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2022-06-03
Il trucchetto anti embargo dei russi: scambi di barili con le navi europee
Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.
Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet.
In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche?
Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.
Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar.
In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.
Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero.
Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.
Soccorso di Opec+ sul caro prezzi
Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione.
Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio.
Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero.
Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti.
Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti.
Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran».
L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
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Fino ad oggi, i cargo ellenici e maltesi hanno fatto da hub alla Federazione. Ora, per occultare la provenienza del greggio, basterà diluirlo con quello prodotto da Paesi terzi, o riassegnare una bandiera alle imbarcazioni.Soccorso di Opec+ sul caro prezzi. L’ente di monitoraggio Usa chiede al cartello degli esportatori un aumento del 50% della produzione. E dopo i dissapori sull’Iran, Joe Biden prova a riavvicinarsi ai sauditi. Lo speciale comprende due articoli.Calamata, Marsa Scirocco, Marsascala. È da questi porti ellenici e maltesi che, almeno fino a quando Bruxelles non ha deciso lo stop totale ai commerci marittimi di petrolio con la Russia, le navi europee prendevano il largo, s’incrociavano - magari a Sud di Gibilterra, a Ceuta, o addirittura nel canale di Suez - con quelle provenienti dalla Federazione, caricavano i barili di greggio e poi li trasportavano negli scali dei Paesi acquirenti. Legalmente, benché in barba ai blocchi dei traffici che, intanto, erano stati già imposti da Usa e Regno Unito. Secondo Lloyd’s List, quotidiano specializzato nel settore della navigazione, dall’inizio della guerra, con simili stratagemmi, Mosca è riuscita a esportare circa mezzo miliardo di dollari di oro nero al giorno.Dunque, per finanziare le operazioni belliche in Ucraina, a Vladimir Putin, finora, non è stato necessario fare affidamento esclusivo sui partner cinesi o indiani, cui consegnare le merci solitamente destinate ai partner del Vecchio continente (circa il 43% del totale). I produttori russi sono riusciti a insinuarsi nelle porosità dei commerci, nel ventre molle dell’Europa, con metodi già sperimentati da altre nazioni rese bersaglio di sanzioni, come il Venezuela e l’Iran. Ed è significativo che proprio due Stati membri dell’Unione, Malta e soprattutto Grecia, abbiano giocato un ruolo fondamentale. Alla faccia dell’Europa unita contro gli autocrati: quando c’è di mezzo il business, pecunia non olet. In particolare, i cargo dell’Ellade si sono riforniti sia direttamente nei porti di Primorsk, Novorossijsk, Ust Luga e San Pietroburgo, sia tramite le operazioni di trasferimento «ship to ship» (Sts è la sigla che si usa nel gergo tecnico). Un paio di settimane fa, Reuters già segnalava che la Grecia era diventata, di fatto, il nuovo hub dei russi, con «arrivi record» dalla Federazione nel mese di aprile. Ma adesso che il Consiglio Ue ha finalmente - e faticosamente - varato l’embargo definitivo sulle rotte acquatiche? Nel porto del Peloponneso monitorato da Lloyd’s List, ancora ieri era atteso l’arrivo di petroliere russe alle quali, tuttavia, è ormai precluso l’attracco. Non è detto, comunque, che per Putin e compagnia la musica cambi. Le tecniche per aggirare la rappresaglia economica esistono, sono ben rodate ed è difficile immaginare che gli armatori si rassegnino a rinunciare d’emblée a certi munifici giri d’affari.Il punto d’appoggio più immediato, fa notare Europatoday, si basa sempre sui movimenti Sts, compiuti direttamente in mare. È sufficiente aggiungere un passaggio intermedio: ovvero, diluire il greggio russo con quello proveniente da un Paese terzo non sanzionato. A quel punto, le navi greche potrebbero rietichettare i barili e consegnarli tranquillamente negli scali dei Paesi dell’Unione. In fondo, siamo su un terreno analogo a quello delle famigerate triangolazioni, che diverse aziende manifatturiere italiane avevano candidamente ammesso di praticare per salvaguardare una componente irrinunciabile delle loro entrate. Nel frattempo, a schivare i controlli sulle grandi manovre tra le onde, ci pensano gli stessi natanti russi. I quali, negli ultimi tempi, si sono dimostrati sempre più adusi a spegnere i transponder, per complicare i tentativi di rintracciarne la destinazione. Nel solo mese di marzo, sono stati censiti 33 episodi di navi sparite all’improvviso dai radar. In ballo, poi, resta il vecchio trucco di cambiare bandiera. Anche questo, in tutto e per tutto legale. Meno di un mese fa, ad esempio, una petroliera bloccata da oltre 30 giorni nell’isola ellenica di Eubea, a un certo punto, aveva issato il vessillo di Teheran. Ad aprile, Bloomberg riportava che i natanti russi stavano riassegnando le loro bandiere «a ritmi da record». Secondo quanto riferito da Business insider, le navi si stavano registrando in Stati come le Isole Marshall, o Saint Kitts e Nevis: solo a marzo, 18 imbarcazioni russe avevano completato la modifica. Con tale metodo, ergo, occultando la nazione d’origine del cargo, aggirare gli embarghi senza ufficialmente violare le norme non è affatto un’impresa impossibile.Invero, la gherminella è un segreto di Pulcinella e ne è consapevole la stessa Unione europea. Non a caso, a inizio maggio, l’Alto rappresentante per gli Affari esteri, Josep Borrell, si era recato a Panama, una delle mete più gettonate per il camouflage, con lo scopo di mettere in guardia le autorità locali. Non è noto se la promessa collaborazione panamense abbia ostacolato i furbetti dell’oro nero. Quel che è certo è che, se non infinite, le vie del petrolio sono innumerevoli. E complicate da sbarrare. Come è evidente che la Russia è tutt’altro che la declinante potenza, isolata e condannata a un’inesorabile implosione, che dipinge una certa propaganda trionfalista qui in Occidente. Alla lunga, le sanzioni corroderanno sicuramente il gigante dai piedi d’argilla. Ma non fermeranno i tank e l’artiglieria degli invasori sul breve-medio periodo. Quello che, al Cremlino, si auspicano basti per consolidare abbastanza conquiste sul campo, per sedersi al tavolo delle trattative da una posizione vantaggiosa. In più, per i sanzionatori, le contromisure energetiche non saranno a costo zero. E se è vero che, a differenza di quel che accade in Russia, da noi l’opinione pubblica non può essere manipolata, presto, la vera bomba a orologeria, potremmo ritrovarcela in casa nostra.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-trucchetto-anti-embargo-dei-russi-scambi-di-barili-con-le-navi-europee-2657447107.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="soccorso-di-opec-sul-caro-prezzi" data-post-id="2657447107" data-published-at="1654201262" data-use-pagination="False"> Soccorso di Opec+ sul caro prezzi Il comitato ministeriale di monitoraggio americano, il Joint ministerial monitoring committee, raccomanda all’Opec+ un aumento della produzione da 648.000 barili al giorno in luglio e agosto. Si tratterebbe di un un incremento nell’ordine del 50% della produzione rispetto ai 432.000 barili al giorno di questi ultimi mesi. Lo riporta l’agenzia Bloomberg, citando i delegati partecipanti alla riunione. Come spiega il Financial Times, la scelta di aumentare la produzione di greggio, d’altronde, era già programmata per settembre, ma dopo la raccomandazione di ieri verrà con ogni probabilità anticipata a luglio. Va ricordato che l’Arabia Saudita, il principale produttore dell’Opec, aveva già in passato respinto le richieste di Washington di aumentare la produzione di petrolio oltre i limiti concordati in passato con i Paesi partner, Russia inclusa. Questa volta, però, Riad avrebbe accettato di cambiare posizione e aumentare la produzione per abbassare i prezzi del greggio e riavvicinarsi all’amministrazione Biden, sottolinea il quotidiano londinese, citando fonti vicine alla questione. L’Arabia Saudita ha anche reso noto che risponderà aumentando la produzione, qualora una crisi dell’offerta dovesse colpire il mercato petrolifero. Naturalmente, la mossa non è affatto casuale. Per effetto dell’abbassamento dei prezzi del greggio, infatti, l’impatto dell’embargo sui Paesi che hanno imposto le sanzioni diventerebbe molto minore. Per intenderci, questi Stati avrebbero dunque la possibilità di comprare più petrolio a un prezzo minore e i blocchi russi diventerebbero meno pesanti. Del resto, il prezzo dei carburanti, nonostante il tentativo di molti Paesi di abbassarne i livelli, sta tornando a salire a dismisura. Il problema sta diventando importante anche Oltreoceano, tanto che il presidente americano, Joe Biden, sarebbe intenzionato a volare in Arabia Saudita per chiedere di aprire di più i rubinetti. Certo, nel regno di Mohammad Bin Salman, non è vista di buon occhio l’intenzione del governo americano di riaprire i contatti con l’Iran. Giusto poche settimane fa, il Dipartimento di Stato statunitense aveva diffuso una breve nota sulla telefonata tra il segretario Antony Blinken e il ministro degli Affari esteri qatarino, Mohammed Bin Abdulrahman Al Thani, in cui veniva riconosciuto il ruolo costruttivo che Doha sta avendo «sui nostri sforzi per risolvere le questioni con l’Iran». L’obiettivo è, insomma, che il Qatar si comporti da facilitatore nei rapporti tra Usa e Iran. In effetti, Doha e Teheran hanno relazioni da tempo consolidate. La ragione è chiara: i due Paesi condividono il più importante giacimento di gas naturale del mondo, il South Pars/North Dome, canale che supporta non poco l’economia qatarina. Tutto questo sta generando parecchi dissapori a Riad; ciononostante, l’Arabia Saudita alzerà la produzione di barili di greggio, facendo di fatto lo sgambetto a Mosca e al Cremlino. Non resta che attendere per capire quale potrà essere la reazione del presidente Vladimir Putin.
Friedrich Merz (Ansa)
Il dissenso della gioventù aveva provocato forti tensioni all’interno della maggioranza tanto da far rischiare la prima crisi di governo seria per Merz. Il via libera del parlamento tedesco, dunque, segna di fatto una crisi politica enorme e pure lo scollamento della democrazia tra maggioranza effettiva e maggioranza dopata. Come già era accaduto in Francia, la materia pensionistica è l’iceberg contro cui si schiantano i… Titanic: Macron prima, Merz adesso. Il presidente francese sulle pensioni ha visto la rottura dei suoi governi per l’incalzare di rivolte popolari e questo in carica guidato da Lecornu ha dovuto congelare la materia per non lasciarci le penne. Del resto in Europa non è il solo che naviga a vista, non curante della sfiducia nel Paese: in Spagna il governo Sánchez è in piena crisi di consensi per i casi di corruzione scoppiati nel partito e in casa, e pure l’accordo coi i catalani e coi baschi rischia di far deragliare l’esecutivo sulla finanziaria. In Olanda non c’è ancora un governo. In Belgio il primo ministro De Wever ha chiesto altro tempo al re Filippo per superare lo stallo sulla legge di bilancio che si annuncia lacrime e sangue. In Germania - dicevamo - il governo si è salvato per l’appoggio determinante della sinistra radicale, aprendo quindi un tema politico che lascerà strascichi dei quali beneficerà Afd, partito assai attrattivo proprio tra i giovani.
I tre voti con i quali Merz si è salvato peseranno tantissimo e manterranno acceso il dibattito proprio su una questione ancestrale: l’aumento del debito pubblico. «Questo disegno di legge va contro le mie convinzioni fondamentali, contro tutto ciò per cui sono entrato in politica», ha dichiarato a nome della Junge Union Gruppe Pascal Reddig durante il dibattito. Lui è uno dei diciotto che avrebbe voluto affossare la stabilizzazione previdenziale anche a costo di mandare sotto il governo: il gruppo dei giovani non aveva mai preso in considerazione l’idea di caricare sulle spalle delle future generazioni 115 miliardi di costi aggiuntivi a partire dal 2031.
E senza quei 18 sì, il governo sarebbe finito al tappeto. Quindi ecco la solita minestrina riscaldata della sopravvivenza politica a qualsiasi costo: l’astensione dai banchi dell’opposizione del partito di estrema sinistra Die Linke, per effetto della quale si è ridotto il numero di voti necessari per l'approvazione. E i giovani? E le loro idee?
Merz ha affermato che le preoccupazioni della Junge Union saranno prese in considerazione in una revisione più ampia del sistema pensionistico prevista per il 2026, che affronterà anche la spinosa questione dell'innalzamento dell'età pensionabile. Un bel modo per cercare di salvare il salvabile. Anche se ora arriva pure la tegola della riforma della leva: il parlamento tedesco ha infatti approvato la modernizzazione del servizio militare nel Paese, introducendo una visita medica obbligatoria per i giovani diciottenni e la possibilità di ripristinare la leva obbligatoria in caso di carenza di volontari. Un altro passo verso la piena militarizzazione, materia su cui l’opinione pubblica tedesca è in profondo disaccordo e che Afd sta cavalcando. Sempre che la democrazia non deciderà di fermare Afd…
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«The Rainmaker» (Sky)
The Rainmaker, versione serie televisiva, sarà disponibile su Sky Exclusive a partire dalla prima serata di venerdì 5 dicembre. E allora l'abisso immenso della legalità, i suoi chiaroscuri, le zone d'ombra soggette a manovre e interpretazioni personali torneranno protagonisti. Non a Memphis, dov'era ambientato il romanzo originale, bensì a Charleston, nella Carolina del Sud.
Il rainmaker di Grisham, il ragazzo che - fresco di laurea - aveva fantasticato sulla possibilità di essere l'uomo della pioggia in uno degli studi legali più prestigiosi di Memphis, è lontano dal suo corrispettivo moderno. E non solo per via di una città diversa. Rudy Baylor, stesso nome, stesso percorso dell'originale, ha l'anima candida del giovane di belle speranze, certo che sia tutto possibile, che le idee valgano più dei fatti. Ma quando, appena dopo la laurea in Giurisprudenza, si trova tirocinante all'interno di uno studio fra i più blasonati, capisce bene di aver peccato: troppo romanticismo, troppo incanto. In una parola, troppa ingenuità.
Rudy Baylor avrebbe voluto essere colui che poteva portare più clienti al suddetto studio. Invece, finisce per scontrarsi con un collega più anziano nel giorno dell'esordio, i suoi sogni impacchettati come fossero cosa di poco conto. Rudy deve trovare altro: un altro impiego, un'altra strada. E finisce per trovarla accanto a Bruiser Stone, qui donna, ben lontana dall'essere una professionista integerrima. Qui, i percorsi divergono.
The Rainmaker, versione serie televisiva, si discosta da The Rainmaker versione carta o versione film. Cambia la trama, non, però, la sostanza. Quel che lo show, in dieci episodi, vuole cercare di raccontare quanto complessa possa essere l'applicazione nel mondo reale di categorie di pensiero apprese in astratto. I confini sono labili, ciascuno disposto ad estenderli così da inglobarvi il proprio interesse personale. Quel che dovrebbe essere scontato e oggettivo, la definizione di giusto o sbagliato, sfuma. E non vi è più certezza. Nemmeno quella basilare del singolo, che credeva di aver capito quanto meno se stesso. Rudy Baylor, all'interno di questa serie, a mezza via tra giallo e legal drama, deve, dunque, fare quel che ha fatto il suo predecessore: smettere ogni sua certezza e camminare al di fuori della propria zona di comfort, alla ricerca perpetua di un compromesso che non gli tolga il sonno.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Mentre l’Europa è strangolata da una crisi industriale senza precedenti, la Commissione europea offre alla casa automobilistica tedesca una tregua dalle misure anti-sovvenzioni. Questo armistizio, richiesto da VW Anhui, che produce il modello Cupra in Cina, rappresenta la chiusura del cerchio della de-industrializzazione europea. Attualmente, la VW paga un dazio anti-sovvenzione del 20,7 per cento sui modelli Cupra fabbricati in Cina, che si aggiunge alla tariffa base del 10 per cento. L’offerta di VW, avanzata attraverso la sua sussidiaria Seat/Cupra, propone, in alternativa al dazio, una quota di importazione annuale e un prezzo minimo di importazione, meccanismi che, se accettati da Bruxelles, esenterebbero il colosso tedesco dal pagare i dazi. Non si tratta di una congiuntura, ma di un disegno premeditato. Pochi giorni fa, la stessa Volkswagen ha annunciato come un trionfo di essere in grado di produrre veicoli elettrici interamente sviluppati e realizzati in Cina per la metà del costo rispetto alla produzione in Europa, grazie alle efficienze della catena di approvvigionamento, all’acquisto di batterie e ai costi del lavoro notevolmente inferiori. Per dare un’idea della voragine competitiva, secondo una analisi Reuters del 2024 un operaio VW tedesco costa in media 59 euro l’ora, contro i soli 3 dollari l’ora in Cina. L’intera base produttiva europea è già in ginocchio. La pressione dei sindacati e dei politici tedeschi per produrre veicoli elettrici in patria, nel tentativo di tutelare i posti di lavoro, si è trasformata in un calice avvelenato, secondo una azzeccata espressione dell’analista Justin Cox.
I dati sono impietosi: l’utilizzo medio della capacità produttiva nelle fabbriche di veicoli leggeri in Europa è sceso al 60% nel 2023, ma nei paesi ad alto costo (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è crollato al 54%. Una capacità di utilizzo inferiore al 70% è considerata il minimo per la redditività.
Il risultato? Centinaia di migliaia di posti di lavoro che rischiano di scomparire in breve tempo. Volkswagen, che ha investito miliardi in Cina nel tentativo di rimanere competitiva su quel mercato, sta tagliando drasticamente l’occupazione in patria. L’accordo con i sindacati prevede la soppressione di 35.000 posti di lavoro entro il 2030 in Germania. Il marchio VW sta già riducendo la capacità produttiva in Germania del 40%, chiudendo linee per 734.000 veicoli. Persino stabilimenti storici come quello di Osnabrück rischiano la chiusura entro il 2027.
Anziché imporre una protezione doganale forte contro la concorrenza cinese, l’Ue si siede al tavolo per negoziare esenzioni personalizzate per le sue stesse aziende che delocalizzano in Oriente.
Questa politica di suicidio economico ha molto padri, tra cui le case automobilistiche tedesche. Mercedes e Bmw, insieme a VW, fecero pressioni a suo tempo contro l’imposizione di dazi Ue più elevati, temendo che una guerra commerciale potesse danneggiare le loro vendite in Cina, il mercato più grande del mondo e cruciale per i loro profitti. L’Associazione dell’industria automobilistica tedesca (Vda) ha definito i dazi «un errore» e ha sostenuto una soluzione negoziata con Pechino.
La disastrosa svolta all’elettrico imposta da Bruxelles si avvia a essere attenuata con l’apertura (forse) alle immatricolazioni di motori a combustione e ibridi anche dopo il 2035, ma ha creato l’instabilità perfetta per l’ingresso trionfale della Cina nel settore. I produttori europei, combattendo con veicoli elettrici ad alto costo che non vendono come previsto (l’Ev più economico di VW, l’ID.3, costa oltre 36.000 euro), hanno perso quote di mercato e hanno dovuto ridimensionare obiettivi, profitti e occupazione in Europa. A tal riguardo, ieri il premier Giorgia Meloni, insieme ai leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Bulgaria e Ungheria, in una lettera ai vertici Ue, ha esortato l’Unione ad abbandonare, una volta per tutte, il dogmatismo ideologico che ha messo in ginocchio interi settori produttivi, senza peraltro apportare benefici tangibili in termini di emissioni globali». Nel testo, si chiede di mantenere anche dopo il 2035 le ibride e di riconoscere i biocarburanti come carburanti a emissioni zero.
L’Ue, che sempre pretende un primato morale, ha in realtà creato le condizioni perfette per svuotare il continente di produzione industriale. Accettare esenzioni dai dazi sull’import dalle aziende che hanno traslocato in Cina è la beatificazione della delocalizzazione. L’Europa si avvia a diventare uno showroom per prodotti asiatici, con le sue fabbriche ridotte a ruderi. Paradossalmente, diverse case automobilistiche cinesi stanno delocalizzando in Europa, dove progettano di assemblare i veicoli e venderli localmente, aggirando così i dazi europei. La Great Wall Motors progetta di aprire stabilimenti in Spagna e Ungheria per assemblare i veicoli. Anche considerando i più alti costi del lavoro europei (16 euro in Ungheria, dato Reuters), i cinesi pensano di riuscire ad essere più competitivi dei concorrenti locali. Per convenienza, i marchi europei vanno in Cina e quelli cinesi vengono in Europa, insomma. A perderci sono i lavoratori europei.
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