2021-02-17
Il sogno di una società senza dolore ci ha resi più vigliacchi e meno umani
Il filosofo Byung-Chul Han fulmina l'Occidente che, eliminato ogni ideale, si è ridotto a idolatrare il benessere Ma dove non c'è spazio per la sofferenza, ogni relazione diventa un pericolo. Ce lo ha mostrato la pandemiaNelle parole di Ernst Jünger c'era già l'essenza dell'Occidente odierno. In Foglie e pietre lo scrittore tedesco dedicò un ampio capitolo all'esame del dolore e al modo in cui gli europei lo affrontano. «Il segreto della moderna sensibilità sta nel fatto che essa corrisponde a un mondo in cui il corpo è il valore supremo», scrisse Jünger. «Ne risulta allora che il rapporto di questo mondo con il dolore è il rapporto con una potenza che va innanzitutto evitata, perché qui il dolore non colpisce il corpo come un semplice avamposto, ma colpisce il quartier generale, il nucleo essenziale della vita stessa». Jünger aveva ancora negli occhi (e, soprattutto, nel cuore) una civiltà eroica, in cui il rapporto con il dolore era costante, in cui gli individui erano pronti - anche perché spesso costretti - a fare i conti con la sofferenza. Le attribuivano un senso, la utilizzavano per costruire sé stessi perché, come recitava il motto dannunziano, «Dant vulnera formam», le ferite danno forma. La fatica e il dolore forgiano l'uomo. Così funzionavano le civiltà tradizionali, orientali e occidentali. Ecco che cosa scriveva, ad esempio, Daidoji Yuzan (1639-1730) nel suo Codice dell'apprendista samurai (Luni): «Quando diventa un samurai, l'uomo deve considerare come suo sommo dovere il non separarsi mai dall'idea della morte, giorno e notte, dal momento in cui prende in mano le bacchette per il primo pasto la mattina di capodanno, fino alla sera dell'ultimo giorno dell'anno, quando fa il bilancio delle sue passate azioni. Se un uomo si ricorda continuamente della morte, sa vivere secondo i principi della lealtà e della pietà filiale, riesce a evitare un'infinità di problemi e di sventure, a proteggersi dalle malattie e da qualsiasi disgrazia». Yamamoto Tsunetomo, nel celeberrimo Hagakure, spiegava invece che «la Via del samurai è la passione per la morte. Neppure dieci uomini insieme sono capaci di far vacillare un uomo animato da una convinzione simile». Non era molto diverso il discorso di San Francesco d'Assisi, che chiamava la morte «sorella». O quello dei martiri, pronti a versare sangue per «testimoniare» Cristo. Con la modernità, notava Jünger, tutto cambia. Il corpo non è più un «avamposto» da cui combattere per un fine più alto. Il fine, oggi, è il corpo stesso. Dunque bisogna preservarlo a ogni costo, evitare ogni tipo di dolore. Per questo motivo siamo diventati una società che ha paura della sofferenza, come spiega il filosofo Byung-Chul Han in un fulminante saggio appena pubblicato da Einaudi (La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite). Secondo Han, «oggi imperversa ovunque una algofobia, una paura generalizzata del dolore. Anche la soglia del dolore crolla con rapidità. L'algofobia ha come conseguenza un'anestesia permanente. Si evita qualsiasi circostanza dolorosa. Persino le pene d'amore sono diventate sospette. L'algofobia si estende nell'ambito sociale. Ai conflitti e alle controversie che potrebbero condurre a confronti dolorosi viene riservato uno spazio sempre minore». Il ragionamento, da un certo punto di vista, è contro intuitivo. Potremmo chiederci: ma per quale motivo non dovrebbe essere una buona cosa evitare il dolore? I greci erano convinti che il dolore insegnasse a vivere, ma è anche vero che, in certe quantità, il dolore non insegna nulla: semplicemente annichilisce, soffoca, distrugge. Il fatto, però, è che la sofferenza è un elemento ineliminabile dell'esistenza umana. Che lo vogliamo o no, la Croce è la via che, in misure diverse, dobbiamo percorrere, pure se non abbiamo nessuna intenzione di bere dal calice. E l'idea, del tutto velleitaria, di eliminare il dolore ha conseguenze molto pesanti. La prima è quella di cui si era accorto Aleksandr Solzhenitsyn, uno che con la sofferenza aveva dovuto fare i conti in profondità. «Il declino del coraggio è nell'Occidente d'oggi forse ciò che più colpisce uno sguardo straniero», disse nel suo discorso ad Harvard nel 1978. L'autore russo era giunto alle stesse conclusioni di Jünger e di Han. Aveva compreso che gli occidentali, scegliendo il benessere fisico come unico fine, avrebbero rinunciato a battersi per ogni ideale superiore. «La maggioranza dispone di un'agiatezza inimmaginabile soltanto una o due generazioni fa, si può ormai educare la gioventù nello spirito dei nuovi ideali, chiamandola alla fioritura fisica e alla felicità, preparandola a disporre di cose, di denaro, di svaghi, abituandola a una libertà pressoché illimitata, e allora ditemi: in nome di chi, a che scopo certuni dovrebbero strapparsi a tutto questo e rischiare la loro preziosa vita per la difesa del bene comune?». Della verità di tali affermazioni abbiamo avuto prova in questi mesi di pandemia. Come scrive Byung-Chul Han, la nostra società «palliativa» e «anestetizzata» ha rimosso la dimensione sociale del dolore, lo ha «spoliticizzato medicalizzandolo e privatizzandolo». Che significa? Un esempio: invece di ribellarci insieme a norme oppressive e spesso ingiuste, a un sistema di controllo soffocante, preferiamo considerare nemici i vicini, gli Altri, magari sospettandoli di essere untori che mettono a rischio il nostro benessere. Queste sono le conseguenze della rimozione forzata del dolore. «La società della sopravvivenza è una società di non morti», dice Han. «Siamo troppo vivi per morire e troppi morti per vivere». La nostra stessa vita ha perso di senso, perché la nostra esistenza è ridotta a «processo biologico» e «la virologia esautora la teologia», la fede viene «sacrificata del tutto sull'altare della sopravvivenza». Tutte le nostre energie sono spese per prolungare la vita. Non importa che questa vita sia «buona» o meno. Conta la «nuda vita». In questo quadro, una esistenza che non sia puro benessere e pieno godimento non vale la pena di essere portata avanti. Il dolore, però, viene semplicemente rimosso, non eliminato, dunque i malati e i sofferenti esistono ancora. Ma devono restare muti o sparire. Come notava lo storico Philippe Ariès, in Occidente la malattia e il dolore sono «sconvenienti». Mettono a rischio quella che Eva Illouz chiama «happycracy», la tirannia della felicità, del «pensiero positivo» obbligatorio. Del dolore vale la pena occuparsi soltanto quando viene esibito in tv o nei libri autobiografici il cui scopo è spiegare come soffrire sia utile solo nel quadro di una ulteriore ottimizzazione della vita. Se, insomma, ci consente di migliorare le nostre prestazioni, una volta superata la difficoltà. Ma se la difficoltà non si può superare, se è invalidante, sono guai. Da qui l'idea della «dolce morte» da mettersi in pratica premendo un interruttore, senza riti particolari, senza un processo di elaborazione della sofferenza. In fondo, la paura del dolore è paura della morte, cioè la grande nemica che la Rivoluzione Tecnologica in atto si propone addirittura di vincere una volta per tutte, magari «potenziando» l'essere umano tramite innesti artificiali. Nella società senza dolore tutto deve essere positivo, il negativo scompare. Il che significa che scompaiono gli altri. Evitare la sofferenza e la fatica è la regola nei rapporti umani: i legami si sfaldano, i rapporti amorosi diventano mere occasioni di consumo, a cui mettere fine una volta che comportano difficoltà. Viene meno persino la critica, perché la «alterità», la «negatività» divengono inaccettabili. Le opinioni diverse turbano la pace del pensiero unico, sono «scorrette» perché possono offendere (cioè far soffrire) qualche gruppo sociale, e in ogni caso comportano una riflessione troppo faticosa, e magari dolorosa (non è piacevole scoprire di avere torto). Ecco a che punto siamo. Proviamo ogni giorno a occultare il dolore per goderci appieno la nostra umanità. Ma senza il dolore smettiamo di essere umani.
«Murdaugh: Morte in famiglia» (Disney+)
In Murdaugh: Morte in famiglia, Patricia Arquette guida il racconto di una saga reale di potere e tragedia. La serie Disney+ ricostruisce il crollo della famiglia che per generazioni ha dominato la giustizia nel Sud Carolina, fino all’omicidio e al processo mediatico.