- Lo stop fa risparmiare solo 350 milioni su 30 miliardi. Chi guadagna oltre 120.000 euro perderà pure lo sconto sulle spese sanitarie, eccetto che per alcune patologie. Bastonata una classe che rappresenta lo 0,73% della popolazione, ma versa l'11% delle tasse.
- Stangata anche sulle auto aziendali. Il prelievo passa da 600 a 2.000 euro. Il settore rappresenta il 40% delle nuove immatricolazioni. Attesi 513 milioni di incassi.
Lo stop fa risparmiare solo 350 milioni su 30 miliardi. Chi guadagna oltre 120.000 euro perderà pure lo sconto sulle spese sanitarie, eccetto che per alcune patologie. Bastonata una classe che rappresenta lo 0,73% della popolazione, ma versa l'11% delle tasse.Stangata anche sulle auto aziendali. Il prelievo passa da 600 a 2.000 euro. Il settore rappresenta il 40% delle nuove immatricolazioni. Attesi 513 milioni di incassi.Lo speciale comprende due articoli.Dalle stalle alle stelle, si dice. È il destino che tocca ai paperoni d'Italia. Finché c'era la Lega al governo, coloro che guadagnano fino a 100.000 euro l'anno potevano sperare di vedersi applicata la flat tax al 20%, cioè un'imposta unica in sostituzione di Irpef e Irap. Un miraggio: meno della metà rispetto all'aliquota del 43% che i redditi più elevati raggiungono oggi. Ora invece i cosiddetti super ricchi non soltanto vedranno con il telescopio i tagli d'imposta, ma subiranno anche un colpo di scure sulle detrazioni. Il disegno di legge di bilancio 2020 presentato dal governo non dà scampo, se non verrà modificato dal Parlamento.La ghigliottina è prevista all'articolo 75 della bozza predisposta dal governo M5s-Pd, intitolato «Rimodulazione degli oneri detraibili in base al reddito»: ha l'onore di essere l'articolo che apre la parte che contiene le «Disposizioni in materia di entrate». Il testo è scritto nel più puro e oscuro burocratese. Si parla delle spese che possono essere sottratte all'imposta lorda per una quota del 19%. L'elenco è piuttosto lungo: si va dagli interessi passivi per il mutuo prima casa alle spese mediche e sanitarie, dalle spese veterinarie a quelle funebri, dalle tasse scolastiche e universitarie alle polizze assicurative, dalle erogazioni liberali a favore dello Stato, dei partiti o di associazioni riconosciute senza scopo di lucro alle spese per la manutenzione dei beni culturali, dai costi per fare praticare sport ai figli (iscrizione a società sportive, palestre, piscine) fino agli esborsi per aiutare i disabili. Non vengono toccate le detrazioni per le spese di ristrutturazione edilizia e di riqualificazione energetica, che vengono prorogate in quanto «misure per la crescita».Il testo mantiene la detrazione intera al 19%, indipendentemente dal reddito, per alcune voci: gli interessi passivi sui mutui e alcune spese mediche, cioè quelle sostenute per le patologie che danno diritto all'esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria (ad esempio i tumori e malattie croniche come diabete e ipertensione). Secondo il ministero dell'Economia, nel 2018 (anno d'imposta 2017) i contribuenti italiani hanno potuto decurtare le proprie tasse per complessivi 29,96 miliardi di euro. Un buon risparmio.La legge di bilancio falcidia chi ha un reddito superiore a 120.000 euro, i super ricchi, che rappresentano lo 0,73% del totale dei contribuenti. Chi guadagna fino a 240.000 euro subirà un taglio proporzionale al reddito. Il calcolo da fare, secondo il disegno di legge, è questo. Poniamo che un tizio guadagni 150.000 euro, cioè il 25% in più di 120.000: avrà un taglio equivalente. In pratica, invece che il 19% potrà detrarre il 14,25% delle spese. Chi guadagna 180.000 euro perderà metà delle detrazioni e il suo vecchio 19% si rimpicciolirà al 9,5%. Più ci si avvicina ai 240.000 euro, meno si potrà defalcare dalle tasse. E quanti incassano 240.000 euro e più dovranno dire addio alle detrazioni.Questa misura non raccoglie molti soldi. Secondo il Mef, tale platea di contribuenti detrae dalle tasse circa 840 milioni di euro, che rappresentano appena il 2,8% del monte complessivo delle detrazioni al 19%, le quali come detto sfiorano i 30 miliardi di euro. Il denaro recuperato in questo modo non dovrebbe superare i 350 milioni. A tale classe di reddito appartengono 302.266 persone. Per ciascuno di loro, in media, si profila dunque una perdita di circa 1.160 euro. È un valore approssimativo, visto che la mannaia del governo giallorosso viene calata in misura progressiva, ma dà un'indicazione del sacrificio preteso.È dunque una manovra per fare cassa? Soltanto in minima parte: non è con queste somme che si aggiusta il debito pubblico. È piuttosto una mossa classista e populista? Certamente, perché colpisce una classe sociale che dà un forte contributo alle casse pubbliche. È sempre il ministero di via XX Settembre a fornire i dati. Questo nucleo lillipuziano di contribuenti annovera oltre 300.000 persone: meno dell'1% del totale, come si è visto. Il loro reddito imponibile (62,9 miliardi di euro) corrisponde però al 7,8% dell'imponibile complessivo (803,6 miliardi di euro). Su questi soldi i paperoni italici pagano 24,9 miliardi di euro di tasse, cioè l'11,4% dei 218,7 miliardi di euro sborsati dai contribuenti.Il dettato costituzionale che dispone la progressività della tassazione è applicato alla lettera a questa fascia di cittadini: poco più dello 0,7% paga oltre l'11% di imposte. L'intento del provvedimento è evidente, cioè colpire la categoria più produttiva e andare a mungere chi già sostiene una grossa fetta delle entrate fiscali. Anche gli altri contribuenti avranno comunque a carico un'incombenza: tutte le detrazioni al 19% dovranno essere tracciabili, cioè pagate con bonifico o carta di credito. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-taglio-delle-detrazioni-costa-1-160-euro-2641178164.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="stangata-anche-sulle-auto-aziendali-il-prelievo-passa-da-600-a-2-000-euro" data-post-id="2641178164" data-published-at="1763641415" data-use-pagination="False"> Stangata anche sulle auto aziendali. Il prelievo passa da 600 a 2.000 euro Oltre al danno, la beffa. E, oltre alla beffa, la mancata comprensione dell'economia reale: sia rispetto all'andamento del mercato dell'auto, sia rispetto alla condizione effettiva di lavoro di molte persone. Il danno si è materializzato da 36 ore, con il succedersi delle bozze della legge di bilancio, e la scoperta dell'autentica mazzata contro le auto aziendali in fringe benefit: lo sconto al 30% del valore di automobili e moto concesse in uso cosiddetto «promiscuo», che ora vale per tutti i dipendenti, con la nuova manovra resterà limitato ai soli agenti e rappresentanti di commercio. Per tutti gli altri, i mezzi in fringe benefit saranno calcolati a valore integrale. Tradotto volgarmente: tassazione triplicata. Ma dicevamo che, oltre al danno, c'è anche la beffa, perché la botta di quest'anno fa seguito al grave errore già ereditato dalla finanziaria precedente, quella in cui (con modalità pasticciate, e per tenace volontà grillina) furono introdotte misure di bonus per le auto elettriche (più o meno, l'1% del mercato), sostenute però con un punitivo aggravio fiscale sulle cosiddette auto inquinanti che finiva per colpire più o meno il 20% del parco auto. Un'operazione suicida. Ma non finisce qui. Perché, oltre alla beffa, si manifesta una duplice mancata comprensione dell'economia reale: per un verso, perché non si comprende che si tassa uno strumento di lavoro per molte persone, che inevitabilmente «ringrazieranno» il governo nelle urne (prima o poi); e per altro verso, perché all'interno di un mercato dell'automotive complessivamente sofferente, l'unico comparto in salute era proprio quello delle auto aziendali. Le auto aziendali rappresentano circa il 40% delle nuove immatricolazioni: una percentuale rilevantissima. Colpire lì significa compiere un atto di puro autolesionismo, in totale contraddizione con gli impegni assunti dal governo e dal ministro Stefano Patuanelli in sede di «tavolo automotive». E la stima è che saranno investiti dal peggioramento fiscale 2 milioni di lavoratori, senza parlare delle imprese che - a questo punto - rifletteranno due volte sullo strumento dell'auto aziendale. Anche le modalità dell'imposizione sono farraginose e discutibili: è come se si introducesse un ulteriore e anomalo studio di settore. Oggi, infatti, per i veicoli concessi in uso «promiscuo» a dipendenti e amministratori, il valore del compenso «in natura» addebitato (in termini di tassazione Irpef e addizionale) a chi usa l'auto è pari al 30% «dell'importo corrispondente a una percorrenza convenzionale di 15.000 chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle nazionali dell'Aci». Eliminando il riferimento al 30%, la tassazione non sarà più riferita a 4.500 chilometri ma all'intero ammontare dei 15.000 chilometri di «percorrenza convenzionale». Si ritrova dunque, in una sola misura, l'intero armamentario del peggiore Stato tassatore: inasprimento fiscale, scoraggiamento della parte trainante del mercato, e pretesa regolatoria di stabilire come e quanto «debbano» viaggiare coloro che usano un'auto per lavoro. Le prime stime parlano chiaro: saremo in presenza di un appesantimento fiscale medio (che scatterebbe già a gennaio) che porterà il prelievo dagli attuali circa 600 euro a 1.800-2.000 euro per i soggetti interessati. E non a caso la stima del Mef è di mezzo miliardo di entrate (513 milioni) da questa misura. Comprensibilmente durissima la reazione dell'associazione dei noleggiatori Aniasa: «Una misura assurda proprio da un punto di vista concettuale, in quanto si tassa non solo l'uso privato dell'auto ma quello lavorativo». Paradosso finale, e qui si entra in un ambito surreale anche dal punto di vista dei sostenitori delle politiche green: la nuova tassazione colpisce pure le auto ibride ed elettriche, senza alcuna distinzione.
Vladimir Putin (Ansa)
Il piano Usa: cessione di territori da parte di Kiev, in cambio di garanzie di sicurezza. Ma l’ex attore non ci sta e snobba Steve Witkoff.
Donald Trump ci sta riprovando. Nonostante la situazione complessiva resti parecchio ingarbugliata, il presidente americano, secondo la Cnn, starebbe avviando un nuovo sforzo diplomatico con la Russia per chiudere il conflitto in Ucraina. In particolare, l’iniziativa starebbe avvenendo su input dell’inviato statunitense per il Medio Oriente, Steve Witkoff, che risulterebbe in costante contatto con il capo del fondo sovrano russo, Kirill Dmitriev. «I negoziati hanno subito un’accelerazione questa settimana, poiché l’amministrazione Trump ritiene che il Cremlino abbia segnalato una rinnovata apertura a un accordo», ha riferito ieri la testata. Non solo. Sempre ieri, in mattinata, una delegazione di alto livello del Pentagono è arrivata in Ucraina «per una missione conoscitiva volta a incontrare i funzionari ucraini e a discutere gli sforzi per porre fine alla guerra». Stando alla Cnn, la missione rientrerebbe nel quadro della nuova iniziativa diplomatica, portata avanti dalla Casa Bianca.
Francobollo sovietico commemorativo delle missioni Mars del 1971 (Getty Images)
Nel 1971 la sonda sovietica fu il primo oggetto terrestre a toccare il suolo di Marte. Voleva essere la risposta alla conquista americana della Luna, ma si guastò dopo soli 20 secondi. Riuscì tuttavia ad inviare la prima immagine del suolo marziano, anche se buia e sfocata.
Dopo il 20 luglio 1969 gli americani furono considerati universalmente come i vincitori della corsa allo spazio, quella «space race» che portò l’Uomo sulla Luna e che fu uno dei «fronti» principali della Guerra fredda. I sovietici, consapevoli del vantaggio della Nasa sulle missioni lunari, pianificarono un programma segreto che avrebbe dovuto superare la conquista del satellite terrestre.
Mosca pareva in vantaggio alla fine degli anni Cinquanta, quando lo «Sputnik» portò per la prima volta l’astronauta sovietico Yuri Gagarin in orbita. Nel decennio successivo, tuttavia, le missioni «Apollo» evidenziarono il sorpasso di Washington su Mosca, al quale i sovietici risposero con un programma all’epoca tecnologicamente difficilissimo se non impossibile: la conquista del «pianeta rosso».
Il programma iniziò nel 1960, vale a dire un anno prima del lancio del progetto «Gemini» da parte della Nasa, che sarebbe poi evoluto nelle missioni Apollo. Dalla base di Baikonur in Kazakhistan partiranno tutte le sonde dirette verso Marte, per un totale di 9 lanci dal 1960 al 1973. I primi tentativi furono del tutto fallimentari. Le sonde della prima generazione «Marshnik» non raggiunsero mai l’orbita terrestre, esplodendo poco dopo il lancio. La prima a raggiungere l’orbita fu la Mars 1 lanciata nel 1962, che perse i contatti con la base terrestre in Crimea quando aveva percorso oltre 100 milioni di chilometri, inviando preziosi dati sull’atmosfera interplanetaria. Nel 1963 sorvolò Marte per poi perdersi in un’orbita eliocentrica. Fino al 1969 i lanci successivi furono caratterizzati dall’insuccesso, causato principalmente da lanci errati e esplosioni in volo. Nel 1971 la sonda Mars 2 fu la prima sonda terrestre a raggiungere la superficie del pianeta rosso, anche se si schiantò in fase di atterraggio. Il primo successo (ancorché parziale) fu raggiunto da Mars 3, lanciato il 28 maggio 1971 da Baikonur. La sonda era costituita da un orbiter (che avrebbe compiuto orbitazioni attorno a Marte) e da un Lander, modulo che avrebbe dovuto compiere l’atterraggio sulla superficie del pianeta liberando il Rover Prop-M che avrebbe dovuto esplorare il terreno e l’atmosfera marziani. Il viaggio durò circa sei mesi, durante i quali Mars 3 inviò in Urss preziosi dati. Atterrò su Marte senza danni il 2 dicembre 1971. Il successo tuttavia fu vanificato dalla brusca interruzione delle trasmissioni con la terra dopo soli 20 secondi a causa, secondo le ipotesi più accreditate, dell’effetto di una violenta tempesta marziana che danneggiò l’equipaggiamento di bordo. Solo un’immagine buia e sfocata fu tutto quello che i sovietici ebbero dall’attività di Mars 3. L’orbiter invece proseguì la sua missione continuando l’invio di dati e immagini, dalle quali fu possibile identificare la superficie montagnosa del pianeta e la composizione della sua atmosfera, fino al 22 agosto 1972.
Sui giornali occidentali furono riportate poche notizie, imprecise e incomplete a causa della difficoltà di reperire notizie oltre la Cortina di ferro così la certezza dell’atterraggio di Mars 3 arrivò solamente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991. Gli americani ripresero le redini del successo anche su Marte, e nel 1976 la sonda Viking atterrò sul pianeta rosso. L’Urss abbandonò invece le missioni Mars nel 1973 a causa degli elevatissimi costi e della scarsa influenza sull’opinione pubblica, avviandosi verso la lunga e sanguinosa guerra in Afghanistan alla fine del decennio.
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Il presidente torna dal giro in Francia, Grecia e Spagna con altri missili, caccia, radar, fondi energetici. Festeggiano i produttori di armi e gli Stati: dopo gli Usa, la Francia è la seconda nazione per export globale.
Il recente tour diplomatico di Volodymyr Zelensky tra Atene, Parigi e Madrid ha mostrato, più che mai, come il sostegno all’Ucraina sia divenuto anche una vetrina privilegiata per l’industria bellica europea. Missili antiaerei, caccia di nuova generazione, radar modernizzati, fondi energetici e contratti pluriennali: ciò che appare come normale cooperazione militare è in realtà la struttura portante di un enorme mercato che non conosce pause. La Grecia garantirà oltre mezzo miliardo di euro in forniture e gas, definendosi «hub energetico» della regione. La Francia consegnerà 100 Rafale F4, sistemi Samp-T e nuove armi guidate, con un ulteriore pacchetto entro fine anno. La Spagna aggiungerà circa 500 milioni tra programmi Purl e Safe, includendo missili Iris-T e aiuti emergenziali. Una catena di accordi che rivela l’intreccio sempre più solido tra geopolitica e fatturati industriali. Secondo il SIPRI, le importazioni europee di sistemi militari pesanti sono aumentate del 155% tra il 2015-19 e il 2020-24.
Imagoeconomica
Altoforno 1 sequestrato dopo un rogo frutto però di valutazioni inesatte, non di carenze all’impianto. Intanto 4.550 operai in Cig.
La crisi dell’ex Ilva di Taranto dilaga nelle piazze e fra i palazzi della politica, con i sindacati in mobilitazione. Tutto nasce dalla chiusura dovuta al sequestro probatorio dell’altoforno 1 del sito pugliese dopo un incendio scoppiato il 7 maggio. Mesi e mesi di stop produttivo che hanno costretto Acciaierie d’Italia, d’accordo con il governo, a portare da 3.000 a 4.450 i lavoratori in cassa integrazione, dato che l’altoforno 2 è in manutenzione in vista di una futura produzione di acciaio green, e a produrre è rimasto solamente l’altoforno 4. In oltre sei mesi non sono stati prodotti 1,5 milioni di tonnellate di acciaio. Una botta per l’ex Ilva ma in generale per la siderurgia italiana.





