2022-06-23
«Insieme per il futuro». Sempre in poltrona
Il partito di Luigi Di Maio nasce con un’unica motivazione: scampare allo stop dopo il secondo mandato imposto dallo statuto grillino. Il nome è uno slogan cui bisognerebbe aggiungere «assicurarci». Ma le scissioni nel nostro Paese non hanno mai avuto fortuna.Il problema principale non è l’Ucraina. E nemmeno la Russia o le armi che si vogliono donare a Kiev affinché continui a resistere all’avanzata delle truppe di Putin. Non c’entrano neppure la Nato, le questioni energetiche, il petrolio o il grano, ossia le questioni che in queste settimane stanno tenendo banco nelle aperture dei tg serali. No, non lasciatevi ingannare dalle dotte argomentazioni che traboccano dalle prime pagine dei grandi giornali: alla base di quello che sta succedendo nei 5 stelle c’è solo la faccenda dei due mandati. La fine della legislatura si avvicina e con essa anche la data di scadenza per molti parlamentari grillini, i quali non solo rischiano di non essere rieletti perché i consensi del Movimento si sono dimezzati rispetto al 2018 e perché è ridotto di un terzo il numero dei parlamentari, ma a cancellare la possibilità di un ritorno a Montecitorio o a Palazzo Madama è il vincolo dello statuto grillino che impone solo due mandati. Uno come Luigino Di Maio, che fino a ieri era considerato il bibitaro e oggi all’improvviso è stato trasformato in statista, senza una deroga alla regola che impedisce una terza candidatura, a maggio del prossimo anno avrebbe dovuto cercarsi un lavoro, e con lui molti altri. Sì, i due mandati sono uno spartiacque, da un prima con una carriera politica garantita e relativo stipendio. A un dopo dove la carriera e lo stipendio sono soltanto un ricordo. Così, se fino a ieri lo slogan grillino era uno vale uno, adesso uno, se eletto in Parlamento, vale 14.000, ossia gli euro che incassa mensilmente un onorevole.A dire il vero, il problema dello stop dopo il secondo mandato non ce l’hanno solo Luigino Di Maio e compagni, ma abbraccia una serie di personaggi ai quali a quanto pare il ministro degli Esteri pare rivolgersi con il suo nuovo partito. Insieme per il futuro è uno slogan, ma anche un programma politico e personale. Resta tuttavia da chiarire se il futuro in questione sia quello del Paese o quello delle persone che del nuovo schieramento fanno o faranno parte. Le cronache riferiscono che i fuoriusciti grillini guardino con favore a un’alleanza con Beppe Sala, sindaco di Milano, Dario Nardella e Federico Pizzarotti, il primo sindaco di Firenze e il secondo di Parma. Quest’ultimo venne eletto nella lista dei 5 stelle con la promessa di non fare l’inceneritore, ma appena insediatosi cambiò idea, uscendo dal Movimento per poi dare vita a una propria lista. Fra una settimana Pizzarotti dovrà lasciare, perché i sindaci hanno diritto solo a due mandati e per lui si porrà il dilemma: tornare al vecchio lavoro di impiegato o prepararsi per le politiche del prossimo anno. Inutile dire che la scelta cadrà sulla seconda che abbiamo elencato. A Nardella rimane più tempo, ma siccome venne riconfermato nel 2019, fra un paio di primavere toccherà anche a lui mettersi «insieme per il futuro». Stesso dilemma, sebbene spostato un po’ più in avanti, per Beppe Sala. Quando il secondo mandato arriverà a scadenza, che fare? Ricominciare a 68 anni una carriera di manager è complicato, meglio continuare quella di politico, possibilmente senza fatica.Qualcuno ha ironizzato, definendo banale il nome scelto da Di Maio per il suo nuovo partito. Ma io invece lo trovo appropriato: a Insieme per il futuro semmai aggiungerei un «assicurarci» e magari anche una precisazione sul terzo mandato, perché questo sarebbe il solo collante che unirebbe grillini pentiti, tiepidi democratici ed ex manager riconvertiti non al grillismo, ma al gretinismo urbano. Non so se il gruppo del doppio mandato arriverà a raddoppiare i voti anche se oggi, secondo Carlo Calenda, uno che dovrebbe far parte della partita, i candidati alla ricerca di un posto potrebbero arrivare fino al 25 per cento. Tuttavia, conosco abbastanza bene la storia delle scissioni in Parlamento e so che quasi mai sono andate lontano. La più vecchia, quella del Psiup, formazione che nacque da una costola del Psi, si sciolse dopo risultati altalenanti. Quella di Democrazia nazionale, costituita con il beneplacito di Giulio Andreotti, durò qualche anno, ma poi i suoi aderenti gettarono la spugna. Non andò meglio ad altri: quando Cossutta si staccò da Bertinotti per sostenere il governo Prodi, gli elettori si staccarono da lui; per non parlare poi dell’Udeur di Francesco Cossiga e Clemente Mastella o del Nuovo centrodestra tenuto a battesimo da Angelino Alfano. In pochi anni sono apparsi e scomparsi. Proprio come Leu e Italia viva, il primo caro a Massimo D’Alema e il secondo a Matteo Renzi, ma nessuno dei due caro agli elettori, tanto che entrambi, più che essere vivi, come promette il nome del partitino dell’ex rottamatore, vivacchiano. Al destino degli scissionisti si sottrae un solo leader, ossia Giorgia Meloni, che uscita dal Popolo della libertà ha quintuplicato i voti. Ma è Giorgia, una donna, una madre, per giunta cristiana. Niente a che vedere con Di Maio, che con De Gasperi ha in comune solo la D, e invece che alla legge truffa pensa a farsi una legge che gli assicuri il terzo mandato.