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2020-03-09
Compravendita di visti nell’ambasciata italiana in Pakistan
iStock
«Documenti in regola? Non bastano. Qui money money». Soldi. Tanti soldi.
A parlare è un pakistano, da anni residente in Italia, ma «pizzicato» alcune settimane fa a Islamabad dalla Verità. Il quadro che emerge dal racconto di quest'uomo, come da quello di tanti altri suoi connazionali, è preoccupante: in Pakistan, attorno alla nostra ambasciata, sarebbe in piedi un vero e proprio mercimonio di visti, per cifre che arrivano a 15-20.000 euro. A gestire tale business ci sarebbero degli intermediari locali, i quali conterebbero su complici che operano come contrattisti all'interno della sede diplomatica italiana.
La notizia è allarmante per almeno due motivi: primo, perché le istituzioni del nostro Paese sarebbero parte lesa, danneggiate da truffatori e, nella peggiore delle ipotesi, da dipendenti infedeli; secondo, perché se veramente in Pakistan esiste una compravendita di visti, essa si presta a fungere anche da canale di immigrazione. È questa l'idea che ci suggerisce un ragazzo, arrivato in Italia circa 4 anni fa: «Anziché fare il viaggio della speranza come me, da Islamabad, all'Iran, alla Turchia, ai Balcani, fino all'Italia, uno prende il visto turistico, arriva in aereo e poi fa domanda d'asilo». Ed è la stessa prospettiva che ci presentano i gestori di un minimarket etnico del Nord Est, che conosceremo più avanti: «Arrivi in area Schengen e poi, prima che scada il visto, chiedi la protezione internazionale». Quella su cui Matteo Salvini, da ministro dell'Interno, ha imposto una stretta che il governo giallorosso vorrebbe di nuovo allentare.
Ma partiamo da un fenomeno che è la Farnesina stessa a confermare. In Pakistan («e in molte altre sedi nel mondo», aggiungono dal ministero degli Esteri), ci sono delle specie di «mediatori truffaldini» che, attraverso il sistema informatico, prenotano una serie di appuntamenti in ambasciata. Dopodiché, li vendono a chi ne ha bisogno. «L'ambasciata non può sapere se chi ha fissato l'appuntamento online sia la stessa persona che poi si presenta in ufficio», spiega la Farnesina. «Questo, però, non significa affatto che i mediatori siano in grado di garantire un visto, che deve passare controlli stringenti». Tant'è che la percentuale di dinieghi è altissima: «Per alcune tipologie, può arrivare al 50%». E vivaddio che la selezione sia rigorosissima: immigrazione a parte, il Pakistan ha un'elevata presenza di estremisti islamici, che bisogna tenere lontani non soltanto dall'Italia, ma da tutta l'area Schengen. Però è proprio per la difficoltà di ottenere un via libera, che chi vive nella Repubblica islamica è disposto a sborsare. Ciò che rende complesso sgominare un traffico del genere è che non si parla, apparentemente, né di visti falsi (che verrebbero scoperti alle frontiere), né di permessi concessi a chi non ha i requisiti (le autorità italiane assicurano che i controlli sui richiedenti sono stringenti). Il punto, insomma, è che anche chi dovrebbe essere a posto con i documenti, poiché rischia comunque un diniego - le nostre autorità possono ritenere non sufficientemente giustificata la richiesta, o sospettare che gli aspiranti viaggiatori siano in realtà aspiranti immigrati - trova chi gli propone di pagare. Money money, appunto. Ma quanto, di preciso? «3-4.000 euro», secondo l'uomo da noi intercettato a Islamabad. «E in due o tre mesi arriva il visto».
È un caso? Siamo stati avvicinati da un impostore, pronto a prendere il denaro e a sparire? Una storia simile, in realtà, ce l'ha illustrata pure un altro pakistano, residente nel Bresciano. «Circa 6 anni fa ho seguito la disavventura di una ragazza che era tornata a visitare i suoi a Islamabad, ma aveva perso i documenti e non poteva rientrare in Italia. Si era recata alla Gerry Fedex», la società presso la quale le persone devono depositare i loro faldoni, che poi essa inoltra all'ambasciata. Su questa (come su altre aziende esterne di cui si serve la nostra diplomazia nel mondo), la Farnesina ci assicura che vengono svolti controlli accurati sia per evitare fenomeni di bagarinaggio, sia per minimizzare il rischio che qualche dipendente si lasci corrompere. Eppure, ci viene raccontato che la ragazza di Islamabad, in difficoltà con il suo faldone, «alla fine aveva trovato un intermediario, che le chiese 1.000 euro per fissare un appuntamento in ambasciata e per facilitare la pratica. Pochi giorni dopo, guada caso, riottenne i documenti». D'altronde, dell'ultimo episodio di un conterraneo che ha pagato 500 euro per farsi ricevere nella sede diplomatica di Islamabad, l'uomo ci garantisce di essere venuto a conoscenza solo «un paio di mesi fa».
Nel frattempo, il 10 febbraio, nella capitale del Paese asiatico è arrivato il nuovo ambasciatore, subentrato a Stefano Pontecorvo, che aveva concluso il proprio mandato. E se nella Repubblica islamica capita quello che abbiamo documentato, è l'uomo giusto al posto giusto. Si tratta di Andreas Ferrarese, che nel 2014, da ambasciatore a Pristina, dovette fronteggiare lo scandalo dei visti Schengen, messi in vendita a prezzi che oscillavano tra i 2.700 e i 3.500 euro da un gruppo criminale kosovaro. Tra gli arrestati figurava pure il figlio del leader della battaglia per l'indipendenza dello Stato balcanico dalla Serbia. Quella vicenda fece scalpore: si era parlato di complici tra i funzionari italiani, era stato travolto persino il precedente ambasciatore, Michael Giffoni (prima destituito direttamente dal ministero, poi reintegrato dal Tar, perché giudicato vittima del raggiro). Soprattutto, era emerso che tre dei visti erano stati concessi a combattenti jihadisti, dei quali, dopo l'ingresso in Italia, si erano perse le tracce, finché uno di loro non aveva compiuto un attacco suicida in Iraq.
Raggiunto dalla Verità, Ferrarese ha ammesso che «possono esserci tre livelli di truffa». Uno, è quello di chi intasca i soldi e si dilegua. Un altro è quello di chi, conoscendo le leggi, inganna i connazionali, convincendoli a farsi pagare per ottenere un servizio cui avrebbero già diritto. Entrambe queste ipotesi «danneggiano l'immagine dell'ambasciata, ma sul piano giuridico riguardano le autorità pakistane». Il terzo è il più grave: è quello di chi, eventualmente, ha davvero un complice interno alla sede diplomatica. «Ma chi è stato avvicinato da questi soggetti deve fare nomi e cognomi. Deve denunciare». Certo, un principio sacrosanto. Ma un business dei visti si regge proprio sulla certezza che, per paura o per l'estremo bisogno di procurarsi un lasciapassare, nessuno di quelli cui viene chiesto di pagare denuncerà. «Senza prove, non posso sospettare di funzionari dell'ambasciata. Mi pare difficile, poi, che i contrattisti pakistani rischino di perdere un posto per il quale ricevono uno stipendio ben più alto della media dei loro compatrioti». Tuttavia Ferrarese è perfettamente consapevole che «i problemi con i visti esistono da anni. Io ne ho esperienza dagli anni Novanta, nelle Filippine. Voi non mi state certo parlando di aria fritta. Abbiamo la stessa preoccupazione, perciò invitiamo a denunciare: chi ha paura, sappia che si possono studiare soluzioni per assicurare l'anonimato. In ogni caso», conclude l'ambasciatore, «abbiamo già un rodato meccanismo di controlli interni e io, personalmente, mi sono dato da fare per fronteggiare queste situazioni anche in passato. Non ho mai avuto problemi a far arrestare chi provava a violare la legge».
Magari, quelle dei testimoni da noi raggiunti sono solo voci. Magari c'è una pletora di truffatori che ruota intorno all'ambasciata, solo «all'esterno», come ipotizza Ferrarese. Eppure, quando chiediamo ai pakistani se è vero che nel loro Paese si può comprare un visto, tutti rispondono senza esitare: «Sì, sì. È tutto vero». Lo conferma, ad esempio, un giovane che era arrivato in Italia appena maggiorenne. «Un mediatore a Islamabad mi aveva assicurato un visto in cambio di 20.000 euro. Ci sarebbero voluti dai 3 ai 6 mesi, ma se segui i canali “tradizionali", quasi sempre ti bocciano la richiesta. Io personalmente non avevo abbastanza denaro, ma ho conosciuto diverse persone che hanno comprato il visto».
E a quanto pare, non è affatto difficile raggiungere questa sorta di bagarini del passaporto.
Insieme a un ragazzo pakistano, siamo riusciti ad avviare una trattativa semplicemente entrando in un alimentari etnico di una grande città del Nord Est (non diamo i dettagli proprio per non inguaiare il nostro complice, che lì ci vive ed è abbastanza conosciuto all'interno della sua comunità). I gestori del negozio danno una mano ai connazionali con i documenti da inoltrare in ambasciata. Per suscitare il loro interesse, ci è bastato riferire che la persona in cerca del visto ha messo da parte circa 12.000 euro. I due sono subito chiari: «Se seguite la via regolare, noi vi prepariamo tutto, ma non possiamo assicurarvi niente. L'altra via a noi non piace… Però è più sicura».
Ma come facciamo a essere sicuri che chi ci promette il documento, non intaschi i nostri soldi per poi volatilizzarsi? In fondo, era stato già l'uomo di Islamabad, quello del money money, a metterci in guardia: «Tu consegni il denaro, poi loro ti dicono: “No no, io non ne so niente"». I gestori del minimarket, però, ci aiutano a fugare questo dubbio. E spiegano che il pagamento avverrebbe solamente a visto emesso. Ci assicurano anche che hanno già alcuni documenti in arrivo, destinati a connazionali che hanno accettato di sborsare 10.000 euro. D'altra parte, se la compravendita si risolvesse sempre in un raggiro, non ci sarebbero tanti pakistani certi che pagando ci si riserva una corsia preferenziale, o pieni di conoscenti che dichiarano (confidenzialmente) di aver comprato i visti.
Con i proprietari del supermercato etnico, lo scorso fine settimana, ci eravamo dati un appuntamento per ieri: i signori avevano promesso che avrebbero sentito il loro contatto in Pakistan, il quale, stando al loro resoconto, sarebbe addirittura in grado di procurare documenti per molti altri Paesi dell'area Schengen. Poi, però, è arrivato il nuovo decreto della presidenza del Consiglio per l'emergenza coronavirus, che ha sigillato la Lombardia. E molti pakistani si sono attivati per gestire l'esodo dei connazionali dalla Regione, in particolare da Milano. L'appuntamento è saltato. Ma appena possibile, riattiveremo la trattativa, per verificare con i nostri occhi se davvero essa conduce dentro la sede diplomatica di Islamabad.
E i minori dal Paese islamico fanno gola alle comunità: soldi pubblici, zero resoconti
L'accoglienza dei minori non accompagnati è un terreno complesso, delicato, ma soprattutto, remunerativo. La complessa trafila burocratica e logistica che si mette in moto appena un minorenne di cittadinanza non europea, senza genitori o parenti, entra in Italia, è regolata dalla legge numero 47 del 2017. La disposizione è chiara: se sul territorio sono individuati familiari idonei a prendersi cura del minore, questa soluzione dovrà essere preferita al collocamento in una comunità. Ma destinare centinaia di minori, o presunti tali, nelle case di accoglienza conviene a tutti. Soprattutto in Friuli Venezia Giulia.
Nella Regione infatti, a differenza di quanto avviene nel resto d'Italia, i Comuni scelgono le case di accoglienza a cui destinare i minori non tramite un bando pubblico, ma semplicemente tramite delle convenzioni. In media, un centro di accoglienza riceve tra i 75 e i 140 euro al giorno per minore. Soldi pubblici, che i servizi sociali, incaricati di smistare i minori, possono quindi indirizzare a loro piacimento, sapendo in quali conti correnti andranno. Calcolando una media di 100 euro al giorno, una comunità che ospita 30 ragazzi, incassa ogni mese 90.000 euro, ovvero più di 1 milione all'anno. Un giro d'affari che fa gola a molti, e a dimostrarlo ci sono i numeri del report della Regione Friuli Venezia Giulia che fotografa la situazione nel 2019: i minori in carico ai Comuni sono in totale 956, provenienti prevalentemente da Pakistan, Kosovo, Bangladesh, Afghanistan e Albania. La maggior parte di loro viene mandata nelle strutture di Trieste, Cividale del Friuli e Udine. In una struttura triestina era stato destinato Saif (nome di fantasia, ndr) ragazzo pachistano, partito dal suo Paese circa due anni fa. Il viaggio per arrivare in Italia è stato lungo: la prima tappa è stata in Iran, dove Saif si è fermato una decina di giorni per poi arrivare a Istanbul, dove si è fermato circa 8 mesi. La città turca è infatti un vero e proprio punto di smistamento per pakistani, afghani e bengalesi, che rimangono lì fino a quando non riescono a racimolare la somma necessaria a raggiungere la Grecia. Dopo Istanbul Saif raggiunge Salonicco, dove si ferma una settimana, per poi proseguire attraversando i Paesi balcanici. Dopo due giorni in Macedonia, Saif resta nella capitale serba, Belgrado, per tre mesi, comi come a Sarajevo, in Bosnia, poi Croazia e Slovenia di passaggio e, infine, Trieste. Viene affidato a una comunità, che sebbene disponga di soldi pubblici per fornire vestiti, pasti, e tutto ciò di cui ha bisogno, non si prende cura di lui, tanto da farlo scappare, come racconta: «In comunità non mi davano da mangiare, nemmeno i vestiti. Se mi facevo male non mi portavano nemmeno all'ospedale. Sono scappato molte volte ma i servizi sociali hanno sempre imposto che io stessi in comunità».
L'ultima parola, spetta sempre infatti a loro, come conferma il senatore Simone Pillon, in prima linea nel tentativo di far luce sul business dei minori non accompagnati: «Non esiste un organo che supervisioni i servizi sociali. Le loro relazioni restano come ultimo verbo nei fasciscoli dei tribunali dei minori, su queste si basa tutto il lavoro dei giudici, molti dei quali sono onorari, non togati, senza le competenze giuridiche di un magistrato di carriera, e anche su di loro manca una normativa chiara per evitare conflitti d'interessi». A dimostrarlo, un caso chiave, quello della cooperativa umbra per minori Il piccolo carro, finita nel 2017 sotto la lente dell'l'Autorità nazionale anticorruzione, poiché un socio era anche il figlio della Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione, Maria Pia Serlupini. Come spiega Pillon, «è necessario riformare l'intero sistema delle comunità per minori non accompagnati perché, tra l'altro, queste si autocontrollano. Non c'è nessuno che monitori le loro spese, basta un'autocertificazione». Le strutture sono libere quindi di incassare denaro pubblico senza rendicontare le spese, libere di diventare dei semplici parcheggi per minori, che più sono, meglio è.
Il vicesindaco di Trieste, Paolo Polidori, ha provato a far luce sulla situazione anche rivolgendosi all'ambasciata del Pakistan in Italia, ma per ricevere risposte, non sono sufficienti le domande di un singolo Comune, servirebbe un interessamento da parte del governo, che non arriva.
Dopo i pakistani, la comunità più numerosa di minori stranieri è quella proveniente dal Kosovo. Nel terzo trimestre del 2019, in Friuli Venezia Giulia erano 207. Il viaggio per arrivare in Italia pero loro è molto meno difficile. Con 8 ore di macchina e qualche mancia al confine con la Croazia, si è in Italia. Alcuni dei minori accolti fanno parte di bande in mano alla criminalità organizzata, come per esempio la Gang del kalashnikov, i cui membri spesso ne portano lo stemma tatuato sul collo, protagonista di un accoltellamento nell'ottobre scorso alla Scala dei Giganti, nel centro di Trieste.
E intanto, intere zone del Kosovo e dell'Albania si stanno spopolando di giovani, diretti in Friuli, dove possono essere mantenuti a spese della Regione.
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Mediatori locali chiedono fino a 20.000 euro per il documento. L'ambasciatore: «Il problema esiste, ma chi sa deve denunciare».E i minori dal Paese islamico fanno gola alle comunità: soldi pubblici, zero resoconti. In Friuli sono il gruppo più numeroso tra gli under 18 e i Comuni scelgono le strutture di affido senza un bando. Uno di loro racconta: «In casa famiglia non mi davano cibo».Lo speciale comprende due articoli. «Documenti in regola? Non bastano. Qui money money». Soldi. Tanti soldi. A parlare è un pakistano, da anni residente in Italia, ma «pizzicato» alcune settimane fa a Islamabad dalla Verità. Il quadro che emerge dal racconto di quest'uomo, come da quello di tanti altri suoi connazionali, è preoccupante: in Pakistan, attorno alla nostra ambasciata, sarebbe in piedi un vero e proprio mercimonio di visti, per cifre che arrivano a 15-20.000 euro. A gestire tale business ci sarebbero degli intermediari locali, i quali conterebbero su complici che operano come contrattisti all'interno della sede diplomatica italiana. La notizia è allarmante per almeno due motivi: primo, perché le istituzioni del nostro Paese sarebbero parte lesa, danneggiate da truffatori e, nella peggiore delle ipotesi, da dipendenti infedeli; secondo, perché se veramente in Pakistan esiste una compravendita di visti, essa si presta a fungere anche da canale di immigrazione. È questa l'idea che ci suggerisce un ragazzo, arrivato in Italia circa 4 anni fa: «Anziché fare il viaggio della speranza come me, da Islamabad, all'Iran, alla Turchia, ai Balcani, fino all'Italia, uno prende il visto turistico, arriva in aereo e poi fa domanda d'asilo». Ed è la stessa prospettiva che ci presentano i gestori di un minimarket etnico del Nord Est, che conosceremo più avanti: «Arrivi in area Schengen e poi, prima che scada il visto, chiedi la protezione internazionale». Quella su cui Matteo Salvini, da ministro dell'Interno, ha imposto una stretta che il governo giallorosso vorrebbe di nuovo allentare.Ma partiamo da un fenomeno che è la Farnesina stessa a confermare. In Pakistan («e in molte altre sedi nel mondo», aggiungono dal ministero degli Esteri), ci sono delle specie di «mediatori truffaldini» che, attraverso il sistema informatico, prenotano una serie di appuntamenti in ambasciata. Dopodiché, li vendono a chi ne ha bisogno. «L'ambasciata non può sapere se chi ha fissato l'appuntamento online sia la stessa persona che poi si presenta in ufficio», spiega la Farnesina. «Questo, però, non significa affatto che i mediatori siano in grado di garantire un visto, che deve passare controlli stringenti». Tant'è che la percentuale di dinieghi è altissima: «Per alcune tipologie, può arrivare al 50%». E vivaddio che la selezione sia rigorosissima: immigrazione a parte, il Pakistan ha un'elevata presenza di estremisti islamici, che bisogna tenere lontani non soltanto dall'Italia, ma da tutta l'area Schengen. Però è proprio per la difficoltà di ottenere un via libera, che chi vive nella Repubblica islamica è disposto a sborsare. Ciò che rende complesso sgominare un traffico del genere è che non si parla, apparentemente, né di visti falsi (che verrebbero scoperti alle frontiere), né di permessi concessi a chi non ha i requisiti (le autorità italiane assicurano che i controlli sui richiedenti sono stringenti). Il punto, insomma, è che anche chi dovrebbe essere a posto con i documenti, poiché rischia comunque un diniego - le nostre autorità possono ritenere non sufficientemente giustificata la richiesta, o sospettare che gli aspiranti viaggiatori siano in realtà aspiranti immigrati - trova chi gli propone di pagare. Money money, appunto. Ma quanto, di preciso? «3-4.000 euro», secondo l'uomo da noi intercettato a Islamabad. «E in due o tre mesi arriva il visto».È un caso? Siamo stati avvicinati da un impostore, pronto a prendere il denaro e a sparire? Una storia simile, in realtà, ce l'ha illustrata pure un altro pakistano, residente nel Bresciano. «Circa 6 anni fa ho seguito la disavventura di una ragazza che era tornata a visitare i suoi a Islamabad, ma aveva perso i documenti e non poteva rientrare in Italia. Si era recata alla Gerry Fedex», la società presso la quale le persone devono depositare i loro faldoni, che poi essa inoltra all'ambasciata. Su questa (come su altre aziende esterne di cui si serve la nostra diplomazia nel mondo), la Farnesina ci assicura che vengono svolti controlli accurati sia per evitare fenomeni di bagarinaggio, sia per minimizzare il rischio che qualche dipendente si lasci corrompere. Eppure, ci viene raccontato che la ragazza di Islamabad, in difficoltà con il suo faldone, «alla fine aveva trovato un intermediario, che le chiese 1.000 euro per fissare un appuntamento in ambasciata e per facilitare la pratica. Pochi giorni dopo, guada caso, riottenne i documenti». D'altronde, dell'ultimo episodio di un conterraneo che ha pagato 500 euro per farsi ricevere nella sede diplomatica di Islamabad, l'uomo ci garantisce di essere venuto a conoscenza solo «un paio di mesi fa». Nel frattempo, il 10 febbraio, nella capitale del Paese asiatico è arrivato il nuovo ambasciatore, subentrato a Stefano Pontecorvo, che aveva concluso il proprio mandato. E se nella Repubblica islamica capita quello che abbiamo documentato, è l'uomo giusto al posto giusto. Si tratta di Andreas Ferrarese, che nel 2014, da ambasciatore a Pristina, dovette fronteggiare lo scandalo dei visti Schengen, messi in vendita a prezzi che oscillavano tra i 2.700 e i 3.500 euro da un gruppo criminale kosovaro. Tra gli arrestati figurava pure il figlio del leader della battaglia per l'indipendenza dello Stato balcanico dalla Serbia. Quella vicenda fece scalpore: si era parlato di complici tra i funzionari italiani, era stato travolto persino il precedente ambasciatore, Michael Giffoni (prima destituito direttamente dal ministero, poi reintegrato dal Tar, perché giudicato vittima del raggiro). Soprattutto, era emerso che tre dei visti erano stati concessi a combattenti jihadisti, dei quali, dopo l'ingresso in Italia, si erano perse le tracce, finché uno di loro non aveva compiuto un attacco suicida in Iraq.Raggiunto dalla Verità, Ferrarese ha ammesso che «possono esserci tre livelli di truffa». Uno, è quello di chi intasca i soldi e si dilegua. Un altro è quello di chi, conoscendo le leggi, inganna i connazionali, convincendoli a farsi pagare per ottenere un servizio cui avrebbero già diritto. Entrambe queste ipotesi «danneggiano l'immagine dell'ambasciata, ma sul piano giuridico riguardano le autorità pakistane». Il terzo è il più grave: è quello di chi, eventualmente, ha davvero un complice interno alla sede diplomatica. «Ma chi è stato avvicinato da questi soggetti deve fare nomi e cognomi. Deve denunciare». Certo, un principio sacrosanto. Ma un business dei visti si regge proprio sulla certezza che, per paura o per l'estremo bisogno di procurarsi un lasciapassare, nessuno di quelli cui viene chiesto di pagare denuncerà. «Senza prove, non posso sospettare di funzionari dell'ambasciata. Mi pare difficile, poi, che i contrattisti pakistani rischino di perdere un posto per il quale ricevono uno stipendio ben più alto della media dei loro compatrioti». Tuttavia Ferrarese è perfettamente consapevole che «i problemi con i visti esistono da anni. Io ne ho esperienza dagli anni Novanta, nelle Filippine. Voi non mi state certo parlando di aria fritta. Abbiamo la stessa preoccupazione, perciò invitiamo a denunciare: chi ha paura, sappia che si possono studiare soluzioni per assicurare l'anonimato. In ogni caso», conclude l'ambasciatore, «abbiamo già un rodato meccanismo di controlli interni e io, personalmente, mi sono dato da fare per fronteggiare queste situazioni anche in passato. Non ho mai avuto problemi a far arrestare chi provava a violare la legge».Magari, quelle dei testimoni da noi raggiunti sono solo voci. Magari c'è una pletora di truffatori che ruota intorno all'ambasciata, solo «all'esterno», come ipotizza Ferrarese. Eppure, quando chiediamo ai pakistani se è vero che nel loro Paese si può comprare un visto, tutti rispondono senza esitare: «Sì, sì. È tutto vero». Lo conferma, ad esempio, un giovane che era arrivato in Italia appena maggiorenne. «Un mediatore a Islamabad mi aveva assicurato un visto in cambio di 20.000 euro. Ci sarebbero voluti dai 3 ai 6 mesi, ma se segui i canali “tradizionali", quasi sempre ti bocciano la richiesta. Io personalmente non avevo abbastanza denaro, ma ho conosciuto diverse persone che hanno comprato il visto».E a quanto pare, non è affatto difficile raggiungere questa sorta di bagarini del passaporto. Insieme a un ragazzo pakistano, siamo riusciti ad avviare una trattativa semplicemente entrando in un alimentari etnico di una grande città del Nord Est (non diamo i dettagli proprio per non inguaiare il nostro complice, che lì ci vive ed è abbastanza conosciuto all'interno della sua comunità). I gestori del negozio danno una mano ai connazionali con i documenti da inoltrare in ambasciata. Per suscitare il loro interesse, ci è bastato riferire che la persona in cerca del visto ha messo da parte circa 12.000 euro. I due sono subito chiari: «Se seguite la via regolare, noi vi prepariamo tutto, ma non possiamo assicurarvi niente. L'altra via a noi non piace… Però è più sicura». Ma come facciamo a essere sicuri che chi ci promette il documento, non intaschi i nostri soldi per poi volatilizzarsi? In fondo, era stato già l'uomo di Islamabad, quello del money money, a metterci in guardia: «Tu consegni il denaro, poi loro ti dicono: “No no, io non ne so niente"». I gestori del minimarket, però, ci aiutano a fugare questo dubbio. E spiegano che il pagamento avverrebbe solamente a visto emesso. Ci assicurano anche che hanno già alcuni documenti in arrivo, destinati a connazionali che hanno accettato di sborsare 10.000 euro. D'altra parte, se la compravendita si risolvesse sempre in un raggiro, non ci sarebbero tanti pakistani certi che pagando ci si riserva una corsia preferenziale, o pieni di conoscenti che dichiarano (confidenzialmente) di aver comprato i visti.Con i proprietari del supermercato etnico, lo scorso fine settimana, ci eravamo dati un appuntamento per ieri: i signori avevano promesso che avrebbero sentito il loro contatto in Pakistan, il quale, stando al loro resoconto, sarebbe addirittura in grado di procurare documenti per molti altri Paesi dell'area Schengen. Poi, però, è arrivato il nuovo decreto della presidenza del Consiglio per l'emergenza coronavirus, che ha sigillato la Lombardia. E molti pakistani si sono attivati per gestire l'esodo dei connazionali dalla Regione, in particolare da Milano. L'appuntamento è saltato. 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La disposizione è chiara: se sul territorio sono individuati familiari idonei a prendersi cura del minore, questa soluzione dovrà essere preferita al collocamento in una comunità. Ma destinare centinaia di minori, o presunti tali, nelle case di accoglienza conviene a tutti. Soprattutto in Friuli Venezia Giulia. Nella Regione infatti, a differenza di quanto avviene nel resto d'Italia, i Comuni scelgono le case di accoglienza a cui destinare i minori non tramite un bando pubblico, ma semplicemente tramite delle convenzioni. In media, un centro di accoglienza riceve tra i 75 e i 140 euro al giorno per minore. Soldi pubblici, che i servizi sociali, incaricati di smistare i minori, possono quindi indirizzare a loro piacimento, sapendo in quali conti correnti andranno. Calcolando una media di 100 euro al giorno, una comunità che ospita 30 ragazzi, incassa ogni mese 90.000 euro, ovvero più di 1 milione all'anno. Un giro d'affari che fa gola a molti, e a dimostrarlo ci sono i numeri del report della Regione Friuli Venezia Giulia che fotografa la situazione nel 2019: i minori in carico ai Comuni sono in totale 956, provenienti prevalentemente da Pakistan, Kosovo, Bangladesh, Afghanistan e Albania. La maggior parte di loro viene mandata nelle strutture di Trieste, Cividale del Friuli e Udine. In una struttura triestina era stato destinato Saif (nome di fantasia, ndr) ragazzo pachistano, partito dal suo Paese circa due anni fa. Il viaggio per arrivare in Italia è stato lungo: la prima tappa è stata in Iran, dove Saif si è fermato una decina di giorni per poi arrivare a Istanbul, dove si è fermato circa 8 mesi. La città turca è infatti un vero e proprio punto di smistamento per pakistani, afghani e bengalesi, che rimangono lì fino a quando non riescono a racimolare la somma necessaria a raggiungere la Grecia. Dopo Istanbul Saif raggiunge Salonicco, dove si ferma una settimana, per poi proseguire attraversando i Paesi balcanici. Dopo due giorni in Macedonia, Saif resta nella capitale serba, Belgrado, per tre mesi, comi come a Sarajevo, in Bosnia, poi Croazia e Slovenia di passaggio e, infine, Trieste. Viene affidato a una comunità, che sebbene disponga di soldi pubblici per fornire vestiti, pasti, e tutto ciò di cui ha bisogno, non si prende cura di lui, tanto da farlo scappare, come racconta: «In comunità non mi davano da mangiare, nemmeno i vestiti. Se mi facevo male non mi portavano nemmeno all'ospedale. Sono scappato molte volte ma i servizi sociali hanno sempre imposto che io stessi in comunità». L'ultima parola, spetta sempre infatti a loro, come conferma il senatore Simone Pillon, in prima linea nel tentativo di far luce sul business dei minori non accompagnati: «Non esiste un organo che supervisioni i servizi sociali. Le loro relazioni restano come ultimo verbo nei fasciscoli dei tribunali dei minori, su queste si basa tutto il lavoro dei giudici, molti dei quali sono onorari, non togati, senza le competenze giuridiche di un magistrato di carriera, e anche su di loro manca una normativa chiara per evitare conflitti d'interessi». A dimostrarlo, un caso chiave, quello della cooperativa umbra per minori Il piccolo carro, finita nel 2017 sotto la lente dell'l'Autorità nazionale anticorruzione, poiché un socio era anche il figlio della Garante per l'infanzia e l'adolescenza della Regione, Maria Pia Serlupini. Come spiega Pillon, «è necessario riformare l'intero sistema delle comunità per minori non accompagnati perché, tra l'altro, queste si autocontrollano. Non c'è nessuno che monitori le loro spese, basta un'autocertificazione». Le strutture sono libere quindi di incassare denaro pubblico senza rendicontare le spese, libere di diventare dei semplici parcheggi per minori, che più sono, meglio è. Il vicesindaco di Trieste, Paolo Polidori, ha provato a far luce sulla situazione anche rivolgendosi all'ambasciata del Pakistan in Italia, ma per ricevere risposte, non sono sufficienti le domande di un singolo Comune, servirebbe un interessamento da parte del governo, che non arriva. Dopo i pakistani, la comunità più numerosa di minori stranieri è quella proveniente dal Kosovo. Nel terzo trimestre del 2019, in Friuli Venezia Giulia erano 207. Il viaggio per arrivare in Italia pero loro è molto meno difficile. Con 8 ore di macchina e qualche mancia al confine con la Croazia, si è in Italia. Alcuni dei minori accolti fanno parte di bande in mano alla criminalità organizzata, come per esempio la Gang del kalashnikov, i cui membri spesso ne portano lo stemma tatuato sul collo, protagonista di un accoltellamento nell'ottobre scorso alla Scala dei Giganti, nel centro di Trieste. E intanto, intere zone del Kosovo e dell'Albania si stanno spopolando di giovani, diretti in Friuli, dove possono essere mantenuti a spese della Regione.
Nel riquadro, l'attivista Blm Tashella Sheri Amore Dickerson (Ansa)
Tashella Sheri Amore Dickerson, 52 anni, storica leader di Black lives matter a Oklaoma City è stata accusata da un Gran giurì federale di frode telematica e riciclaggio di denaro. Secondo i risultati di un’indagine condotta dall’Fbi di Oklahoma City e dall’Irs-Criminal Investigation e affidata procuratori aggiunti degli Stati Uniti Matt Dillon e Jessica L. Perry, Dickerson si sarebbe appropriata di oltre 3 milioni di dollari di fondi raccolti e destinati al pagamento delle cauzioni degli attivisti arrestati e li avrebbe investiti in immobili e spesi per vacanze e spese personali. Il 3 dicembre 2025, un Gran giurì federale ha emesso nei confronti dell’attivista un atto d’accusa di 25 capi, di cui 20 di frode telematica e cinque di riciclaggio di denaro. Per ogni accusa di frode telematica, Dickerson rischia fino a 20 anni di carcere federale e una multa fino a 250.000 dollari. Per ogni accusa di riciclaggio di denaro, l’attivista rischia fino a dieci anni di carcere e una multa fino a 250.000 dollari o il doppio dell’importo della proprietà di derivazione penale coinvolta nella transazione. Secondo gli inquirenti, a partire almeno dal 2016, Dickerson è stata direttore esecutivo di Black lives matter Okc (Blmokc). Grazie a quel ruolo Dickerson aveva accesso ai conti bancari, PayPal e Cash App di Blmokc.
L’atto d’accusa, la cui sintesi è stata resa nota dalle autorità federali, sostiene che, sebbene Blmokc non fosse un’organizzazione esente da imposte registrata ai sensi della sezione 501(c)(3) dell’Internal revenue code (la legge tributaria federale americana), accettava donazioni di beneficenza attraverso la sua affiliazione con l’Alliance for global justice (Afgj), con sede in Arizona. L’Afgj fungeva da sponsor fiscale per Blmokc, alla quale imponeva di utilizzare i suoi fondi solo nei limiti consentiti dalla sezione 501(c)(3). L’Afgj richiedeva inoltre a Blmokc di rendere conto, su richiesta, dell’erogazione di tutti i fondi ricevuti e vietava a Blmokc di utilizzare i suoi fondi per acquistare immobili senza il consenso dell’Afgj.
A partire dalla tarda primavera del 2020, Blmokc ha raccolto fondi per sostenere la sua presunta missione di giustizia sociale da donatori online e da fondi nazionali per le cauzioni. In totale, Blmokc ha raccolto oltre 5,6 milioni di dollari, inclusi finanziamenti da fondi nazionali per le cauzioni, tra cui il Community Justice Exchange, il Massachusetts Bail Fund e il Minnesota Freedom Fund. La maggior parte di questi fondi è stata indirizzata a Blmokc tramite Afgj, in qualità di sponsor fiscale.
Secondo l’atto d’accusa, il Blmokc avrebbe dovuto utilizzare queste sovvenzioni del fondo nazionale per le cauzioni per pagare la cauzione preventiva per le persone arrestate in relazione alle proteste per la giustizia razziale dopo la morte di George Floyd. Quando i fondi per le cauzioni venivano restituiti al Blmokc, i fondi nazionali per le cauzioni talvolta consentivano al Blmokc di trattenere tutto o parte del finanziamento della sovvenzione per istituire un fondo rotativo per le cauzioni, o per la missione di giustizia sociale del Blmokc, come consentito dalla Sezione 501(c)(3).
Nonostante lo scopo dichiarato del denaro raccolto e i termini e le condizioni delle sovvenzioni, l’atto d’accusa sostiene che a partire da giugno 2020 e almeno fino a ottobre 2025, Dickerson si è appropriata di fondi dai conti di Blmokc a proprio vantaggio personale. L’atto d’accusa sostiene che Dickerson abbia depositato almeno 3,15 milioni di dollari in assegni di cauzione restituiti sui suoi conti personali, anziché sui conti di Blmokc. Tra le altre cose, Dickerson avrebbe poi utilizzato questi fondi per pagare: viaggi ricreativi in Giamaica e nella Repubblica Dominicana per sé e i suoi soci; decine di migliaia di dollari in acquisti al dettaglio; almeno 50.000 dollari in consegne di cibo e generi alimentari per sé e i suoi figli; un veicolo personale registrato a suo nome; sei proprietà immobiliari a Oklahoma City intestate a suo nome o a nome di Equity International, Llc, un’entità da lei controllata in esclusiva. L’atto d’accusa sostiene inoltre che Dickerson abbia utilizzato comunicazioni interstatali via cavo per presentare due false relazioni annuali all’Afgj per conto del Blmokc. Dickerson ha dichiarato di aver utilizzato i fondi del Blmokc solo per scopi esenti da imposte. Non ha rivelato di aver utilizzato i fondi per il proprio tornaconto personale.
Tre anni fa una vicenda simile aveva travolto la cofondatrice di Black lives matter Patrisse Cullors, anche lei accusata di aver utilizzato i fondi donati per beneficenza al movimento per pagare incredibili somme di denaro a suo fratello e al padre di suo figlio per vari «servizi». Secondo le ricostruzioni del 2022, Paul Cullors, fratello di Patrisse, ha ricevuto 840.000 dollari sul suo conto corrente per aver presumibilmente fornito servizi di sicurezza al movimento, secondo i documenti fiscali visionati dal New York Post. Nel frattempo, l’organizzazione ha pagato una società di proprietà di Damon Turner, padre del figlio di Patrisse Cullors, quasi 970.000 dollari per aiutare a «produrre eventi dal vivo» e altri «servizi creativi». Notizie che, all’epoca, avevano provocato non pochi malumori, alimentate anche dal fatto che la Cullors si professava marxista e sosteneva di combattere per gli oppressi e le ingiustizie sociali.
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Francesca Albanese (Ansa)
Rispetto a due mesi fa, la percentuale degli sfiduciati è cresciuta di 16 punti mentre quella di coloro che si fidano è scesa di 9. Il 42% degli intervistati, maggiorenni e residenti in Italia, dichiara di non conoscere la relatrice pasionaria o di non avere giudizi da esprimere, il che forse è quasi peggio: avvolta dalla sfiducia e dall’indifferenza.
Il 53% degli elettori di centrodestra non si fida dell’Albanese, e questo era un dato diciamo scontato, ma fa riflettere che la giurista irpina abbia perso credibilità per il 47% di coloro che votano Pd. Appena il 34% degli elettori dem oggi si fida della relatrice Onu, sotto sanzioni da parte di Washington e accusata da Israele di ostilità strutturale. La sinistra, dunque, non si limita ad essere in disaccordo al suo interno se rilasciare o meno la cittadinanza onoraria alla pro Pal. Sta dicendo che non la sostiene più.
«I cattivi maestri di sinistra non piacciono agli italiani», ha subito postato su X il partito della premier Giorgia Meloni, che sempre secondo il sondaggio Youtrend sarebbe la più convincente per il 48% degli italiani in un ipotetico dibattito assieme a Giuseppe Conte ed Elly Schlein.
Tramonta dunque l’astro effimero di Albanese, spacciata per l’eroina progressista che condanna la violenza sui palestinesi mentre la giustifica a casa nostra. L’assalto alla redazione della Stampa doveva e deve servire «da monito alla stampa», ha dichiarato la relatrice Onu, confermando la pericolosità del suo attivismo politico.
Eppure ha continuato a essere invitata per esporre le sue idee anti Israele, e non solo. In alcune scuole della Toscana avrebbe «ripetuto i suoi soliti mantra, sostenendo che il governo Meloni sia composto da fascisti e complice di un genocidio, accusando Leonardo di essere una azienda criminale e arrivando persino a incitare gli studenti ad occupare le scuole, di fatto, incitando dei minorenni a commettere reati sanzionati dal codice penale», hanno scritto Matteo Bagnoli capogruppo di Fratelli d’Italia al Comune di Pontedera e Christian Nannipieri responsabile di Gioventù nazionale Pontedera.
La mossa successiva è stata un’interrogazione presentata da Alessandro Amorese, capogruppo di Fdi alla commissione Istruzione della Camera alla quale ha prontamente risposto il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, chiedendo agli organi competenti di avviare una immediata ispezione per verificare quanto accaduto in alcune scuole in Toscana.
Secondo l’interrogazione, anche una classe della seconda media dell’Istituto Comprensivo Massa 6 avrebbe partecipato ad un incontro proposto dalla rete di insegnanti Docenti per Gaza, con Francesca Albanese che esponeva le tematiche del suo libro Quando il mondo dorme. Storie, parole e ferite dalla Palestina.
Non solo, con una nuova circolare inviata alle scuole sul tema manifestazioni ed eventi pubblici all’interno delle istituzioni scolastiche, il ministro ribadisce l’esigenza che la scelta di ospiti e relatori sia «volta a garantire il confronto tra posizioni diverse e pluraliste al fine di consentire agli studenti di acquisire una conoscenza approfondita dei temi trattati e sviluppare il pensiero critico».
Una raccomandazione necessaria, alla luce anche di quanto stanno sostenendo i docenti del liceo Montale di Pontedera che in una nota hanno definito «attività formativa» la presentazione online del libro di Albanese ad alcune classi. «Un’iniziativa organizzata su scala nazionale nell’ambito delle attività di educazione alla cittadinanza globale, come previsto dal curriculum di Educazione civica d’istituto […] nel quadro delle iniziative promosse dalla scuola per favorire la partecipazione democratica, la conoscenza delle istituzioni internazionali e il dialogo tra studenti e professionisti impegnati in contesti globali», scrivono. Senza contraddittorio, le posizioni pro Pal e anti governo Meloni della relatrice Onu non sono «partecipazione democratica».
Incredibilmente, però, due giorni fa la relatrice è comparsa accanto a Tucker Carlson, il giornalista e scrittore tra i creatori dell’universo Maga, che gestisce la Tucker Carlson Network dopo aver lasciato Fox News. Intervistata, ha detto che gli Stati Uniti l’hanno sanzionata a causa del suo dettagliato resoconto sulle politiche genocide di Israele contro i palestinesi. «Una penna, questa è la mia sola arma», si è difesa Albanese raccontando che il suo rapporto con Washington sarebbe cambiato bruscamente dopo che ha iniziato a documentare come le aziende statunitensi non solo stavano consentendo le azioni di Israele a Gaza, ma traendo profitto da esse.
«Tucker sta promuovendo le opinioni di una donna sottoposta a sanzioni da parte degli Stati Uniti per aver preso di mira gli americani», ha protestato su X l’American Israel public affairs committee (Aipac), il più importante gruppo di pressione filo israeliano degli Stati Uniti. Ma c’è anche chi non si sorprende perché Carlson avrebbe cambiato opinione su Israele negli ultimi mesi, criticando l’amministrazione Trump per il supporto incondizionato dato allo Stato ebraico così come fa la sinistra antisionista.
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Kaja Kallas (Ansa)
Kallas è il falco della Commissione, quando si tratta di Russia, e tiene a rimarcarlo. A proposito dei fondi russi depositati presso Euroclear, l’estone dice nell’intervista che il Belgio non deve temere una eventuale azione di responsabilità da parte della Russia, perché «se davvero la Russia ricorresse in tribunale per ottenere il rilascio di questi asset o per affermare che la decisione non è conforme al diritto internazionale, allora dovrebbe rivolgersi all’Ue, quindi tutti condivideremmo l’onere».
In pratica, cioè, l’interpretazione piuttosto avventurosa di Kallas è che tutti gli Stati membri sarebbero responsabili in solido con il Belgio se Mosca dovesse ottenere ragione da qualche tribunale sul sequestro e l’utilizzo dei suoi fondi.
Tribunale sui cui l’intervistata è scettica: «A quale tribunale si rivolgerebbe (Putin, ndr)? E quale tribunale deciderebbe, dopo le distruzioni causate in Ucraina, che i soldi debbano essere restituiti alla Russia senza che abbia pagato le riparazioni?». Qui l’alto rappresentante prefigura uno scenario, quello del pagamento delle riparazioni di guerra, che non ha molte chance di vedere realizzato.
All’intervistatore che chiede perché per finanziare la guerra non si usino gli eurobond, cioè un debito comune europeo, Kallas risponde: «Io ho sostenuto gli eurobond, ma c’è stato un chiaro blocco da parte dei Paesi Frugali, che hanno detto che non possono farlo approvare dai loro Parlamenti». È ovvio. La Germania e i suoi satelliti del Nord Europa non vogliano cedere su una questione sulla quale non hanno mai ceduto e per la quale, peraltro, occorre una modifica dei trattati su cui serve l’unanimità e la ratifica poi di tutti i parlamenti. Con il vento politico di destra che soffia in tutta Europa, con Afd oltre il 25% in Germania, è una opzione politicamente impraticabile. Dire eurobond significa gettare la palla in tribuna.
In merito all’adesione dell’Ucraina all’Unione europea già nel 2027, come vorrebbe il piano di pace americano, Kallas se la cava con lunghe perifrasi evitando di prendere posizione. Secondo l’estone, l’adesione all’Ue è una questione di merito e devono decidere gli Stati membri. Ma nel piano questo punto è importante e sembra difficile che venga accantonato.
Kallas poi reclama a gran voce un posto per l’Unione al tavolo della pace: «Il piano deve essere tra Russia e Ucraina. E quando si tratta dell’architettura di sicurezza europea, noi dobbiamo avere voce in capitolo. I confini non possono essere cambiati con la forza. Non ci dovrebbero essere concessioni territoriali né riconoscimento dell’occupazione». Ma lo stesso Zelensky sembra ormai convinto che almeno un referendum sulla questione del Donbass sia possibile. Insomma, Kallas resta oltranzista ma i fatti l’hanno già superata.
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Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
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