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2022-06-03
Il trucchetto anti embargo dei russi: scambi di barili con le navi europee
Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.
Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet.
In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche?
Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.
Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar.
In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.
Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero.
Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.
Soccorso di Opec+ sul caro prezzi
Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione.
Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio.
Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero.
Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti.
Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti.
Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran».
L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
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Fino ad oggi, i cargo ellenici e maltesi hanno fatto da hub alla Federazione. Ora, per occultare la provenienza del greggio, basterà diluirlo con quello prodotto da Paesi terzi, o riassegnare una bandiera alle imbarcazioni.Soccorso di Opec+ sul caro prezzi. L’ente di monitoraggio Usa chiede al cartello degli esportatori un aumento del 50% della produzione. E dopo i dissapori sull’Iran, Joe Biden prova a riavvicinarsi ai sauditi. Lo speciale comprende due articoli.Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet. In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche? Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar. In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero. Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-trucchetto-anti-embargo-dei-russi-scambi-di-barili-con-le-navi-europee-2657447107.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="soccorso-di-opec-sul-caro-prezzi" data-post-id="2657447107" data-published-at="1654201262" data-use-pagination="False"> Soccorso di Opec+ sul caro prezzi Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione. Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio. Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero. Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti. Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti. Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran». L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Fratelli d'Italia durante un'intervista a margine dell’evento «Con coraggio e libertà», dedicato alla figura del giornalista e reporter di guerra Almerigo Grilz.
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)
In particolare, la riforma abolisce l’Abilitazione scientifica nazionale, una procedura di valutazione avviata dal ministero dell’Università e della Ricerca per accertare l’idoneità scientifica dei candidati a ricoprire il ruolo di professore universitario ordinario o associato, senza la quale non si può partecipare a concorsi o rispondere a chiamate nei ruoli di professore associato o ordinario presso le università italiane. Una commissione di cinque docenti decide se il candidato può ricevere o no l’abilitazione: tutto viene deciso secondo logiche di appartenenza a questa o quella consorteria.
Intervenendo in aula su questa riforma, il senatore Crisanti ha pronunciato un discorso appassionato, solenne: «Lo dico chiaramente in quest’Aula», ha scandito Crisanti, «io, in 40 anni, non sono venuto a conoscenza di un singolo concorso di cui non si sapesse il vincitore prima e non c’è un singolo docente che mi abbia mai smentito. Questa è la situazione dei nostri atenei oggi. La maggior parte del nostro personale universitario ha preso la laurea all’università, ha fatto il dottorato nella stessa università, ha fatto il ricercatore, l’associato e infine il professore. Questo meccanismo di selezione ha avuto un impatto devastante sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento nelle nostre università». Difficile non essere d’accordo con Crisanti, che però ha trascurato, nel corso del suo discorso, un particolare: suo figlio Giulio dall’ottobre 2022 è dottorando in fisica e astronomia all’Università del Bo di Padova, la stessa dove il babbo insegnava quando ha superato la selezione.
Ora, nessuno mette in dubbio le capacità di Crisanti jr, laureato in astrofisica all’Università di Cambridge, ma la coincidenza è degna di nota. Lo stesso Giulio, intervistato nel marzo 2022 dal Corriere del Veneto, affrontava l’argomento: «Ha deciso di fare il dottorato a Padova perché suo padre era già qui?», chiedeva l’intervistatore. «No, l’avrei evitato più che volentieri», rispondeva Crisanti jr, «ma ho fatto tanti concorsi in Italia e l’unico che ho passato è stato quello del Bo». Ma come mai il giovane Crisanti veniva intervistato? Perché ha seguito le orme di babbo Andrea anche in politica: nel 2022 si è candidato alle elezioni comunali di Padova, nella lista Coalizione civica, a sostegno del sindaco uscente di centrosinistra Sergio Giordani. Il sindaco ha rivinto le elezioni, ma per Giulio Crisanti il bottino è stato veramente magro: ha preso appena 25 preferenze.
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