2020-08-22
Imbarazzi, giravolte, silenzi: il referendum manda in tilt i dem
Nicola Zingaretti e Virginia Raggi (Ansa)
Cresce la fronda del no. Altri, come Stefano Ceccanti, rinnegano l'ostilità alla bandiera 5 stelle. E Zinga è nel pallone sulla legge elettorale.Prima o poi tutti i nodi vengono al pettine: «quando c'è il pettine», ammoniva con scetticismo Leonardo Sciascia. Fino a qualche giorno fa, al Pd era riuscita - quasi senza pagare costi politici significativi - un'autentica acrobazia sul referendum sul taglio dei parlamentari. Infatti su questa iniziativa, cara ai grillini, Nicola Zingaretti e i suoi ne hanno letteralmente combinate di tutti i colori: a lungo contrari alla riforma, sono poi improvvisamente divenuti favorevoli nell'ultima delle quattro votazioni parlamentari, avendo nel frattempo varato l'alleanza giallorossa. Ora però il referendum è alle porte, e l'imbarazzo è sempre più difficile da contenere. Una parte del partito è silente, un'altra si è allineata (non senza qualche testacoda), ma un'altra ancora si esprime rumorosamente per il no. Uno dei primi a invitare a votare no è stato l'ex presidente del partito, Matteo Orfini, dopo naturalmente Tommaso Nannicini, tra i promotori al Senato della richiesta di referendum contro la riforma. Con loro anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori e Gianni Cuperlo, il quale non solo ha annunciato il voto per il no, ma ha pure esplicitamente chiesto che il partito scelga la linea della libertà di coscienza. Voci insistenti preannunciano inoltre una possibile presa di posizione per il no da parte di Vincenzo De Luca, in corsa per le regionali in Campania. Sul versante opposto, schieratissimo per il sì (ieri un suo intervento molto netto sul Foglio) c'è l'ex viceministro dell'Economia, Enrico Morando («È da riformisti veri dire sì al referendum. Ed è il modo giusto per togliere forza ai populisti»). Molto attivo (con interviste al Dubbio e a Repubblica) anche il costituzionalista e deputato Stefano Ceccanti, che oggi invita a votare sì, ma fu a suo tempo protagonista di un tonitruante intervento in Aula (applauditissimo dai colleghi di gruppo): «Bisogna saper spiegare agli elettori delle scelte impopolari, com'è votare contro questo spot elettorale». Sui social, ha avuto buon gioco a infilare la lama nel burro di questa contraddizione Carlo Calenda: «Quello che stupisce è l'assenza di preoccupazione per la propria reputazione. Anche in una persona seria come Stefano Ceccanti. Sembrano colpiti da un oblio etico prima che politico. Stupefacente». Ancora più significativa, in termini di influenza sull'opinione pubblica progressista, è la scelta del quotidiano Repubblica: l'altro giorno un editoriale molto argomentato a favore del no del direttore Maurizio Molinari, e ieri due paginoni sulla stessa linea, dando conto per un verso della mobilitazione per il no tra costituzionalisti, magistrati, intellettuali e società civile, più l'arcipelago formato da Anpi, Acli e Arci (insomma, tutte aree variamente riconducibili all'elettorato dem), e per altro verso ridando spazio al caposardina Mattia Santori, pure lui arruolato per il no («Chi vota sì vuole l'oligarchia»). A complicare le cose, c'è anche un tema che riguarda la legge elettorale. Il Pd, come minimo sindacale di autotutela e rivendicazione di orgoglio politico, aveva inizialmente chiesto l'approvazione prima del 20 settembre di una legge elettorale gradita almeno in un ramo del Parlamento. Non solo la cosa non è più realisticamente possibile, ma sembra naufragata perfino l'approvazione parziale e simbolica di un testo nella sola commissione Affari Costituzionali alla Camera, prima del passaggio in Aula. Insomma, nemmeno un ok preliminare, neanche un piccolo semaforo verde interlocutorio che Zingaretti e i suoi possano usare come foglia di fico per la campagna elettorale. Non sorprende, a questo punto, che già due volte (è successo il 19 e il 20 agosto scorsi) il Pd abbia rinunciato a inviare suoi rappresentanti alle (peraltro semiclandestine) tribune referendarie della Rai. Difficile pensare che sia stato il «generale agosto», cioè le ferie, a non far trovare al Nazareno un cireneo in grado di presentarsi negli studi televisivi e portare la piccola croce di illustrare le ragioni e gli argomenti del suo partito. Più probabile che non si siano proprio trovati - è il caso di dirlo - le ragioni e gli argomenti del partito, o almeno ragioni e argomenti minimamente condivisi. Inutile girarci intorno. È questa una delle spie sul cruscotto che mostrano la precarietà e il disagio del rapporto con i grillini. La stessa alleanza sul piano nazionale, forse festeggiata con troppo anticipo la scorsa settimana (anche da Zingaretti) dopo il voto su Rousseau, non si è concretizzata in ben 5 regioni su 6, con le ultime rivolte grilline ancora rumorosamente in corso in Puglia e Marche. E, quanto al Pd, soffrono gli ex renziani rimasti nel partito (dal sindaco di Firenze, Dario Nardella, al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini), e sono molti quelli che insistono per quella che, se ci fosse razionalità, sarebbe la strada maestra per un partito: tenere un congresso e decidere la linea politica, a partire dal punto dirimente dell'alleanza o no con i grillini. E invece Zingaretti (del quale pure si ricorda un intervento fiammeggiante prima che fosse varato il Conte 2: «Io ve lo dico davanti a tutti e lo dirò per sempre. Mi sono perfino stancato e lo trovo umiliante, mi sono perfino stancato di dire che non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con il M5s. Li ho sconfitti due volte e non governo con loro!») non solo ha smentito quell'impegno solenne, ma ha pensato di poter assorbire i grillini in modo indolore. Per ora l'operazione è tutt'altro che riuscita.