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2022-04-16
Immigrato dei saccheggi di Torino picchia e riduce in fin di vita bimbo
Saccheggi a Torino nel 2021 (Ansa/Polizia di Stato)
Per aver bevuto un bicchiere d’acqua senza permesso e aver vomitato nell’auto della nonna l’avrebbe punito legandogli le mani dietro la schiena con una sciarpa per poi prenderlo a pugni all’addome, procurandogli gravissime lesioni interne. Il piccolo ha sei anni ed è finito in ospedale a gennaio, dove si è salvato dopo un delicatissimo intervento chirurgico al Regina Margherita. L’aggressore è un marocchino di 23 anni, già coinvolto nell’inchiesta sui predoni dei negozi di lusso che distrussero le vetrine in via Roma, e ora è accusato di tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia per aver «martoriato» il suo figliastro. «Tu adesso puoi fare tutto quello vuoi, non mi devi più chiedere nulla, ok? Perché io ti voglio bene e non voglio che tu stia male. Quello che tu vuoi, puoi farlo: andare dalla nonna, al mare, al parco, in piscina. Puoi fare quello che vuoi, basta che quando ti chiedono cosa è successo, dici che sei caduto dalle scale». Con queste parole pensava di convincere il bimbo a non raccontare l’orrore che viveva a casa. Ma gli investigatori, su disposizione del pm della Procura di Torino, Enzo Bucarelli, hanno captato quelle chiacchierate nella stanza d’ospedale in cui era ricoverato il bambino. La versione da ripetere era sempre la stessa: «Sei caduto e ti abbiamo portato in ospedale». Era stata già la mamma, al momento dell’arrivo al Pronto soccorso, a raccontare la storiella della caduta dalle scale. E il bimbo avrebbe dovuto confermarla. Ma le ferite riscontrate dai medici sarebbero risultate subito incompatibili con la favoletta dell’incidente. I lividi riscontrati nell’area addominale sembravano parlare chiaro. E dal posto di polizia dell’ospedale è partita subito la segnalazione alla Procura della Repubblica. Ogni conversazione captata dagli inquirenti si è trasformata in un tassello dell’accusa: «Ti prometto che non la faccio mai più. Quando esci andiamo alle giostre, ti compro la Play Station, ma non parlare». E ancora: «Se parli ti portano via e non ti vediamo più». Anche la mamma, indicata dagli investigatori come «succube del convivente» insiste col piccolo per fargli dire quella «bugia». E, convocata dagli investigatori, all’inizio nega. Quando il compagno, però, finisce in carcere con l’accusa aver preso parte alle razzie nei negozi di via Roma, si presenta in Procura e racconta l’incubo in cui era finita: picchiata e maltrattata anche mentre era incinta della seconda figlia, punizioni per il bambino, che poteva mangiare e bere solo quando lo diceva il patrigno e che in un’occasione sarebbe stato lasciato sul balcone, al freddo, con i capelli bagnati dopo la doccia. E sono saltate fuori registrazioni in cui il compagno, come riportato dalla cronaca locale torinese, terrorizzava il bambino, ripetendo le battute del film horror It: «Ti uccido, oggi ti uccido». Sentito alla presenza di uno psicologo, poi, il piccolo ha ammesso che il patrigno l’aveva picchiato, mimando i pugni e indicando la pancia. Prima non aveva mai raccontato quello che accadeva a casa e anche a scuola diceva alle maestre che andava tutto bene. Anche se era capitato che proprio in classe aveva vomitato e, subito dopo, aveva supplicato le maestre di non dirlo ai genitori «perché era stato costretto dal patrigno a mangiare del sale». L’unico campanello d’allarme era suonato durante una conversazione con una zia materna, alla quale, parlando del patrigno, aveva detto: «Mangio tanti spinaci per diventare forte e potergli dare un pugno». Le ultime due aggressioni, hanno ricostruito gli investigatori, sarebbero state così violente da spappolargli l’intestino, causargli lesioni polmonari, al pancreas e ai reni. Il marocchino ha fatto scena muta durante l’interrogatorio di garanzia. Ma ora ha fatto sapere che vuole tornare dal pm per collaborare con gli inquirenti. Probabilmente verrà convocato già dopo Pasqua. «Racconterà la verità», ha detto il suo difensore, l’avvocato Basilio Foti. «È un caso che se confermato in fase processuale dimostrerebbe ancora una volta che rispetto ai maltrattamenti in famiglia non bisogna abbassare la guardia. È doppiamente grave che coinvolga un minore ma anche la sua mamma. Servono oltre alle doverose misure previste anche dal codice rosso attività di informazione e formazione che partano da scuola e coinvolgano le donne, anche immigrate, ad avere maggiore consapevolezza dei propri diritti», ha commentato Augusta Montaruli, deputata torinese di Fratelli d’Italia. «Sconcerta quanto questo terribile episodio si accomuni alla tragedia della piccola Fatima, la bimba di tre anni caduta dal balcone mentre si trovava con il patrigno lo scorso gennaio. Episodi dove le indagini sono tuttora in corso, ma che evidenziano senza alcun dubbio una situazione di disagio sociale e di una fallita integrazione multietnica. Gli stranieri a Torino sono sempre più ghettizzati in quartieri ormai simili alle banlieue parigine, dove diventa impossibile una sana integrazione e il rispetto della civile convivenza», ha detto alla Verità il vicepresidente di Nazione futura, Ferrante De Benedictis. «È un dispiacere per la nostra comunità», è sbottato il consigliere regionale leghista Claudio Leone. «Un bambino di sei anni picchiato in modo brutale», ha aggiunto, «lascia molti interrogativi sull’integrazione in questa città. Ringrazio i sanitari che, oltre ad aver salvato il piccolo, con la segnalazione hanno portato all’arresto del patrigno. Fatti come questo confermano che Torino ha bisogno di cambiare marcia».
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L’uomo, di origini marocchine, era stato identificato fra i razziatori che scatenarono il caos in pandemia. Ha percosso e torturato il figlio di 6 anni della compagna: aveva pancreas e intestino lesionati, poteva morire. Per aver bevuto un bicchiere d’acqua senza permesso e aver vomitato nell’auto della nonna l’avrebbe punito legandogli le mani dietro la schiena con una sciarpa per poi prenderlo a pugni all’addome, procurandogli gravissime lesioni interne. Il piccolo ha sei anni ed è finito in ospedale a gennaio, dove si è salvato dopo un delicatissimo intervento chirurgico al Regina Margherita. L’aggressore è un marocchino di 23 anni, già coinvolto nell’inchiesta sui predoni dei negozi di lusso che distrussero le vetrine in via Roma, e ora è accusato di tentato omicidio e maltrattamenti in famiglia per aver «martoriato» il suo figliastro. «Tu adesso puoi fare tutto quello vuoi, non mi devi più chiedere nulla, ok? Perché io ti voglio bene e non voglio che tu stia male. Quello che tu vuoi, puoi farlo: andare dalla nonna, al mare, al parco, in piscina. Puoi fare quello che vuoi, basta che quando ti chiedono cosa è successo, dici che sei caduto dalle scale». Con queste parole pensava di convincere il bimbo a non raccontare l’orrore che viveva a casa. Ma gli investigatori, su disposizione del pm della Procura di Torino, Enzo Bucarelli, hanno captato quelle chiacchierate nella stanza d’ospedale in cui era ricoverato il bambino. La versione da ripetere era sempre la stessa: «Sei caduto e ti abbiamo portato in ospedale». Era stata già la mamma, al momento dell’arrivo al Pronto soccorso, a raccontare la storiella della caduta dalle scale. E il bimbo avrebbe dovuto confermarla. Ma le ferite riscontrate dai medici sarebbero risultate subito incompatibili con la favoletta dell’incidente. I lividi riscontrati nell’area addominale sembravano parlare chiaro. E dal posto di polizia dell’ospedale è partita subito la segnalazione alla Procura della Repubblica. Ogni conversazione captata dagli inquirenti si è trasformata in un tassello dell’accusa: «Ti prometto che non la faccio mai più. Quando esci andiamo alle giostre, ti compro la Play Station, ma non parlare». E ancora: «Se parli ti portano via e non ti vediamo più». Anche la mamma, indicata dagli investigatori come «succube del convivente» insiste col piccolo per fargli dire quella «bugia». E, convocata dagli investigatori, all’inizio nega. Quando il compagno, però, finisce in carcere con l’accusa aver preso parte alle razzie nei negozi di via Roma, si presenta in Procura e racconta l’incubo in cui era finita: picchiata e maltrattata anche mentre era incinta della seconda figlia, punizioni per il bambino, che poteva mangiare e bere solo quando lo diceva il patrigno e che in un’occasione sarebbe stato lasciato sul balcone, al freddo, con i capelli bagnati dopo la doccia. E sono saltate fuori registrazioni in cui il compagno, come riportato dalla cronaca locale torinese, terrorizzava il bambino, ripetendo le battute del film horror It: «Ti uccido, oggi ti uccido». Sentito alla presenza di uno psicologo, poi, il piccolo ha ammesso che il patrigno l’aveva picchiato, mimando i pugni e indicando la pancia. Prima non aveva mai raccontato quello che accadeva a casa e anche a scuola diceva alle maestre che andava tutto bene. Anche se era capitato che proprio in classe aveva vomitato e, subito dopo, aveva supplicato le maestre di non dirlo ai genitori «perché era stato costretto dal patrigno a mangiare del sale». L’unico campanello d’allarme era suonato durante una conversazione con una zia materna, alla quale, parlando del patrigno, aveva detto: «Mangio tanti spinaci per diventare forte e potergli dare un pugno». Le ultime due aggressioni, hanno ricostruito gli investigatori, sarebbero state così violente da spappolargli l’intestino, causargli lesioni polmonari, al pancreas e ai reni. Il marocchino ha fatto scena muta durante l’interrogatorio di garanzia. Ma ora ha fatto sapere che vuole tornare dal pm per collaborare con gli inquirenti. Probabilmente verrà convocato già dopo Pasqua. «Racconterà la verità», ha detto il suo difensore, l’avvocato Basilio Foti. «È un caso che se confermato in fase processuale dimostrerebbe ancora una volta che rispetto ai maltrattamenti in famiglia non bisogna abbassare la guardia. È doppiamente grave che coinvolga un minore ma anche la sua mamma. Servono oltre alle doverose misure previste anche dal codice rosso attività di informazione e formazione che partano da scuola e coinvolgano le donne, anche immigrate, ad avere maggiore consapevolezza dei propri diritti», ha commentato Augusta Montaruli, deputata torinese di Fratelli d’Italia. «Sconcerta quanto questo terribile episodio si accomuni alla tragedia della piccola Fatima, la bimba di tre anni caduta dal balcone mentre si trovava con il patrigno lo scorso gennaio. Episodi dove le indagini sono tuttora in corso, ma che evidenziano senza alcun dubbio una situazione di disagio sociale e di una fallita integrazione multietnica. Gli stranieri a Torino sono sempre più ghettizzati in quartieri ormai simili alle banlieue parigine, dove diventa impossibile una sana integrazione e il rispetto della civile convivenza», ha detto alla Verità il vicepresidente di Nazione futura, Ferrante De Benedictis. «È un dispiacere per la nostra comunità», è sbottato il consigliere regionale leghista Claudio Leone. «Un bambino di sei anni picchiato in modo brutale», ha aggiunto, «lascia molti interrogativi sull’integrazione in questa città. Ringrazio i sanitari che, oltre ad aver salvato il piccolo, con la segnalazione hanno portato all’arresto del patrigno. Fatti come questo confermano che Torino ha bisogno di cambiare marcia».
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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