2019-06-21
In Italia il crollo di figli è da Grande guerra
La recessione demografica fotografata dall'Istat ci riporta al 1917-18: 439.000 nati nel 2018, -140.000 in dieci anni. Il 45% delle donne tra i 18 e i 49 anni non ha messo su famiglia, anche se vorrebbe. Atteso il calo del Pil nel secondo trimestre, ma salgono i posti stabili.Chi è preoccupato da tendenze profonde, purtroppo non facili da invertire, potrà concentrarsi sulla recessione demografica. Chi è interessato ai dati sulla crescita, potrà soffermarsi sul rischio di una contrazione del Pil nel secondo trimestre dell'anno. Chi invece è in cerca (senza esaltarsi in modo insensato) di segnali positivi, potrà dedicarsi ai dati interessanti, e per certi versi sorprendenti, relativi a lavoro e occupazione. Sono questi i tre capitoli principali del Rapporto annuale Istat. Sul primo versante il neopresidente, Gian Carlo Blangiardo, ha usato parole di vero allarme: ha definito «significativa» la recessione demografica che sta colpendo l'Italia dal 2015, e ha evocato «un calo numerico di cui si ha memoria nella storia d'Italia solo risalendo al lontano biennio 1917-1918, un'epoca segnata dalla Grande guerra e dai successivi drammatici effetti dell'epidemia di “spagnola"». Ecco un passaggio del Rapporto: «Secondo i dati provvisori relativi al 2018, sono stati iscritti in anagrafe per nascita oltre 439.000 bambini, quasi 140.000 in meno rispetto al 2008». A conferma di questo, il 45% delle donne tra i 18 e i 49 anni (in questo caso i dati si fermano al 2016) non ha ancora avuto figli. Eppure chi dichiara di non volere figli come consapevole e deliberato progetto di vita è meno del 5%. Dunque, più che una scelta a priori, è l'incertezza economica a pesare in modo decisivo. La pensa così anche Matteo Salvini: «Ringraziamo il presidente Blangiardo perché rende noto a tutti quello che denunciamo da tempo. La prima grande crisi è quella demografica: a Bruxelles lo sappiano. Taglieremo le tasse a lavoratori e famiglie a prescindere dal parere di qualche burocrate. Il futuro dei nostri figli viene prima di ogni vincolo deciso a tavolino». Sul secondo versante, quello della crescita, l'Istat è cautissima: c'è il rischio che il Pil torni a calare. L'Istituto ha infatti presentato una nuova stima, secondo cui «la probabilità di contrazione del Pil nel secondo trimestre è relativamente elevata». Resta tuttavia intatta la previsione dell'Istat sull'anno, in linea con quella recentemente prodotta anche da Bankitalia: si attende una crescita allo 0,3%, in decelerazione rispetto all'anno precedente. E però, per capire meglio, il dato va scomposto e sezionato. Un segnale positivo, pur modesto, viene dalla domanda interna e, in particolare, dai consumi privati. A pesare in modo negativo è invece la decelerazione dell'export, legata a fattori internazionali. Inutile girarci intorno: la crisi tedesca (solo ad aprile, un drammatico -2,5% della produzione industriale in Germania) fa sentire anche qui i suoi riverberi. I modelli «export led», cioè particolarmente basati sulle esportazioni, si confermano esposti a choc esterni: più che mai, dunque, in Italia urge un alleggerimento fiscale che dia ossigeno ai consumi e alla domanda interna.Quanto invece al terzo versante, quello del lavoro, si intravvedono segnali positivi. Nel 2018 gli occupati hanno raggiunto il livello più elevato da dieci anni, addirittura scavalcando di 125.000 unità il risultato del 2008. Una conferma giunge dal tasso di occupazione della popolazione compresa tra i 15 e i 64 anni, che arriva al 58,5% e si avvicina ai dati del 2008. Continuano a ridursi i disoccupati (151.000 in meno nel 2018), che sono tuttavia oltre 1 milione in più di quelli del 2008. Il tasso di disoccupazione è al 10,6%, quasi 4 punti sopra quello di dieci anni fa (nel 2008 era il 6,7%). Come si vede, il cammino di uscita da questo decennio nero dell'economia italiana è ancora lento e lungo. All'interno di dati sull'occupazione complessivamente incoraggianti, occorre però fare attenzione alle notevolissime differenze territoriali. Il Centronord, con 384.000 occupati in più rispetto al 2008 (pari al +2,3%) ha non solo recuperato ma addirittura guadagnato terreno, mentre nel Mezzogiorno l'obiettivo è ancora molto lontano (-260.000, -4%). Ma di che tipo di lavori si tratta? E che effetto sta producendo il cosiddetto decreto Dignità? In questo caso i dati riguardano il primo trimestre 2019, e vengono dalla nota trimestrale sulle tendenze dell'occupazione pubblicata congiuntamente da Istat, ministero, Inps, Inail. E la tendenza è inequivocabile: rispetto al trimestre precedente, si sono registrate 207.000 posizioni a tempo indeterminato in più, e 69.000 a tempo determinato in meno. Si conferma dunque quanto circa un mese fa era stato sottolineato dall'Osservatorio Inps sul precariato, con una variazione netta dei contratti stabili (cioè la somma di nuove assunzioni e trasformazioni in contratti stabili, detratte le cessazioni dei rapporti di lavoro) positiva per oltre 241.000 contratti, ben il +126,3% rispetto ai primi tre mesi del 2018. Più persone con un lavoro, più persone con un lavoro stabile. E questo non può che riflettersi positivamente sui consumi, sulla domanda interna, sulle decisioni di spesa di singoli e famiglie. È un buon inizio. La flat tax può fare il resto.