
Se vuole rimanere in sella, la maggioranza dovrà evitare le trappole dell'Aula: dal decreto Sicurezza bis alla sfiducia contro Matteo Salvini, dalla riforma costituzionale alla flat tax. Altrimenti il Colle ne costruirà un'altra.Un oggettivo trappolone (cioè la cosiddetta «parlamentarizzazione» di un'eventuale crisi), quattro mine che potrebbero causare l'esplosione fatale, e il campo minato per antonomasia (ovvero il M5S, dove nessuno ha più il pieno comando delle operazioni): ecco i nodi da esaminare in questa complicata fase politica. La prima questione, se si fosse nei cieli della teoria, sarebbe ineccepibile: se c'è una crisi, dovrebbe manifestarsi in Aula, con pubblica e formale assunzione di responsabilità da parte dei protagonisti. Ma, assai lontano dal cielo, siamo invece nella palude di una battaglia politica fangosa: e decenni di storia, già dalla prima Repubblica, ci insegnano che a volte l'evocazione del Parlamento e della sua mitica «centralità» serve solo a cucinare nuovi pasticci, a inventare altri governicchi, a buttare la palla avanti. Tutto, pur di non ridare la parola ai cittadini, o almeno di ritardare il momento del redde rationem elettorale. E questo è il punto da cui partire: perché il premier Giuseppe Conte ha sentito l'esigenza di sottolineare che, nel caso, investirebbe le Camere? In seguito, lui stesso ha precisato che non andrebbe certo a cercare voti per altre maggioranze: ma - di fatto - questo potrebbe accadere. L'altro giorno, anche il presidente Sergio Mattarella ha dato il medesimo input: lo ha fatto in modo morbido e democristiano, evocando le scelte delle «formazioni politiche presenti in Parlamento». Una maniera per far capire che non scioglierebbe immediatamente le Camere, ma vorrebbe un chiarimento parlamentare. Inutile girarci intorno, anche perché questo giornale lo ha già spiegato a più riprese, calendario alla mano: solo sciogliendo le Camere in pochi giorni - se necessario -, ci sarebbe la tempistica per votare a settembre. Se invece iniziasse il ballo (in maschera) di una lunga esplorazione parlamentare, si tratterebbe di un modo per sbarrare definitivamente una finestra elettorale già quasi chiusa. In ogni caso, gli esegeti del Colle, i quirinalisti di più stretta osservanza, spingendosi a interpretare il «non detto» del presidente, hanno già partorito la formula: in caso di «rottura della coalizione», verrebbe insediato, al posto dell'attuale, un «governo di garanzia elettorale«. Ma quale garanzia e garanzia per chi, verrebbe da chiedere? Finché un governo ha la fiducia, può andare avanti. Se non ce l'ha più, può essere quel governo a portare al voto: o forse l'urgenza di qualcuno è quella di rimuovere Matteo Salvini dal Viminale? Senza dire che l'italica fantasia, quando si tratta di trovare il modo per non votare, può produrre mostri di tutti i tipi: governi di transizione, governi per la manovra, governi di decantazione, governi per la legge elettorale, e via rinviando, con una tempistica sempre incerta e ambigua. Chiarito questo, veniamo alle quattro mine che possono innescare una crisi. La prima è il voto al Senato sul decreto Sicurezza bis, che già alla Camera ha visto la defezione di ben 17 grillini (incluso Roberto Fico). Al Senato, dove il margine è strettissimo, basterebbe molto meno per far saltare tutto. Di più: esiste anche la possibilità che venga posta la fiducia: in quel caso, ci sarebbe sia il voto sul provvedimento (che passerebbe, considerando gli apporti esterni alla maggioranza, a partire da Fratelli d'Italia), sia il voto di fiducia, che invece sarebbe tremendamente a rischio (perché Fdi non voterebbe la fiducia a un governo di cui non fa parte).La seconda mina (per le medesime ragioni: il margine risicato al Senato) è la mozione di sfiducia individuale contro Salvini preannunciata dal Pd. Quando sarà calendarizzata, i dissidenti M5s potrebbero cogliere la palla al balzo. La terza mina è rappresentata dalla riforma costituzionale per tagliare deputati e senatori: a maggior ragione pensando alla propria rielezione, alcuni attuali parlamentari potrebbero mettersi di traverso. Sarebbe una decisione impopolarissima: ma non sarebbe il primo caso di scelte disperate per salvare la poltrona. La quarta mina è la più grave: può esplodere in autunno, ma già ieri ci sono state le prime avvisaglie, e riguarda la flat tax. Se qualcuno (al Mef o a Palazzo Chigi) pensasse di depotenziare lo choc fiscale, di renderlo inconsistente, inapprezzabile, impalpabile, si tratterebbe di una provocazione politica che determinerebbe una reazione definitiva da parte di Salvini. Su tutto, infine, aleggia il caos che regna nel M5S. I grillini, il più consistente gruppo parlamentare alla Camera e al Senato, sono balcanizzati: Beppe Grillo è sempre più distaccato, le strategie di Davide Casaleggio non sono chiare, Alessandro Di Battista gioca di tutta evidenza una sua partita, Luigi Di Maio fa sapere di non avere nemmeno la forza di indurre a un passo indietro Danilo Toninelli. Ed è sufficiente farsi un giro in Parlamento per trovare legioni di anime (grilline) in pena, che hanno vinto la lotteria grazie all'elezione del 4 marzo, che poi hanno preso un mutuo in banca, e sarebbero pronte a tutto pur di proseguire. Fare i conti è fin troppo facile: il 33% del 2018 è quasi dimezzato; se poi si considera la tagliola del doppio mandato e la possibile riduzione dei seggi a seguito della riforma costituzionale, i grillini che si sentono con il posto sicuro, in caso di nuove elezioni, non arrivano a 30 alla Camera e a 15 al Senato. Tutti gli altri preferiscono «parlamentarizzare» la crisi: cioè pregano per una qualunque altra maggioranza, pur di non tornare a casa.
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