2023-08-21
Il silenzio sull’ex politico in affari
I nostri scoop sono stati ignorati da giornali e parlamentari progressisti: per loro nessuno scandalo sul politico affarista.Il caso D’Alema merita un paio di riflessioni. La prima è che, leggendo le carte dell’inchiesta che vede coinvolto l’ex presidente del Consiglio, si capisce come le indagini abbiano preso il via soltanto dopo che La Verità rivelò la trattativa per la cessione di armi alla Colombia tramite strani intermediari. Nell’informativa degli agenti di polizia giudiziaria vengono infatti riportati ampi stralci degli articoli firmati dai nostri Giacomo Amadori e Francois De Tonquédec. Come i lettori ricorderanno, la strana e sorprendente vicenda venne rivelata dal nostro giornale nel silenzio generale della grande stampa alla fine di febbraio dello scorso anno. Nonostante una serie di resoconti dettagliati, per giorni non si mosse nessuno. E dire che le cronache scritte dai colleghi erano ricche di particolari e pure di riscontri dell’incredibile operazione. Tanto per cominciare, c’era una registrazione dei colloqui intercorsi tra alcuni presunti esponenti delle forze armate colombiane e Massimo D’Alema. Nel dialogo, che Amadori e Tonquédec avevano potuto ascoltare e che di lì a pochi giorni sarebbe stato messo a disposizione dei lettori sul sito della Verità, era facilmente distinguibile la voce dell’ex presidente del Consiglio e non si parlava di massimi sistemi inerenti gli equilibri internazionali, ma di aerei e navi militari. Una fornitura che all’ex capo dei Democratici di sinistra e ai suoi amici avrebbe dovuto fruttare 80 milioni di euro. Ce ne saranno per tutti, diceva l’ex premier e ministro degli Esteri cercando di rassicurare gli interlocutori e soprattutto lasciando intravedere la possibilità di una gratificante spartizione del bottino. Ma oltre alla voce di colui che un tempo era chiamato il lìder Maximo, a conferma dell’esistenza della trattativa c’erano le testimonianze delle persone interpellate dalla Verità, a cominciare dall’allora sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé, per finire ad alcuni compagni di strada (ma forse sarebbe meglio chiamarli soci in affari) di D’Alema. Per giorni e giorni, dicevamo, abbiamo raccontato i fatti nel silenzio generale. Ma, come dimostra l’inchiesta, nella combriccola di mediatori, mentre la grande stampa e la politica tacevano, c’era grande agitazione perché qualcuno, a cominciare dallo stesso D’Alema, si stava rendendo conto che non soltanto l’operazione era bruciata, ma che vi sarebbero stati strascichi anche giudiziari. Certo, c’è voluto più di un anno, ma alla fine qualche cosa si è mosso. Infatti, prima dell’estate, alla nostra porta ha bussato una pattuglia della polizia, intenzionata ad avere l’originale della registrazione. La lentezza delle indagini ripropone il tema di una giustizia che va a due velocità e che è lesta nell’indagare sui ladri di polli, ma quando c’è di mezzo qualche potente (ne sanno qualche cosa i Benetton con l’inchiesta Autostrade) si muove come una lumaca. Ma dovrebbe suggerire anche una riflessione sulla nostra stampa, che se ci sono di mezzo le frasi scritte in un libro da un generale è pronta a scatenarsi e a parlare di golpisti fra le forze armate, ma se c’è chi traffica con caccia e corvette alle spalle del governo, preferisce tapparsi la bocca, in attesa che si pronunci la magistratura. Giorgia Meloni in vacanza in Albania merita paginate, ma Massimo D’Alema in affari con paramilitari colombiani neanche una breve.Tuttavia, oltre a un ripensamento su stampa e giustizia del nostro Paese, il caso D’Alema suggerisce anche un altro spunto. Ma che razza di Paese è quello in cui un ex presidente del Consiglio, ormai da anni fuori dalla politica, può continuare a intrattenere rapporti con funzionari e ambasciatori? Un premier o un ministro hanno una delega, ma un onorevole trombato non ha più alcun titolo per ruotare attorno ad affari che competono all’amministrazione pubblica. Per anni i compagni ci hanno riempito la testa con i discorsi sul conflitto d’interessi. E quale conflitto c’è tra chi non ha più alcun ruolo, ma sfrutta il proprio nome e il proprio passato per continuare ad averlo? Non si può fingere di non vedere. C’è chi, una volta lasciato il Parlamento e il governo, continua a vivere di politica o vicino alla politica, interagendo con aziende pubbliche o società concessionarie che si rapportano con lo Stato. È un mondo di mezzo, che non ha regole, ma si basa su molti segreti e relazioni, con il rischio a tutti evidente proprio con il caso D’Alema, ossia di spalancare le porte a ogni genere di affaristi e di alimentare un mercato dove le stecche sono chiamate provvigioni o royalties, ma sempre soldi pubblici sono. E sempre nelle tasche di qualcuno finiscono.