dobbiamo renderlo accessibile di prezzo. Poi dobbiamo renderli consapevoli che il consumo del vino è sentimentale: avvicina alla terra, è costituente delle nostre radici».Intende anche la sacralità del vino, la sua centralità nella civiltà greco-giudaico- cristiana?«Nella Bibbia, nella letteratura greca, il vino è la bevanda sacra. Se Gesù di Nazareth eleva il vino a simbolo del suo sangue versato per l’alleanza tra Dio e uomo, può essere un veleno? Sì, il vino è lo spirito della nostra identità e ribadisco che è sotto attacco perché attraverso il vino si vuole distruggere quella». In ultimo; lei è l’enologo dei Vip e di «semplici» aziende viticole: c’è una differenza?“Lo sbaglio su un vino non me lo perdonerebbe nessuno! Una cosa accomuna Vip, come li chiamate voi, e cantine: la voglia di dire “questo è il mio vino”. Nel caso dei Vip devi guidarli anche a stare attenti ai bilanci perché per loro il vino è prima di tutto espressione di passione; ha un fascino assoluto su chi lo fa e su chi lo consuma: il vino è un attrattore di massa. Che si chiamino Vespa, D’Alema, Sting, Cucinelli per dirne alcuni: tutti subiscono il fascino del vino. La cosa stupefacente è vederli camminare tra le loro vigne: il gesto agricolo restituisce loro la dimensione di persona e smettono di essere personaggi. Perché il vero Vip è il vino».
«It – Welcome to Derry» (Sky)
Lo scrittore elogia il prequel dei film It, in arrivo su Sky il 27 ottobre. Ambientata nel 1962, la serie dei fratelli Muschietti esplora le origini del terrore a Derry, tra paranoia, paura collettiva e l’ombra del pagliaccio Bob Gray.
Keir Starmer ed Emmanuel Macron (Getty Images)