2020-02-29
In Friuli alla ricerca del maiale perduto
La vita del nero di Fagagna non è stata facile. Di taglia piccola e maturazione tardiva, non era reputato economicamente conveniente. È scomparso nel 1976. Ma c'è chi ha fatto rinascere la leggenda del verro «ferito» con il sogno di farlo diventare il Patanegra italiano.In questo percorso alla ricerca del maiale perduto (e spesso ritrovato, con successo) ogni regione ha dimostrato di avere molte storie da raccontare. Non poteva essere da meno Venezia. Il suo stesso patrono, San Marco, morto martire ad Alessandria d'Egitto, vide le sue spoglie portate in Laguna grazie a due marinai che le nascosero sotto un carico di carne di maiale, così da eludere i controlli delle milizie locali. Già nel 1300, nei dintorni di Rialto, la Corporazione dei Luganegheri (in pratica i macellai odierni) era tra le più potenti a dettare le regole del mercato, tanto da acquistare un terreno alle zattere, con vista Canal Grande, per far pascolare i maiali prima della loro macellazione, poiché era proibito l'allevamento in città. Il Veneto non può vantare, come molte altre regioni, delle razze autoctone. Qui, da tempo, si è imposto il suino pesante padano, una selezione di razze d'Oltremanica allevate con criteri di tracciabilità ben precise, dalla nascita all'estremo sacrificio insaccato. Orgoglio berico lo troviamo nella sopressa. Un insaccato con i migliori tagli che può arrivare a pezzature di 4-5 chili. Il nome deriva dal rito di preparazione, ovvero la pressatura del macinato, speziato con arte e sapienza, entro un capace budello bovino. Nelle piccole produzioni l'animale viene allevato all'aperto con un'alimentazione prevalentemente a base di patate e castagne. Altra caratteristica è la stretta legatura con lo spago che, così, impedisce il ristagno dell'aria. Un tempo era una specie di salvadanaio alimentare perché, una volta consumati i prodotti più freschi, la sopressa, con una stagionatura che può arrivare anche a due anni, era utile scorta nella dispensa familiare. Dalla consistenza che la scioglie in bocca, ideale su di una fetta di pane caldo o con la polenta abbrustolita. Nel trevigiano abbiamo il musetto, preparato con i tagli di scarto, in particolare quelli del muso, cartilagini comprese, che gli danno una consistenza unica. Ideale con il cren (una preparazione a base di rafano) e purea di patate, come pure con le verze sofegae, ovvero quelle reduci dalle prime gelate. Un gemellaggio che ci porta in Friuli, dove invece l'abbinamento è con la brovada, le rape messe a macerare entro grossi tini di legno assieme alle vinacce, pressate con un coperchio di legno e pietra. Di colore rosato a processo compiuto, una volta spadellate assumono un color castagna che le rende pronte al piatto. Un gemellaggio che unisce le Tre Venezie sono invece le martondele, il cui nome e preparazione assume caratteristiche diverse a seconda della zona di origine. Si tratta di un macinato grossolano di tagli minori, spesso molto vascolarizzati quali polmone, milza, rene. Avvolti nel retino del maiale possono venire consumate fresche, spadellate e passate al forno, oppure, caratteristica trentina (qui si chiamano mortandele), messe a stagionare per un mese e consumate quali un salume. Il segreto, specialmente nella versione del Veneto centrale e del Friuli (dove parliamo di marcundele), è la concia con spezie varie e anche uvetta. Particolarmente estrose le sue preparazioni friulane. Come colazione mattutina cotte nel burro e accompagnate dalla polenta. Bollite assieme al vino rosso e poi spadellate senza pietà, ma anche, una volta cotte e tritate, a dare il turbo ai risotti invernali. Ed è proprio a Fagagna (pochi chilometri da quel San Daniele reso famoso dai prosciutti) che incontriamo una friulana fenice dalla lunga storia. Fagagna, con il suo castello millenario, rientra nel circuito dei Borghi più belli d'Italia. Eppure, non più tardi di metà Ottocento, venne definita, ma con fare lodativo, la «porcopoli» del Friuli, da Pacifico Valussi, giornalista e deputato del Regno. Nel Friuli del tempo allevare il maiale non era così semplice. L'economia di sussistenza non sempre traeva dal porcello domestico numeri di valore economico. Il raccolto dei campi serviva per gli armenti, e quindi il conseguente latte e burro, merce di scambio immediato. Quel che avanzava ai pennuti di cortile e solo il resto, se avanzava, prendeva la via del porcile. Tanto è vero che, spesso, gli allevatori suini erano i mugnai, grazie all'ampia disponibilità di grani e farine con le quali veniva pagata la macinazione dei campi. Le più importanti porcilaie erano quelle di luoghi dove gli avanzi alimentari erano sostenibili per il destinatario finale, ovvero ospedali, manicomi, comunità religiose, caserme. Il nero friulano, con epicentro Fagagna, era molto duttile. Di buona voracità, mai schizzinoso, che fossero le prelibate ghiande come avanzi della dispensa allungati con l'acqua del lavello. Così le ha ben descritte Giuseppe Colle, agronomo che, assieme Cornelio Sopracolle si adoperò, negli anni Cinquanta, per predisporre il libro genealogico. «Nonostante la carne più scura e i cosciotti più piccoli, le sue carni sono molto saporite per una combinazione unica tra patrimonio genetico, alimentazione e microclima». Tuttavia, al di là di questi pregi e le innegabili virtù, la vita del nero di Fagagna non è stata facile. Di taglia piccola (circa 120 chili) e maturazione tardiva (2 anni) non era visto economicamente conveniente, al di la delle necessità familiari. Già nel 1873 il senatore Gabriele Pecile istituì un premio in denaro per chi si fosse impegnato a migliorare la razza. Volle dare l'esempio importando dalla Gran Bretagna due Berkshire. Uno di questi divenne presto famoso in zona, uno stallone nero chiamato «ferito», in quanto, per una mareggiata lungo la Manica, non giunse del tutto integro nelle stazioni di monta. Cominciarono a diffondersi tanti piccoli meticci che si distinguevano facilmente dai locali. Lo stesso Pecile ebbe orgoglioso a commentare «per le vie di Fagagna si vedono condurre al pascolo una quantità di meticci che si distinguono per le orecchie dritte, mentre i nostrani le portano penzoloni. Spero di giungere a cambiare totalmente la razza di Fagagna, troppo tardiva e troppo costosa». I due conflitti mondiali sparigliarono più volte le carte e, a parte qualche enclave protetta, come ad esempio la porcilaia dell'ospedale di San Daniele, vi fu un notevole metticciamento con razze di aree continue, austriache e balcaniche. Nel 1951 un manipolo di volonterosi, guidati dal sindaco Aldo Pecile, diede vita alla Mostra del maiale di Fagagna. Alcuni di questi esemplari andarono alla quarta rassegna nazionale di Reggio Emilia, nel 1955, e si aggiudicarono la medaglio d'oro. Tuttavia l'interesse degli allevatori era diretto altrove e la Mostra di Fagagna chiuse i battenti nel 1964. Il colpo di grazia lo diede un bando provinciale del 1974, teso a premiare i criteri dell'allevamento intensivo. Le ultime tracce del nero di Fagagna risalgono al 1976. Ma ci fu chi non si diede per vinto, e nel 2011, un altro sindaco di Fagagna, poi divenuto assessore regionale, Gian Luigi d'Orlandi, si fece Indiana Jones suino e ritrovò miracolosamente alcuni esemplari che, proprio per i commerci del tempo, erano emigrati oltre confine. Adesso l'allevamento di questa specie è ripreso, con l'ambizione dichiarata dello stesso D'Orlandi di dare luogo al Patanegra friulano. Fagagna depositaria di due piccole chicche golose, che tradizione vuole tramandate a noi proprio per l'eccellenza del suo suino. Il pestat è una curiosa preparazione che sembra un salume, ma non lo è. Il lardo viene macinato assieme a un trito di verdure e spezie. Un tempo unico modo per conservare i prodotti oltre il raccolto. Messo a stagionare, dava il meglio dopo un anno. Un mosaico di colori e profumi da sciogliere in padella e abbinare a patate al forno, spezzatino di carne e altro ancora. Al grufolo della staffa il pestadice, un mix di carne suina e ciccioli, ottima base per frittate che fanno la differenza. Provare per credere.