2025-04-13
«Io, né Robin Hood né Che Guevara. Non denuncerò mai i miei compagni»
Morta ieri Graziano Mesina, la leggendaria primula rossa del banditismo sardo. Pubblichiamo l’intervista rilasciata a Maurizio Belpietro in cui Grazianeddu ricordava la sua vita: amori, travestimenti, offerte per diventare un guerrigliero.La svolta nella sua vita credo che cominci con l’omicidio di Pietrino Crasta, un agricoltore ucciso nel pascolo della vostra famiglia. «Vorrei lasciare a parte quest’argomento».Ma è vero che ci fu un omicidio in cui furono incolpati i suoi fratelli? «È vero».E poi furono assolti. Ma da lì nascono tante cose. Lei, però, in una lettera dal carcere, quando era stato ucciso suo fratello, suo fratello Nicola se non sbaglio, dopo che era già stato ucciso suo fratello Giovanni, scrive a sua madre dicendo: «Sappi, mamma, che i veri colpevoli della morte di Nicola e di Giovanni sono i signori della giustizia, se così si possono chiamare, perché giustizia non ne hanno mai saputa fare. Hanno sempre fatto ingiustizia ed è con la loro ingiustizia che ci hanno portato ad ammazzarci fra noi poveracci». «Sì…».Quindi lei è convinto di questo? «Sono sicuro. Ci hanno messi l’uno contro l’altro; hanno messo le persone del nostro paese una contro l’altra».Tutta questa storia, insomma, cambia la sua vita. «Ha cambiato radicalmente la mia vita».Perché tutta questa vicenda porta a una cosa: ci fu una sparatoria e fu ferita una persona in un bar e lei venne accusato. «Mi hanno accusato e mi hanno anche condannato ma io quel fatto non l’ho compiuto».Lei per quanti anni venne condannato? «Sedici anni. Quando sono evaso dall’ospedale, quest’uomo l’ho rivisto tante volte. Se fossi stato io a sparare per primo, gli avrei sparato anche dopo. Un suo fratello e un suo nipote erano con me dentro. Ci vedevamo tutti i giorni, passeggiavamo insieme, ci vedevamo; il fratello l’ho incontrato anche mentre ero latitante. Lui, il ferito, disse che delle persone gli avevano riferito che ero stato io, ma non che mi aveva riconosciuto».Ci sono due vicende, quindi. Prima l’omicidio di quell’agricoltore rapito, Crasta, per cui vengono incolpati i suoi fratelli e poi questa vicenda, per cui lei venne incolpato. Quindi lei dice che furono due ingiustizie? «L’una e l’altra».Però lei, da latitante, torna e uccide un uomo del clan rivale. È giusto? «Senta, ero un ragazzo».Quanti anni aveva? «Avevo 20 anni. Non volevo ucciderlo, non volevo uccidere né lui, né nessuno. Io volevo solo dialogare per capire la verità».Lei viene condannato per questo? «Sì, mi pare a 26 anni».E poi fugge un’altra volta.«Sì».Una volta fuggito, si dedica ai rapimenti. È vero? «Trovandomi in quella condizione di latitante e braccato, avevo bisogno di finanziamenti. Poi, non lo so, c’è un altro fattore: che io ho avuto sempre quella, chiamiamola così, sensibilità di voler aiutare».Con quei soldi aiutava gli altri? «Aiutavo gli altri».È lì, quindi, che si alimenta il suo mito? «Io non sto dicendo che facevo bene con i miei soldi: li prendevo da altri che ce li avevano. Però rischiavo anche la pelle per le persone».Quanti rapimenti fece in quegli anni? «Quelli che ho fatto sono cinque, perché due me li hanno imputati dopo 23 anni, non so per quale motivo. Non ho partecipato a quei sequestri».Sa cosa scriveva un giornale francese in quegli anni, L’Aurore? «In Sardegna non comandava lo Stato ma l’Aga Khan e Graziano Mesina». Era ormai diventato famosissimo con queste fughe. «Sull’Aga Khan, ci siamo. Ma Graziano Mesina non ha mai comandato».Però lei si faceva beffe dello Stato. «Ma no».Però io ricordo un appello a Saragat in cui disse: «Mi dia il condono completo e io vado in Alto Adige». «Ma non l’ho fatta neanche io quella battuta lì. L’ha fatta un incappucciato durante un’intervista alla Domenica del Corriere».E non era lei? «No, io ero così, a viso scoperto».Lei, però, in quegli anni scrisse addirittura una lettera di auguri a un giornale locale, La Nuova Sardegna, in cui diceva al direttore: «Sono venuto a sapere che alcuni miserabili hanno eseguito o tentato estorsioni usando il mio nome. Invito tutti quelli che hanno ricevuto queste lettere a farmelo sapere. Io non ho scritto a nessuno e invito a non pagare nemmeno un centesimo. Mi assumo le mie responsabilità ma non voglio che si commettano delitti in mio nome. Ringrazio e invio auguri di Natale a tutti». A qualcuno sembrò una presa in giro... «Ma era una cosa che mi toccava in prima persona. Scusi un po’: io sono ricercato ma so a chi chiedere i soldi o a chi non chiederli».Ma lei si sentiva un eroe in quegli anni? «No, non mi sentivo un eroe. Mi sentivo messo in mezzo da altri».Ma si sentiva un mito? «Nemmeno».La gente scriveva «Graziano, resisti!», «Viva Graziano». Si ricorda queste cose? «Non mi sono mai sentito un mito».Né un eroe; né un Robin Hood, come qualcuno la voleva far passare. Un Che Guevara della Sardegna, si disse. «Non volevo diventare né Robin Hood, né altro. Vi ripeto: rischiavo la pelle in prima persona per poter avere dei soldi e sapevo a cosa andavo incontro; era una scelta mia. Però non volevo che gli altri approfittassero per chiedere soldi a nome mio. Ecco perché ho scritto quella lettera: per invitare a non pagare».«Donne ne ha avute molte», dice sua sorella. «Non è che ho avuto tanto tempo per averne molte, ma un po’ ne ho avute; non posso negarlo».E come faceva da latitante? «Ero un tipo che quando si trattava di correre rischi così, li correvo; non andavo tanto per il sottile».Qualcuno dice che si travestiva da frate, da prete; addirittura da donna per sfuggire. È vero? «Guardi posso raccontare una storia che non è una barzelletta. Una volta che ho deciso di travestirmi da donna per passare inosservato, ho corso il rischio di essere abbordato».Oggi cosa si sente: un sopravvissuto, un simbolo o una vittima? «Una persona strumentalizzata».In che senso? «Sul mio passato. Magari si è esagerato. Bisogna chiederlo a chi ha fatto nascere questo alone».Cioè lei pensa di essere stato vittima di questo personaggio? «Credo di sì.» Vittima di chi, dei giornali? «Vittima tra virgolette; qualche cosa di vero c’è».Quanti omicidi ha commesso? «Uno».Lei non è pentito? «Se si parla di pentimento di coscienza, può darsi. Ma non ci sono altri tipi di pentimenti, perché sapevo benissimo a cosa andavo incontro, cosa sarebbe successo. Sono scelte forzate e dolorose che nella vita si fanno».Lei è fuggito sei volte, è evaso dal carcere, addirittura è fuggito dal treno. Ma chi la aiutava? «Nessuno».Durante la sua latitanza nel 1968, Feltrinelli, l’editore guerrigliero chiese di incontrarla. È vero o no? «No».Lei lo ha mai visto? «No. Pensano che io l’abbia incontrato, che si stava progettando qualcosa. Io ho solo risposto: incontri ne sono avvenuti, ma non dico con chi».Volevano farla diventare una sorta di guerrigliero della Sardegna? «No. Avevano delle basi di verità questi incontri. Però non le posso dire con chi mi incontravo».È vero che le rispose «Io mi chiamo Graziano e non Salvatore», intendendo Giuliano? «Non è vero. Io ho risposto semplicemente, quando mi hanno detto di cosa si trattava e a cosa miravano, che non ero un tipo da poter usare».Da guerriglia. «Avevano sbagliato il soggetto».Ma a cosa miravano? «Non posso rispondere».A creare un partito-guerriglia? «Non le posso rispondere».Non stiamo facendo nomi. «Le posso dire solo questo: non erano cose condivisibili e avrebbero fatto più male che bene al popolo sardo».Vi offrirono armi e denaro? «Tante cose offrirono. Comunque, non era accettabile, almeno da parte mia. Ho detto: cercatevene altri».Lei ha passato due terzi della sua vita in carcere. Ne valeva la pena? «In carcere non ne vale la pena per nessuno».Non ha rimpianti? «No, perché è una scelta, le ripeto: quando la si fa bisogna affrontarla così come è, fino in fondo. Devo dire questo: in carcere non si sta bene, non piace a nessuno il carcere. Però...».Lei non si sarebbe pentito mai? «No».Non ha mai denunciato i suoi complici? «No e non lo farò mai».
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Piergiorgio Odifreddi (Getty Images)