2024-10-14
«La Ue mi sanziona senza fare indagini»
Parla l’ex ministro serbo Bogoljub Karic, che fu il primo capitalista jugoslavo («Tito fece una deroga»): «Giornalisti accusano di fare affari con Lukashenko ma la mia famiglia non è coinvolta in procedimenti. È questo lo stato di diritto?».Da primo capitalista della Yugoslavia a imprenditore finito sotto il maglio delle sanzioni Ue con l’accusa (al momento solo giornalistica) di fare affari in Bielorussia il passo è breve. O meglio, sono passati 40 anni ma raccontati nell’arco di un pomeriggio sembra un battito di ciglia. Bogoljub Karic, 70 anni compiuti, ci accoglie nella sua casa di Belgrado. Al suo fianco la moglie, i tre figli e i nipoti. E un album dei ricordi che fa invidia ai grandi conoscitori della cortina di ferro. Alti e bassi. Dalla provincia kosovara di Pec fino a essere re dell’immobiliare in Paesi come la Germania. Una società di telecomunicazioni, un gruppo di media, una università, un periodo da ministro. In mezzo, puntate affacciate su episodi che hanno segnato la storia dell’Europa.Come è nata la sua carriera di imprenditore?«All’inizio degli anni Settanta Josip Tito organizzò una visita ufficiale a Pec. Città di origine della mia famiglia. I miei nonni sono stati dei pilastri della comunità religiosa ortodossa. Io e i miei fratelli ci eravamo organizzati con delle piccole attività artigianali. Riparazione di apparecchi radio, calcolatrici. All’epoca non era permessa la libera imprenditoria e tutti erano dipendenti dello Stato. Salvo la possibilità di sviluppare piccole realtà con al massimo 5 dipendenti. Avevamo però tutti assieme una grande passione: la musica. Infatti suonavamo. Già dalla fine degli anni Sessanta. Ci piacevano i Beatles e Jimi Hendrix. Così i vertici del governo ci chiamarono per organizzare un comitato di benvenuto a Tito. Uno dei fratelli si occupava anche del servizio fotografico. Evidentemente la cosa colpì il presidente che dopo un po’ di mesi ci chiamò a Belgrado»,Un articolo degli anni Ottanta pubblicato dal «The Times» la definisce il primo capitalista della Yugoslavia. Dal riparare apparecchi a diventare imprenditore c’è una bella differenza. Sarà successo qualcosa in mezzo?«Inizialmente creammo quella che oggi sarebbe definita una rete di imprese. Ognuno di noi fratelli (in tutto cinque, ndr) assunse 5 dipendenti. Arrivammo così a gestire una rete di 25 persone. Ma il salto ci fu consentito solo dopo che Tito emise una nota con tanto di deroga. Solo per noi. Arrivammo in poco tempo a 100 dipendenti. Allargandoci anche al settore agricolo e dei macchinari in generale. Solo più tardi capimmo che reinvestendo i soldi ci era possibile entrare nel settore delle costruzioni». Però il salto lo fate grazie alla Glasnost di Gorbacev?«Beh sì. In realtà i contatti con la Russia nascono all’inizio degli anni Ottanta, quando una delegazione di 8 deputati del partito comunista sovietico organizzarono una visita ufficiale in Yugoslavia. I rapporti tra i due Stati erano cambiati. Diciamo si erano decisamente ammorbiditi. La visita andò bene tanto che tornando a casa segnalarono la nostra realtà come esempio di impresa non contraria al comunismo».Ma come è arrivato a Mosca?«Abbiamo ricevuto l’invito del premier Nikolaj Ryzkov. Andammo a Mosca, c’era anche mio fratello Dragan. E viene organizzata una visita al mausoleo di Lenin. Una visita solo per noi con il premier e il suo staff. Un certo punto visitammo anche l’ufficio che fu di Lenin e sono stato fatto accomodare sulla sedia del primo presidente. Ryzkov invitando i fotografi a scattare foto disse: “Ecco il primo capitalista seduto sulla sedia di Lenin”. Diciamo che lo staff non si sperticò negli applausi».E poi però avete aperto il primo sistema di panetterie di quartiere.«Anche qui è tutta una storia nella storia. Il premier mi chiese di pensare al modo di replicare il sistema utilizzato a Belgrado e mi sollecitò un’iniziativa nel settore lattiero caseario. Io però avevo avuto qualche giorno libero e passeggiando per le strade di Mosca mi ero reso conto che la propaganda aveva avuto un gran successo nel descrivere l’Urss come un paradiso. La realtà era diversa. Code chilometriche per comprare il pane. Così io proposi di installare una fabbrica per produrre dei kit replicabili per panetterie di quartiere. La risposta? “Niet”. No, perché mi venne detto che le code non esistevano e tutti avevano il pane. Così tornammo a Belgrado».E poi?«Sono stato richiamato e mi dissero di procedere. Non so che è successo. Secondo me erano già i venti della Perestroika. Fatto sta che investimmo e iniziammo a produrre i kit. Il problema era però un altro. La gente non aveva soldi per acquistarli. Così, abbiamo ottenuto la possibilità che una banca locale elargisse dei mini crediti. E via, siamo partiti. Da lì siamo arrivati a creare un joint venture per una fabbrica di infissi e costruzioni. E siamo pure stati sul punto di creare un incidente diplomatico per via dell’acqua santa».È un modo di dire o un codice? «No, letteralmente l’acqua santa. La mia famiglia ha sempre fatto affidamento a Dio. Nessuna nostra attività parte senza la benedizione di un sacerdote. Così doveva essere in Urss. Solo che lì era un problema non da poco. Saputo che non avevamo il permesso mi rifiutai di dare il via all’inaugurazione. E mancavano solo 24 ore. Così dopo lunga trattativa, il ministro – non mi ricordo quale fosse – acconsentì ma senza stampa né fotografi. Ok bene. L’indomani si presentarono 20 sacerdoti. Che evidentemente non vedevano l’ora di benedire qualcosa. Ricordo il gelo della delegazione russa».Come finì?«Con la vodka. La distribuimmo a tutti. E dopo il quarto giro aprimmo i battenti».Mi dice che è quasi astemio, però la vodka e la rakja hanno avuto un ruolo importante nella storia della sua famiglia e nella sua in particolare. Non fu così che festeggiò la liberazione dei tre soldati americani tenuti in ostaggio da Slobodan Milosevic?«Mi fa un salto di oltre un decennio. Però è vero che è andata così. Era il 1999 la guerra era in corso e mi ero dimesso dall’incarico di ministro per le partecipazioni statali. Incarico che mi era stato affidato da Milosevic stesso. Ero convinto che il rilascio dei tre soldati fosse indispensabile per creare un canale di rapporti da utilizzare quando la guerra sarebbe terminata. Contattai un senatore americano la cui famiglia era originaria della mia terra, Rod Blagojevich».Beh non uno sconosciuto.. governatore dell’Illinois poi con qualche grana giudiziaria.«Dicevo che fu lui a mettermi in contatto con il reverendo Jesse Jackson. Organizzammo la visita (non ufficiale). Assieme a lui due dozzine di sacerdoti e pastori. Milosevic, ateo conclamato, non volle sapere di incontrarli. Così la sera tutti a cena in albergo fu una preghiera che rischiava di cadere nella disperazione. Ma io non accettai il no. Presi il microfono e dissi che da uomini di fede quali erano non accettavo la rassegnazione. Nel frattempo andai in un’altra stanza e chiamai Milosevic a casa. Era sera tardi. Il presidente si rifiutò di parlarmi, ma la moglie prese la telefonata. La faccio breve…. Dissi di pensare ai suoi figli in un carcere militare straniero e di farlo per quelle tre famiglie. Il giorno dopo fu autorizzato il rilascio. E dopo bevemmo tutti per festeggiare». La fa come una cosa semplice…«No, la vita è fatta di relazioni e di fede. Non solo di soldi. Mi ero impegnato anche a tenere i rapporti con l’Italia. Tramite un amico italiano che lavorava in Serbia organizzammo una serie di incontri riservati per organizzare una visita ufficial tra il Papa e il Patriarca Aleksey. Il mediatore era il vostro ministro degli esteri, Gianni De Michelis».Torniamo all’Urss. Da quella fabbrica ha poi creato un impero dell’immobiliare. E come siete finiti sotto sanzioni da parte dell’Unione europea?«Per rispondere alla sua domanda. Come? Dobbiamo guardare al tema di fondo. L’approccio dell’Ue al cosiddetto rule of law. Come è possibile che un gruppo imprenditoriale e una famiglia finiscano sotto sanzioni senza evidenze giudiziarie. Abbiamo letto inchieste giornalistiche. Stop. Così ci si trova a difendere contro accuse vaghe e indistinte che non sono nemmeno sfociate in un procedimento legale. Inoltre, ci sono strane coincidenze. Alcuni soggetti che si sono identificati come rappresentanti dell’opposizione bielorussa hanno sollecitato tangenti a diverse società. Pagare per non finire sotto sanzione. E poi, guarda caso, chi ha rifiutato si è scoperto nella balcklist». Ora non può più avere alcun rapporto con l’Ue.«La mia famiglia ha dovuto bloccare tutti i progetti».Quali?«Gliene cito uno solo in Germania. Un progetto da 6 milioni di metri cubi che avrebbe dato lavoro a 8.000 persone tra diretti e indotto. La realtà è che così facendo l’Europa perde soldi e impieghi. Chi ha la possibilità va a fare affari in Asia o in altre realtà. Ma non è solo un tema di denaro. L’Europa sta facendo fuggire anche chi ha iniziativa».Si però dimentica un dettaglio non da poco. È in corso una guerra. Ed è stata la Russia a invadere l’Ucraina.«Una guerra che continua, lo so bene. E la Russia ha aggredito l’Ucraina. Dal mio punto di vista però questo è un altro tema. Perché questa guerra deve finire e tocca a Putin e al presidente Usa trovare una soluzione. Dovrebbero avviare subito un tavolo di negoziati, senza il quale la guerra dilaga alle varie latitudini. Si dice sempre che al tempo di Trump non ci sono state guerre. E questo dipende dal fatto che esistevano rapporti interpersonali. Sfortunatamente, sembra che nessuno abbia imparato nulla dalla tremenda esperienza della guerra civile yugoslava».Quindi che fare?«Putin dovrebbe sedersi al tavolo. Io ho sempre fatto affari. Gli affari servono a costruire ponti. La guerra li abbatte. Usa e Russia dovrebbero tornare a fare affari assieme».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)