2020-04-11
Il virus aggrava il limbo dei figli surrogati
Shandi Phelps, americana residente nell'Oregon, tra poco partorirà un bambino per una coppia cinese. I committenti hanno pagato, ma a causa dell'epidemia non possono andare negli Usa a ritirarlo. «Decine di famiglie hanno lo stesso problema».In un paio di settimane o poco più, Shandi Phelps darà alla luce un bambino in una piccola clinica dell'Oregon, negli Stati Uniti d'America. Il suo non sarà un parto come tutti gli altri: Shandi, infatti, è una mamma surrogata che ha affittato il suo utero a una coppia di cinesi che oggi, a causa del coronavirus, si trovano a oltre 10.000 chilometri di distanza, impossibilitati dai vari divieti a raggiungere gli Stati Uniti. Senza una pandemia in atto, la storia di Shandi, il racconto di una maternità surrogata per una coppia Oltreoceano, sarebbe stato qualcosa di sentito e risentito e che, con tutta probabilità, sarebbe passato inosservato. Come fosse un qualcosa del tutto normale. In un altro scenario, Shandi avrebbe dato alla luce il bambino di cui è portatrice, lo avrebbe affidato alle cure della famiglia cinese che glielo ha commissionato ormai quasi un anno fa, e tutto si sarebbe risolto con il ritorno dei neogenitori in Cina e di Shandi nella sua casa a Grants Pass, un comune di 37.000 anime della contea di Josephine.Quello che si apre ora, invece, è un limbo in cui verrà gettato senza mezzi termini un neonato totalmente ignaro di quello che sta succedendo nel mondo. «Da gennaio la mia vita ha preso una deviazione inaspettata» ci racconta Shandi. Era infatti il 23 gennaio quando a Wuhan, nella provincia cinese dell'Hubei, le autorità locali annunciavano la messa in quarantena della città a causa di un nuovo virus, altamente contagioso e letale, conosciuto come Covid-19. «Ero al sesto mese, la famiglia in Cina mi rassicurava che tutto si sarebbe risolto», continua, «ma le notizie sull'esplosione del coronavirus nel mondo, dalla Cina all'Italia non hanno fatto che susseguirsi, una dopo l'altra, minuto dopo minuto. Stare incollati ai telegiornali, non serviva a niente. Le notizie, non sembravano essere per nulla rassicuranti. Che fare? Ancora oggi lo chiedo ogni giorno a mio marito ma non trovo alcuna soluzione». Già, perché con la chiusura delle frontiere e l'impossibilità di voli da/per la Cina, i committenti del neonato che Shandi porta in grembo non potranno mai «ritirare» il loro acquisto. O almeno, non in tempi brevi. «Quando ho iniziato questo percorso avevamo bisogno di soldi per la scuola dei bambini», spiega Shandi, «è la mia prima esperienza. Prima di decidere ho stilato una lunga lista di pro e contro, ho immaginato ogni problema possibile. Sono arrivata a pensare a cosa avrei provato in caso di aborto. Mai avrei immaginato di dover mettere al mondo un bambino e lasciarlo in un limbo, senza i suoi veri genitori». Senza la possibilità che il nascituro venga ospitato per il tempo necessario nella famiglia di Shandi e Geoff Phelps, l'opzione già sensata, secondo il direttore dell'ufficio legale del Surrogacy center di Portland, sarebbe quella di «allontanare il bambino e affidarlo alle cure di una tata per tutto il tempo necessario». «La storia dei Phelps non è l'unica nell'Oregon», spiegano dalla clinica, «ci sono dozzine di famiglie con lo stesso problema perché il nostro Stato è uno dei pochi che non vieta la surrogazione di maternità per coppie straniere e la situazione si sta evolvendo in modo estremamente rapido. Per questo dobbiamo capire come aiutare tutti senza creare traumi alle famiglie delle portatrici». Nei messaggi che ci siamo scambiati con l'ufficio legale del Surrogacy center di Portland non c'è alcun riferimento al nascituro che viene considerato, invece, solo come «una pratica da smaltire» il più rapidamente possibile. Ma Shandi, che è mamma di altri due bambini, Addie di 12 anni e Wyatt di 5, a cui ha dovuto per mesi spiegare che quello nella sua grande pancia non sarebbe stato un fratellino o una sorellina per loro, ancora oggi rimane dell'idea che sia difficile, se non impossibile non intervenire in prima persona in questa situazione. «Partorire e consegnare il bambino a degli sconosciuti? Non credo di poterlo fare. Non in questo momento», ci spiega. «Cambio idea ogni giorno. Ieri non avevo alcuna intenzione di accogliere un neonato nella mia famiglia, per un tempo indeterminato, e soprattutto sapendo di causare senza alcun dubbio un trauma nella sua vita e in quella della mia famiglia». Nel caso del piccolo che Shandi Phelps porta in grembo, la soluzione paventata dalla clinica sarebbe quella di prelevare il neonato subito dopo il parto e portarlo nel Sud della California dove verrebbe affidato alle cure di una tata fino a che i suoi veri genitori non potranno partire per portarlo nella sua vera casa. «Mi sembrava una soluzione sensata, fino a ieri» ci rivela Shandi «ma il pensiero di affidare un neonato a una sconosciuta ora mi terrorizza. Così, abbiamo pensato di tenerlo nella nostra famiglia per tutto il tempo necessario». Shandi non allatterà il neonato ma si è offerta, se non si troverà una soluzione alternativa, a utilizzare un tiralatte e un biberon. Inoltre, in comune accordo con la famiglia, riceverà un rimborso spese per tutte quelle attività collaterali che potrebbero rendersi necessarie nel futuro se l'emergenza sanitaria non dovesse rientrare in tempi brevi. Come segno di gratitudine per la scelta dei Phelps, la famiglia cinese, che ha preferito non commentare la situazione, ha solo fatto sapere che «il bambino avrà due nomi: uno cinese e uno inglese, che potrà essere selezionato dai Phelps». «Sarà dura», ci ha confessato Geoff, il marito di Shandi. «Alla fine sarà come avere un figlio adottivo, sicuramente ci affezioneremo a lui, e sarà difficile dirgli addio. Ma come possiamo abbandonarlo proprio ora?».
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