2021-11-17
Imitiamo Londra: sì ai richiami e niente green pass
Qualche mattacchione sostiene che, per un pugno di copie in più (il nostro è uno dei pochissimi quotidiani le cui vendite crescono, mentre quelle degli altri calano) noi della Verità saremmo diventati no vax. In realtà, noi siamo no paz, nel senso che non ci facciamo contagiare dalla follia isterica che spinge tante persone a bersi qualsiasi frottola, compresa quella che rinchiudendo in casa gli italiani non immunizzati l'epidemia sparirà come per magia. La bugia più incredibile, raccontata a reti unificate da virologi e giornalisti, è che i vaccinati non finiscano in terapia intensiva.Anzi, neppure in ospedale. A parte che le corsie sono piene di medici e infermieri che, nonostante la doppia dose, si sono riammalati (a dimostrazione che il virus circola anche tra chi è immunizzato), sostenere che le persone vaccinate non corrano il rischio di essere ricoverate in rianimazione è un falso colossale. Si può dire che in percentuale ci finiscano meno di chi non si è sottoposto all'iniezione, ma negare che nonostante l'inoculazione ci si possa ammalare e anche gravemente, significa negare l'evidenza. Di Franco Locatelli, portavoce del Comitato tecnico scientifico, cioè di un tizio che dovrebbe essere una voce incontestabile, ci siamo già occupati nei giorni scorsi, così come di Fabrizio Pregliasco, in servizio permanente davanti alle tv a sostenere l'insostenibile. Entrambi, ignorando i dati pubblicati dall'Istituto superiore di sanità, insistono a dire che grazie al vaccino i ricoverati si contano solo tra i renitenti alle dosi anti Covid. Ma la lista dei professori che non si rassegnano ai numeri ufficiali, si allunga di giorno in giorno e l'ultima a unirsi alla combriccola di virologi è stata l'altra sera, nella trasmissione condotta da Lilli Gruber su La 7, l'immunologa Antonella Viola. La quale, con perentorietà che non ammette repliche, ha informato i telespettatori che «in ospedale per Covid finiscono ormai quasi solo i non vaccinati». Peccato che la realtà non corrisponda a tanta certezza. A noi piacerebbe che fosse così, perché significherebbe che i vaccini offrono un'alta protezione dal Covid, ma così non è. Se dopo una seconda dose ne è richiesta una terza, vuol dire che le prime due, dopo un certo periodo esauriscono la loro efficacia e dunque, a differenza di ciò che si pensava, dopo pochi mesi occorre offrire nuovamente il braccio.Siamo noi che supponiamo male e tiriamo conclusioni affrettate che hanno carenza di logica? No. Lo dice perfino l'assessore alla Salute della Regione Lazio, uno che non è certo sospetto di simpatie sovraniste o per i no vax, dato che fa parte della giunta guidata da Nicola Zingaretti. Fino a ieri Alessio D'Amato era portato in palmo di mano dalla sinistra e dalla stampa, in quanto all'inizio della campagna vaccinale era stato il più veloce nell'allestire i centri per la somministrazione delle dosi anti Covid. Grazie alla rapidità con cui si era mosso, la sua Regione era balzata in testa alla lista delle più efficienti, battendo anche la Lombardia. Ma dopo l'iniziale successo, ora il Lazio svetta per numero di contagi, insieme con Veneto, Emilia Romagna e Friuli, con un numero superiore a quello della Regione guidata da Attilio Fontana, che però ha quasi il doppio degli abitanti. Tutto ciò con un tasso vaccinale dai 12 anni in su che è pari all'87,5%. Che la situazione sia molto diversa da quella che raccontano in tv i vari Locatelli, Pregliasco, Viola e compagnia lo dice lo stesso assessore D'Amato il quale, intervistato dal Messaggero, ieri ha ammesso di essere preoccupato. «Ci stanno arrivando dei segnali che non ci piacciono», ha detto al quotidiano romano. «Vediamo troppi casi, anche gravi, tra chi si è vaccinato sei mesi fa. Bisogna cambiare strategia contro il Covid, imitare il Regno Unito e offrire la terza dose prima, a cinque mesi dalla seconda».Chi l'avrebbe mai detto? Dopo mesi passati ad ascoltare politici, virologi e giornalisti dire che in Italia siamo i più bravi di tutti e tutti prendono esempio da noi, poi ci tocca sentire che dobbiamo imitare la Gran Bretagna dell'odiato Boris Johnson, il pagliaccio biondo della Brexit e della strategia delle riaperture. Ma chi lo spiega a Locatelli, Pregliasco, Viola e compagnia bella che a Londra il green pass non esiste? Servirà l'ufficio fake news che qualche altro mattacchione voleva istituire per uniformare le notizie? Sapete come si dice dalle mie parti? Ma andate a scopare il mare!
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)