2022-02-18
In Ucraina gli Usa giocano la carta Draghi
Luigi di Maio con Sergej Lavrov (Ansa)
Dopo gli inutili interventi dei vari leader europei, gli Stati Uniti spingono il nostro presidente a recarsi in Russia per negoziare una soluzione diplomatica alla crisi. Bombe su un villaggio nel Donbass, con reciprochi scambi di accuse tra Kiev e i separatisti.Via i contingenti militari francesi dal Mali, finito ora nelle mire di Mosca e Pechino.Lo speciale contiene due articoli.È tornata a salire pericolosamente la tensione in Donbass. I separatisti filorussi dell’autoproclamata repubblica popolare di Lugansk hanno affermato ieri di essere stati bombardati dalle forze ucraine: la notizia, ampiamente diffusa dai media statali russi, è stata tuttavia smentita da Kiev, secondo cui sarebbero stati i separatisti ad attaccare in realtà il villaggio di Stanytsia Luhanska nell’Ucraina orientale, prendendo di mira un asilo. «Chiediamo a tutti i partner di condannare rapidamente questa grave violazione degli accordi di Minsk da parte della Russia in una situazione di sicurezza già tesa», ha detto il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba. Da parte occidentale, si teme che quanto sta accadendo possa essere utilizzato da Mosca come pretesto per una manovra militare. Ricordiamo che, nei giorni scorsi, l’intelligence statunitense aveva accusato i russi di voler «fabbricare» un apposito casus belli per procedere all’invasione: una preoccupazione, rilanciata ieri dal segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, dal capo del Pentagono Lloyd Austin e dal premier britannico, Boris Johnson. In quest’ottica, il Cremlino potrebbe aver creato un pretesto, per muoversi - come già accaduto in passato - sulla base della cosiddetta «dottrina Karaganov», in virtù della quale Mosca si riserva la facoltà di intervenire militarmente quando ritiene che i diritti dei russi residenti nello spazio ex sovietico siano minacciati. Va anche rammentato che, appena pochi giorni fa, il Cremlino ha messo nel cassetto una mozione della Duma che, introdotta originariamente dal Partito comunista russo, chiedeva a Vladimir Putin di riconoscere formalmente le repubbliche separatiste del Donbass. Nell’occasione, il governo russo aveva sottolineato di volersi attenere agli accordi di Minsk. È in questa situazione aggrovigliata che si è tenuto ieri l’incontro a Mosca tra il nostro ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e l’omologo russo, Sergej Lavrov. I due hanno discusso anche per mettere a punto il viaggio che il premier, Mario Draghi, effettuerà nella capitale russa «nei prossimi giorni». Ora, è improbabile che, prima di acconsentire a questa visita, Draghi non si sia coordinato con Joe Biden. È quindi verosimile ritenere che la Casa Bianca veda nel nostro premier un punto di riferimento in Europa, per cercare di disinnescare la crisi ucraina. Va del resto sottolineato che il presidente statunitense guardi con diffidenza sia a Emmanuel Macron (per i suoi velleitarismi di fatto ostili alla Nato) sia a Olaf Scholz (per la sua eccessiva ambiguità a causa del gasdotto Nord Stream 2). Biden considera Draghi il leader europeo più affidabile proprio per le sue credenziali atlantiste. Ed è per questo che punta su di lui nella crisi ucraina. D’altro canto, se riuscisse ad acquisire un ruolo centrale in questa vicenda, non è escluso che il premier punterà a rilanciare la propria immagine internazionale, distanziandosi dalle beghe di politica interna e guardando magari a qualche incarico europeo di peso nel prossimo futuro. L’Italia potrebbe comunque avere un’ottima occasione per giocare un ruolo centrale in questa crisi. Tornando all’incontro di ieri, Lavrov ha subordinato ogni possibile accordo con l’Occidente allo stop dell’espansione della Nato a Est, esortando Di Maio a non appoggiare eventuali sanzioni occidentali. Un Di Maio che, dal canto suo, si è detto fautore di una soluzione diplomatica, definendo inoltre «imprescindibile» il dialogo con la Russia. Certo è che Draghi si appresta a recarsi nella capitale russa in una situazione turbolenta, in cui la tensione diplomatica sta significativamente aumentando. Mosca ha espulso il vice ambasciatore statunitense in Russia, Bartle Gorman, con Washington che ha ventilato ritorsioni. Inoltre, nonostante il Cremlino abbia ribadito di aver avviato il ritiro delle proprie truppe dai confini ucraini, Austin ha sostenuto che Mosca starebbe in realtà continuando ad ammassare soldati, mentre l’ambasciatrice americana all’Onu, Linda Thomas-Greenfield, ha paventato una «invasione imminente». «La mia sensazione è che [l’invasione] avrà luogo entro i prossimi giorni», ha rincarato la dose Biden, irritando il Cremlino. Sempre ieri, il ministero degli Esteri russo ha accusato Washington di aver «ignorato» le richieste di sicurezza avanzate di recente da Mosca agli Stati Uniti e ha ammonito che «la Russia sarà costretta a rispondere, anche attuando misure di natura tecnico-militare». Scintille si sono registrate infine al consiglio di sicurezza dell’Onu, in cui è intervenuto il segretario di Stato americano, Tony Blinken. «La Russia», ha detto, «ha in programma di fabbricare un pretesto per il suo attacco. Non sappiamo esattamente che forma assumerà». «Sono qui oggi non per iniziare una guerra, ma per prevenirne una», ha aggiunto. La missione diplomatica che attende Draghi non è affatto in discesa. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/in-ucraina-gli-usa-giocano-la-carta-draghi-2656722270.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ennesimo-fallimento-per-macron-la-francia-annuncia-il-ritiro-dal-mali" data-post-id="2656722270" data-published-at="1645195659" data-use-pagination="False"> Ennesimo fallimento per Macron. La Francia annuncia il ritiro dal Mali La Francia, i suoi partner europei, tra cui figura l’Italia, e il Canada hanno confermato ieri che ritireranno i propri contingenti militari dal Mali dove, dal 2013, si stanno svolgendo le operazioni Barkhane e Takuba, volte a combattere il terrorismo islamico. Le modalità della partenza saranno concordate entro la fine di giugno, come dichiarato dal presidente dell’Eurogruppo Charles Michel. Ufficialmente, il ritiro è dovuto al fatto che non ci sono più le «condizioni politiche, operative e legali» nelle quali si svolgono le operazioni. Ma in gioco ci sono anche i rapporti tra Parigi e Bamako peggiorati rapidamente dopo il secondo colpo di Stato che ha interessato il Mali nel giro di due anni. A questo proposito, durante una conferenza stampa tenutasi ieri a Parigi, Emmanuel Macron ha dichiarato che «la lotta al terrorismo non può giustificare tutto» e che il fatto che tale impegno abbia «una priorità assoluta» non può diventare «un esercizio di mantenimento del potere a tempo indeterminato». Analizzando la situazione, però, si potrebbe pensare che i putsch in Mali non siano la sola ragione della decisione di Parigi e delle altre capitali sue alleate. Da quando i Paesi dell’Africa subsahariana e francofona hanno ottenuto la propria indipendenza da Parigi, negli anni ’60 e ’70, i governi e i presidenti francesi hanno chiuso più di un occhio. Così, per decenni, dei dittatori hanno gestito indisturbati i propri affari più o meno leciti, con la benedizione di Parigi. Ora la Francia sembra essere costretta a guardare in faccia alla realtà nonostante, ieri, Macron abbia rifiutato di definire l’impegno militare transalpino in Mali, come un «fallimento». Sarà. Ma dal 2013 a oggi, le forze armate francesi hanno dovuto contare 53 caduti. Inoltre, lo scorso dicembre, la giunta al potere in Mali ha accolto l’arrivo dei mercenari della società paramilitare russa Wagner. L’iniziativa era stata condannata da Parigi e dai suoi alleati, gli stessi che guardavano con apprensione agli sviluppi della crisi ucraina. Già perché, se il Mali e l’Ucraina sono distanti migliaia di chilometri, i due Paesi sono accomunati dall’interesse rivolto loro dalla Russia. Volendo essere critici, si potrebbe dire che Kiev e Bamako siano accomunate anche dal gesticolare inconcludente della Francia nei loro confronti. Non va dimenticato anche che dal primo gennaio 2022, Parigi assicura la presidenza semestrale del Consiglio dell’Unione Europea e Macron non ha perso un attimo per presentarsi come «padrone» della Ue. Il problema è che le sue iniziative, sia in Mali che in Russia e Ucraina, sono state degli insuccessi. La partenza dal Mali è diventata per gli europei una ulteriore fonte di apprensione, visto che le vicende di questo Paese (e dei suoi vicini) possono avere un impatto sulla situazione migratoria. Invece la visita a Kiev e, soprattutto, a Mosca di Macron si sono concluse con un buco nell’acqua e non hanno disteso i rapporti tra il Cremlino e i Paesi Ue, alle prese anche con l’impennata dei prezzi del gas (di cui la Russia è uno dei principali produttori) e di altre materie prime. Nonostante ciò, il capo dello Stato francese sta cercando di farsi passare come il «salvatore della patria», francese ed Europea. I community manager del suo partito, hanno diffuso sui social dei post celebrativi. In uno di questi si poteva leggere: «Per settimane, il presidente si è battuto per evitare un’invasione russa dell’Ucraina. Oggi l’esercito di Vladimir Putin arretra. Macron è l’Europa e la pace». A meno di due mesi dalle presidenziali deve presentare come successi tutte le sue iniziative, interne ed estere. Ma difficilmente questo suo attivismo risponderà ai timori dei Paesi Ue.