2023-12-03
Agonia per l’Ilva: altri soci o nazionalizzare
Franco Bernabè (Imagoeconomica)
Mercoledì l’assemblea. Fitto torna all’idea di 6 mesi fa e propone a Invitalia di acquisire un ulteriore 20% con partner del settore. Ma quelli disponibili a giugno ora trattano per Piombino. Senza contrappeso ad Arcelor, Taranto deraglia. Meglio che entri lo Stato.Il 6 dicembre ci sarà la terza seduta della medesima assemblea, quella dell’ex Ilva. Riunioni aperte e chiuse con sostanziali buchi nell’acqua. La produzione della disgraziata acciaieria di Taranto quest’anno non supererà la soglia delle 3 milioni di tonnellate. Esattamente quanto Ilva registrava nel 1967, all’incirca un quarto della soglia record toccata ai tempi della famiglia Riva, decapitata dall’inchiesta giudiziaria. Nel primo tentativo di rilancio ormai nove anni fa si fissava la soglia di 8 milioni. Nell’ultimo piano industriale condiviso con tanto di bonifiche di 6 milioni di tonnellate. Ecco, siamo alla metà. Ciliegina sulla torta. Da domani Acciaierie d’Italia, la società al 40% di Invitalia e al 60 di Am InvestCo (gli indiani di Arcelor Mittal) chiude anche l’altoforno 2. Ufficialmente per fare manutenzione. Ma in molti si chiedono se non sia la classica mossa provvisoria che dura più di quelle definitive. Risultato? L’ex Ilva ha bisogno di 320 milioni di euro per chiudere il bilancio di quest’anno. Probabilmente a dicembre il conto può salire di altri 30 milioni. Ma già si sa che per arrivare a fine aprile del 2024 ne serviranno altri 350. La lenta agonia è frutto di una serie di ritardi, scelte sbagliate - soprattutto nel 2019, quando il governo Conte si rimangiò lo scudo penale (a garanzia degli interventi di bonifica) - ed eccessiva debolezza nei confronti del socio privato, guidato dall’ad Lucia Morselli. La quale da un lato amministra Taranto e dall’altro fa gli interessi del colosso franco indiano. Più l’Italia è debole, più Arcelor guadagna miliardi nei suoi stabilimenti all’estero. Basti pensare che durante il Covid e appena dopo il lockdown, le acciaierie di tutto il mondo triplicavano i margini per via dei prezzi schizzati, il sito di Taranto andava in buona parte in cassa integrazione. In questo percorso a ostacoli si è inserito l’attuale governo. Lo scorso anno a dicembre ha riscritto il patto parasociale e ha ripristinato lo scudo penale. Non è bastato a rimettere in carreggiata i soci privati, e così si sono studiate due strade. Una al Mimit e l’altra - poi - a Palazzo Chigi, sotto la direzione di Raffaele Fitto. Il primo percorso è culminato a giugno, quando in una conference call riservata alla presenza dei due ministri e della Morselli si indicò chiaramente la possibilità di far salire al 60% Invitalia e poi cedere quasi contestualmente due quote da 10% al gruppo italiano Danieli e a quello ucraino di Metinvest, i proprietari della celebre Azovstal di Mariupol. Era già stato identificato il nuovo ad. Sarebbe dovuto essere Mauro Longobardo , attuale ad di Arcelor Mittal Ucraina. Con l’estate, però, le cose sono cambiate. Il piano di Fitto ha preso il sopravvento. Si sarebbe trattato di usare i fondi europei per il rialncio. Alla Morselli ovviamente l’opzione B è piaciuta molto di più. Se non fosse perché non prevedeva il suo licenziamento. Peccato che sarebbe stata sempre lei a far saltare il tappo a ottobre, quando ha inviato nella chat dei consiglieri di Acciaierie la bozza del memorandum che stava per siglare con gli uffici di Fitto. Reazione? Bernardo Mattarella, ad di Invitalia, si infuria per essere stato bypassato. Manda una lettera di fuoco. Tutto si incaglia e il presidente Franco Bernabè minaccia le dimissioni. Lo fa da ormai due mesi. Non le rassegna, però. Nell’attesa di capire se e come la sua sorte possa essere legata ad Acciaierie. Commissariare il tutto? Fare fallire lo stabilimento mettendolo in liquidazione? Forse lo sapremo il 6 dicembre, giorno in cui l’assemblea si riaggiorna. Molto probabilmente no. Anche perché sarebbe uno smacco incredibile. A quanto risulta alla Verità il piano di Palazzo Chigi, via Fitto, sarebbe quello di riavvolgere il nastro alla situazione di giugno, e proporre a Invitalia di salire al 60% di Acciaierie per poi trovare partner industriali. Il problema però è che i due individuati a giugno (Danieli e Metinvest, come detto) ora non sono più disponibili. Sono impegnati in una trattativa con il Mimit e con gli altri indiani di Jindal (consigliere Marco Carrai) per subentrare a Piombino. La trattativa marcia abbastanza spedita. Mancano alcune autorizzazioni del demanio. Se così fosse l’acciaio italiano troverebbe una boccata di ossigeno. La produzione della penisola risalirebbe. Ma in ogni caso Taranto rimarrebbe il buco nero che è ora. Il rischio è che Invitalia investa, ma resti senza una sponda industriale degna di tale nome. E quindi lo scenario sarebbe quello di Alitalia: fondi su fondi per sostenere il progressivo deperimento dell’ex Ilva. Lo scorso 30 novembre c’è stata una riunione di governo. Oltre a Giorgia Meloni, Adolfo Urso, anche Alfredo Mantovano, a indicare la gravità della situazione. Nessuno può permettersi che salti il banco a Taranto. Resta sempre l’ipotesi azzardata - ma molto sensata - di nazionalizzare l’intero gruppo dell’acciaio. Il settore resterà ad alta marginalità e quindi si guadagna. Solo che l’Europa si metterebbe in mezzo. A meno che si provi la mossa ardita di coinvolgere il ministro francese Bruno Le Maire. Anche a Parigi soffrono i metodi di Arcelor Mittal. E una nazionalizzazione transfrontaliera sul modello StMicroelectronics metterebbe a tacere Bruxelles. Non restano tantissime strade aperte. E - vale la pena ribadirlo - senza acciaio non si sta nel G7.
Lo ha dichiarato il presidente del Consiglio europeo in occasione del suo incontro con il premier greco Kyriakos Mitsotakis.