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2022-06-03
Il trucchetto anti embargo dei russi: scambi di barili con le navi europee
Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.
Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet.
In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche?
Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.
Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar.
In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.
Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero.
Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.
Soccorso di Opec+ sul caro prezzi
Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione.
Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio.
Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero.
Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti.
Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti.
Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran».
L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
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Fino ad oggi, i cargo ellenici e maltesi hanno fatto da hub alla Federazione. Ora, per occultare la provenienza del greggio, basterà diluirlo con quello prodotto da Paesi terzi, o riassegnare una bandiera alle imbarcazioni.Soccorso di Opec+ sul caro prezzi. L’ente di monitoraggio Usa chiede al cartello degli esportatori un aumento del 50% della produzione. E dopo i dissapori sull’Iran, Joe Biden prova a riavvicinarsi ai sauditi. Lo speciale comprende due articoli.Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet. In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche? Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar. In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero. Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-trucchetto-anti-embargo-dei-russi-scambi-di-barili-con-le-navi-europee-2657447107.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="soccorso-di-opec-sul-caro-prezzi" data-post-id="2657447107" data-published-at="1654201262" data-use-pagination="False"> Soccorso di Opec+ sul caro prezzi Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione. Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio. Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero. Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti. Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti. Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran». L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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