2020-03-09
Compravendita di visti nell’ambasciata italiana in Pakistan
Mediatori locali chiedono fino a 20.000 euro per il documento. L'ambasciatore: «Il problema esiste, ma chi sa deve denunciare».E i minori dal Paese islamico fanno gola alle comunità: soldi pubblici, zero resoconti. In Friuli sono il gruppo più numeroso tra gli under 18 e i Comuni scelgono le strutture di affido senza un bando. Uno di loro racconta: «In casa famiglia non mi davano cibo».Lo speciale comprende due articoli. «Documenti in regola? Non bastano. Qui money money». Soldi. Tanti soldi. A parlare è un pakistano, da anni residente in Italia, ma «pizzicato» alcune settimane fa a Islamabad dalla Verità. Il quadro che emerge dal racconto di quest'uomo, come da quello di tanti altri suoi connazionali, è preoccupante: in Pakistan, attorno alla nostra ambasciata, sarebbe in piedi un vero e proprio mercimonio di visti, per cifre che arrivano a 15-20.000 euro. A gestire tale business ci sarebbero degli intermediari locali, i quali conterebbero su complici che operano come contrattisti all'interno della sede diplomatica italiana. La notizia è allarmante per almeno due motivi: primo, perché le istituzioni del nostro Paese sarebbero parte lesa, danneggiate da truffatori e, nella peggiore delle ipotesi, da dipendenti infedeli; secondo, perché se veramente in Pakistan esiste una compravendita di visti, essa si presta a fungere anche da canale di immigrazione. È questa l'idea che ci suggerisce un ragazzo, arrivato in Italia circa 4 anni fa: «Anziché fare il viaggio della speranza come me, da Islamabad, all'Iran, alla Turchia, ai Balcani, fino all'Italia, uno prende il visto turistico, arriva in aereo e poi fa domanda d'asilo». Ed è la stessa prospettiva che ci presentano i gestori di un minimarket etnico del Nord Est, che conosceremo più avanti: «Arrivi in area Schengen e poi, prima che scada il visto, chiedi la protezione internazionale». Quella su cui Matteo Salvini, da ministro dell'Interno, ha imposto una stretta che il governo giallorosso vorrebbe di nuovo allentare.Ma partiamo da un fenomeno che è la Farnesina stessa a confermare. In Pakistan («e in molte altre sedi nel mondo», aggiungono dal ministero degli Esteri), ci sono delle specie di «mediatori truffaldini» che, attraverso il sistema informatico, prenotano una serie di appuntamenti in ambasciata. Dopodiché, li vendono a chi ne ha bisogno. «L'ambasciata non può sapere se chi ha fissato l'appuntamento online sia la stessa persona che poi si presenta in ufficio», spiega la Farnesina. «Questo, però, non significa affatto che i mediatori siano in grado di garantire un visto, che deve passare controlli stringenti». Tant'è che la percentuale di dinieghi è altissima: «Per alcune tipologie, può arrivare al 50%». E vivaddio che la selezione sia rigorosissima: immigrazione a parte, il Pakistan ha un'elevata presenza di estremisti islamici, che bisogna tenere lontani non soltanto dall'Italia, ma da tutta l'area Schengen. Però è proprio per la difficoltà di ottenere un via libera, che chi vive nella Repubblica islamica è disposto a sborsare. Ciò che rende complesso sgominare un traffico del genere è che non si parla, apparentemente, né di visti falsi (che verrebbero scoperti alle frontiere), né di permessi concessi a chi non ha i requisiti (le autorità italiane assicurano che i controlli sui richiedenti sono stringenti). Il punto, insomma, è che anche chi dovrebbe essere a posto con i documenti, poiché rischia comunque un diniego - le nostre autorità possono ritenere non sufficientemente giustificata la richiesta, o sospettare che gli aspiranti viaggiatori siano in realtà aspiranti immigrati - trova chi gli propone di pagare. Money money, appunto. Ma quanto, di preciso? «3-4.000 euro», secondo l'uomo da noi intercettato a Islamabad. «E in due o tre mesi arriva il visto».È un caso? Siamo stati avvicinati da un impostore, pronto a prendere il denaro e a sparire? Una storia simile, in realtà, ce l'ha illustrata pure un altro pakistano, residente nel Bresciano. «Circa 6 anni fa ho seguito la disavventura di una ragazza che era tornata a visitare i suoi a Islamabad, ma aveva perso i documenti e non poteva rientrare in Italia. Si era recata alla Gerry Fedex», la società presso la quale le persone devono depositare i loro faldoni, che poi essa inoltra all'ambasciata. Su questa (come su altre aziende esterne di cui si serve la nostra diplomazia nel mondo), la Farnesina ci assicura che vengono svolti controlli accurati sia per evitare fenomeni di bagarinaggio, sia per minimizzare il rischio che qualche dipendente si lasci corrompere. Eppure, ci viene raccontato che la ragazza di Islamabad, in difficoltà con il suo faldone, «alla fine aveva trovato un intermediario, che le chiese 1.000 euro per fissare un appuntamento in ambasciata e per facilitare la pratica. Pochi giorni dopo, guada caso, riottenne i documenti». D'altronde, dell'ultimo episodio di un conterraneo che ha pagato 500 euro per farsi ricevere nella sede diplomatica di Islamabad, l'uomo ci garantisce di essere venuto a conoscenza solo «un paio di mesi fa». Nel frattempo, il 10 febbraio, nella capitale del Paese asiatico è arrivato il nuovo ambasciatore, subentrato a Stefano Pontecorvo, che aveva concluso il proprio mandato. E se nella Repubblica islamica capita quello che abbiamo documentato, è l'uomo giusto al posto giusto. Si tratta di Andreas Ferrarese, che nel 2014, da ambasciatore a Pristina, dovette fronteggiare lo scandalo dei visti Schengen, messi in vendita a prezzi che oscillavano tra i 2.700 e i 3.500 euro da un gruppo criminale kosovaro. Tra gli arrestati figurava pure il figlio del leader della battaglia per l'indipendenza dello Stato balcanico dalla Serbia. Quella vicenda fece scalpore: si era parlato di complici tra i funzionari italiani, era stato travolto persino il precedente ambasciatore, Michael Giffoni (prima destituito direttamente dal ministero, poi reintegrato dal Tar, perché giudicato vittima del raggiro). Soprattutto, era emerso che tre dei visti erano stati concessi a combattenti jihadisti, dei quali, dopo l'ingresso in Italia, si erano perse le tracce, finché uno di loro non aveva compiuto un attacco suicida in Iraq.Raggiunto dalla Verità, Ferrarese ha ammesso che «possono esserci tre livelli di truffa». Uno, è quello di chi intasca i soldi e si dilegua. Un altro è quello di chi, conoscendo le leggi, inganna i connazionali, convincendoli a farsi pagare per ottenere un servizio cui avrebbero già diritto. Entrambe queste ipotesi «danneggiano l'immagine dell'ambasciata, ma sul piano giuridico riguardano le autorità pakistane». Il terzo è il più grave: è quello di chi, eventualmente, ha davvero un complice interno alla sede diplomatica. «Ma chi è stato avvicinato da questi soggetti deve fare nomi e cognomi. Deve denunciare». Certo, un principio sacrosanto. Ma un business dei visti si regge proprio sulla certezza che, per paura o per l'estremo bisogno di procurarsi un lasciapassare, nessuno di quelli cui viene chiesto di pagare denuncerà. «Senza prove, non posso sospettare di funzionari dell'ambasciata. Mi pare difficile, poi, che i contrattisti pakistani rischino di perdere un posto per il quale ricevono uno stipendio ben più alto della media dei loro compatrioti». Tuttavia Ferrarese è perfettamente consapevole che «i problemi con i visti esistono da anni. Io ne ho esperienza dagli anni Novanta, nelle Filippine. Voi non mi state certo parlando di aria fritta. Abbiamo la stessa preoccupazione, perciò invitiamo a denunciare: chi ha paura, sappia che si possono studiare soluzioni per assicurare l'anonimato. In ogni caso», conclude l'ambasciatore, «abbiamo già un rodato meccanismo di controlli interni e io, personalmente, mi sono dato da fare per fronteggiare queste situazioni anche in passato. Non ho mai avuto problemi a far arrestare chi provava a violare la legge».Magari, quelle dei testimoni da noi raggiunti sono solo voci. Magari c'è una pletora di truffatori che ruota intorno all'ambasciata, solo «all'esterno», come ipotizza Ferrarese. Eppure, quando chiediamo ai pakistani se è vero che nel loro Paese si può comprare un visto, tutti rispondono senza esitare: «Sì, sì. È tutto vero». Lo conferma, ad esempio, un giovane che era arrivato in Italia appena maggiorenne. «Un mediatore a Islamabad mi aveva assicurato un visto in cambio di 20.000 euro. Ci sarebbero voluti dai 3 ai 6 mesi, ma se segui i canali “tradizionali", quasi sempre ti bocciano la richiesta. Io personalmente non avevo abbastanza denaro, ma ho conosciuto diverse persone che hanno comprato il visto».E a quanto pare, non è affatto difficile raggiungere questa sorta di bagarini del passaporto. Insieme a un ragazzo pakistano, siamo riusciti ad avviare una trattativa semplicemente entrando in un alimentari etnico di una grande città del Nord Est (non diamo i dettagli proprio per non inguaiare il nostro complice, che lì ci vive ed è abbastanza conosciuto all'interno della sua comunità). I gestori del negozio danno una mano ai connazionali con i documenti da inoltrare in ambasciata. Per suscitare il loro interesse, ci è bastato riferire che la persona in cerca del visto ha messo da parte circa 12.000 euro. I due sono subito chiari: «Se seguite la via regolare, noi vi prepariamo tutto, ma non possiamo assicurarvi niente. L'altra via a noi non piace… Però è più sicura». Ma come facciamo a essere sicuri che chi ci promette il documento, non intaschi i nostri soldi per poi volatilizzarsi? In fondo, era stato già l'uomo di Islamabad, quello del money money, a metterci in guardia: «Tu consegni il denaro, poi loro ti dicono: “No no, io non ne so niente"». I gestori del minimarket, però, ci aiutano a fugare questo dubbio. E spiegano che il pagamento avverrebbe solamente a visto emesso. Ci assicurano anche che hanno già alcuni documenti in arrivo, destinati a connazionali che hanno accettato di sborsare 10.000 euro. D'altra parte, se la compravendita si risolvesse sempre in un raggiro, non ci sarebbero tanti pakistani certi che pagando ci si riserva una corsia preferenziale, o pieni di conoscenti che dichiarano (confidenzialmente) di aver comprato i visti.Con i proprietari del supermercato etnico, lo scorso fine settimana, ci eravamo dati un appuntamento per ieri: i signori avevano promesso che avrebbero sentito il loro contatto in Pakistan, il quale, stando al loro resoconto, sarebbe addirittura in grado di procurare documenti per molti altri Paesi dell'area Schengen. Poi, però, è arrivato il nuovo decreto della presidenza del Consiglio per l'emergenza coronavirus, che ha sigillato la Lombardia. E molti pakistani si sono attivati per gestire l'esodo dei connazionali dalla Regione, in particolare da Milano. L'appuntamento è saltato. Ma appena possibile, riattiveremo la trattativa, per verificare con i nostri occhi se davvero essa conduce dentro la sede diplomatica di Islamabad.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/in-ambasciata-denaro-e-visti-facili-il-caso-del-pakistan-2645432351.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="e-i-minori-dal-paese-islamico-fanno-gola-alle-comunita-soldi-pubblici-zero-resoconti" data-post-id="2645432351" data-published-at="1757861062" data-use-pagination="False"> E i minori dal Paese islamico fanno gola alle comunità: soldi pubblici, zero resoconti L'accoglienza dei minori non accompagnati è un terreno complesso, delicato, ma soprattutto, remunerativo. La complessa trafila burocratica e logistica che si mette in moto appena un minorenne di cittadinanza non europea, senza genitori o parenti, entra in Italia, è regolata dalla legge numero 47 del 2017. La disposizione è chiara: se sul territorio sono individuati familiari idonei a prendersi cura del minore, questa soluzione dovrà essere preferita al collocamento in una comunità. Ma destinare centinaia di minori, o presunti tali, nelle case di accoglienza conviene a tutti. Soprattutto in Friuli Venezia Giulia. Nella Regione infatti, a differenza di quanto avviene nel resto d'Italia, i Comuni scelgono le case di accoglienza a cui destinare i minori non tramite un bando pubblico, ma semplicemente tramite delle convenzioni. In media, un centro di accoglienza riceve tra i 75 e i 140 euro al giorno per minore. Soldi pubblici, che i servizi sociali, incaricati di smistare i minori, possono quindi indirizzare a loro piacimento, sapendo in quali conti correnti andranno. Calcolando una media di 100 euro al giorno, una comunità che ospita 30 ragazzi, incassa ogni mese 90.000 euro, ovvero più di 1 milione all'anno. Un giro d'affari che fa gola a molti, e a dimostrarlo ci sono i numeri del report della Regione Friuli Venezia Giulia che fotografa la situazione nel 2019: i minori in carico ai Comuni sono in totale 956, provenienti prevalentemente da Pakistan, Kosovo, Bangladesh, Afghanistan e Albania. La maggior parte di loro viene mandata nelle strutture di Trieste, Cividale del Friuli e Udine. In una struttura triestina era stato destinato Saif (nome di fantasia, ndr) ragazzo pachistano, partito dal suo Paese circa due anni fa. Il viaggio per arrivare in Italia è stato lungo: la prima tappa è stata in Iran, dove Saif si è fermato una decina di giorni per poi arrivare a Istanbul, dove si è fermato circa 8 mesi. La città turca è infatti un vero e proprio punto di smistamento per pakistani, afghani e bengalesi, che rimangono lì fino a quando non riescono a racimolare la somma necessaria a raggiungere la Grecia. Dopo Istanbul Saif raggiunge Salonicco, dove si ferma una settimana, per poi proseguire attraversando i Paesi balcanici. Dopo due giorni in Macedonia, Saif resta nella capitale serba, Belgrado, per tre mesi, comi come a Sarajevo, in Bosnia, poi Croazia e Slovenia di passaggio e, infine, Trieste. Viene affidato a una comunità, che sebbene disponga di soldi pubblici per fornire vestiti, pasti, e tutto ciò di cui ha bisogno, non si prende cura di lui, tanto da farlo scappare, come racconta: «In comunità non mi davano da mangiare, nemmeno i vestiti. Se mi facevo male non mi portavano nemmeno all'ospedale. Sono scappato molte volte ma i servizi sociali hanno sempre imposto che io stessi in comunità». L'ultima parola, spetta sempre infatti a loro, come conferma il senatore Simone Pillon, in prima linea nel tentativo di far luce sul business dei minori non accompagnati: «Non esiste un organo che supervisioni i servizi sociali. Le loro relazioni restano come ultimo verbo nei fasciscoli dei tribunali dei minori, su queste si basa tutto il lavoro dei giudici, molti dei quali sono onorari, non togati, senza le competenze giuridiche di un magistrato di carriera, e anche su di loro manca una normativa chiara per evitare conflitti d'interessi». A dimostrarlo, un caso chiave, quello della cooperativa umbra per minori Il piccolo carro, finita nel 2017 sotto la lente dell'l'Autorità nazionale anticorruzione, poiché un socio era anche il figlio della Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione, Maria Pia Serlupini. Come spiega Pillon, «è necessario riformare l'intero sistema delle comunità per minori non accompagnati perché, tra l'altro, queste si autocontrollano. Non c'è nessuno che monitori le loro spese, basta un'autocertificazione». Le strutture sono libere quindi di incassare denaro pubblico senza rendicontare le spese, libere di diventare dei semplici parcheggi per minori, che più sono, meglio è. Il vicesindaco di Trieste, Paolo Polidori, ha provato a far luce sulla situazione anche rivolgendosi all'ambasciata del Pakistan in Italia, ma per ricevere risposte, non sono sufficienti le domande di un singolo Comune, servirebbe un interessamento da parte del governo, che non arriva. Dopo i pakistani, la comunità più numerosa di minori stranieri è quella proveniente dal Kosovo. Nel terzo trimestre del 2019, in Friuli Venezia Giulia erano 207. Il viaggio per arrivare in Italia pero loro è molto meno difficile. Con 8 ore di macchina e qualche mancia al confine con la Croazia, si è in Italia. Alcuni dei minori accolti fanno parte di bande in mano alla criminalità organizzata, come per esempio la Gang del kalashnikov, i cui membri spesso ne portano lo stemma tatuato sul collo, protagonista di un accoltellamento nell'ottobre scorso alla Scala dei Giganti, nel centro di Trieste. E intanto, intere zone del Kosovo e dell'Albania si stanno spopolando di giovani, diretti in Friuli, dove possono essere mantenuti a spese della Regione.
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