
Nei giornali e in politica Giovanni Spadolini riuscì a farsi odiare, senza saper essere cattivo. Di affetti non ne aveva, al di là della mamma. Con il cibo e il potere sublimò le sue impotenze.Quando dirigevo il Corriere d'Informazione, a metà degli anni Settanta, mi era venuta in mente un'ideuzza, in seguito proposta da tanti giornali: ogni settimana un personaggio famoso era invitato in redazione, per parlare al telefono con i lettori. E ne facevamo una paginata o anche due. Ricordo i nomi più vari: Giulio Andreotti, Gian Carlo Pajetta, Luciana Castellina, l'attore Kabir Bedi all'epoca popolarissimo come Sandokan, Pippo Baudo, calciatori, attori e attrici... Invitai anche Giovanni Spadolini, che era stato cacciato in malo modo dalla direzione del Corriere della Sera, quando Piero Ottone era stato imposto da Giulia Maria Crespi come direttore: la redazione era pochi scalini sotto la nostra, al primo piano del leggendario indirizzo, via Solferino 28, a Milano. E il giorno dopo Spadolini aveva intrapreso una folgorante carriera politica, nel Partito repubblicano.Dopo tre ore passate al telefono con i lettori, Giovannone mi prese da parte e mi chiese: «Ma chi trascrive le domande e le mie risposte?». Gli dissi che al servizio era destinato un esperto caporedattore. Nessuno aveva sollevato obiezioni. Spadolini replicò con uno sguardo scettico, mi prese per il braccio e bisbigliò: «Direttore, mi fai una cortesia? Vorrei rileggere tutto, prima che sia stampato...». E aggiunse con una risatina: «Brutta gente i giornalisti. Fidarsi è bene, ma...». Temo però che la rievocazione di questo episodio possa indurre a valutazioni sbagliate. Spadolini era certamente sussiegoso, diffidente, compunto se non pomposo. Ma senza cattiveria. Era, prima di tutto, un personaggio istituzionale. E nello stile dei suoi comportamenti c'era qualcosa di ingenuo, quasi fanciullesco. Probabilmente era incurante, o inconsapevole, di ciò che potesse procurargli antipatie.C'è un episodio, molto noto, che racconta bene i suoi atteggiamenti, discutibili e criticabili. Quando era direttore del Corriere aveva l'abitudine di ritirarsi nel suo ufficio, porta chiusa, luce rossa: vietato entrare, per tutti. Perché? Spadolini, sono certo, neanche si rendeva conto della scortesia verso i suoi colleghi. Prima e dopo di lui, per tradizione e forse anche con un po' di ipocrisia, la porta era sempre spalancata. Per Spadolini rinserrarsi nel suo studio era cosa naturale: insomma, lui era il direttore, l'autorità istituzionale, aveva ben diritto, o no, di immergersi in lunghissime telefonate politiche, senza orecchie indiscrete? Successe un giorno che Dino Buzzati, gravemente malato, salì dalla tipografia per fargli vedere, come d'uso, il bozzone della terza pagina. Trovò la luce rossa e restò impettito, in piedi, di fronte alla porta chiusa. I commessi erano a conoscenza delle condizioni di salute del grande giornalista e scrittore, si offrirono di bussare alla porta e di avvertire il direttore, gli offrirono una sedia, per rendere meno penosa l'attesa. Ma Buzzati - probabilmente con finissima perfidia - rifiutò ogni soccorso e aspettò immobile, per mezz'ora e forse più, che la lucina rossa di spegnesse. Di bocca in bocca, e forse ingigantito, l'episodio certo non giovò alla già scarsa popolarità del direttore.Spadolini è stato comunque un personaggio più unico che raro. Con una caratteristica particolare: quasi sempre il primo, o il più giovane, all'università, in giornalismo e in politica. Lo sapevano tutti, e non perché studiassero la sua biografia: non ce n'era bisogno perché Spadolone, con immensa vanità, a tutti lo ricordava, orgogliosissimo. A ventidue anni, firmava opinioni importanti in prima pagina sul Messaggero. E, quasi adolescente, era già stato il cocco di grandi giornalisti più anziani di lui: Mario Pannunzio, Arrigo Benedetti, Leo Longanesi, Indro Montanelli. Il più giovane docente universitario, arrivato alla cattedra senza trafila. Giovanissimo anche come direttore di giornali - il Resto del Carlino e Corriere della Sera - senza aver mai fatto il redattore (e si vedeva, dicono i maligni). Giovanissimo segretario repubblicano. E primo ministro di un governo laico, non democristiano.Cosimo Ceccuti, suo allievo e poi presidente della Fondazione Spadolini: «I libri non li faceva toccare a nessuno, diceva che si spolverano leggendoli... Leggeva e rileggeva opere che sapeva quasi a memoria, grazie alla sua prodigiosa capacità di ricordare tutto. Diceva che quello era il suo modo “per dialogare con i morti"». Illuministi, filosofi della politica, storici, studiosi conosciuti in gioventù come Benedetto Croce, attivisti come Piero Gobetti, e poi la sterminata bibliografia su Napoleone e Garibaldi, i suoi due idoli... Una vita per lo Stato, riassunta dall'ultima frase rivolta al neoeletto Silvio Berlusconi in Senato: «Si ricordi presidente che si va al governo, non si va al potere. E si va con le valigie pronte» (da un articolo di Simona Poli per La Repubblica).Era nato a Firenze il 21 giugno 1925. Il padre, Guido, era un pittore macchiaiolo, proprietario di una grande biblioteca nella quale Giovanni, fin da bambino, iniziò a formare la sua straordinaria cultura. Laurea in Giurisprudenza nel novembre del 1947, ma da subito all'avvocatura preferisce il giornalismo e gli studi, a 25 anni insegna storia moderna alla facoltà di Scienze politiche. Debutta al Messaggero, diretto da Mario Missiroli, grazie a una lettera di raccomandazione di Giovanni Papini. E da Missiroli nel 1953 è chiamato al Corriere della Sera come editorialista. Dal 1955 al 1968 direttore del Resto del Carlino di Bologna, dal 1968 al 1972 direttore del Corriere della Sera, imposto da Giulia Maria Crespi (che chiamava «la mia fanciullina») al posto di Alfio Russo. Ma il 3 marzo del 1972 - proprio dalla sua fanciullina - Spadolini fu brutalmente licenziato, con una lettera. Si racconta che, infuriato, urlava per i corridoi di esser stato trattato peggio di una cameriera. Montanelli, che forse aspirava alla direzione, parlò di «golpe» guatemalteco. La redazione proclamò uno sciopero. Piero Ottone ne prese il posto e disse: «Per Spadolini era importante il suo articolo settimanale, autorevole nel dibattito politico. Per me, il giornale non è un organo politico, ma uno strumento di informazione. Erano evidenti le nostre diverse ascendenze». Indro Montanelli, che pure lo sostenne: «Non faceva mai quelle concessioni a cui bisogna arrivare se vuoi vendere un prodotto. Ecco, gli mancava il senso del giornale come prodotto».Dopo la rottura con il Corriere entra in politica in modo trionfale: nel 1972 viene eletto senatore indipendente nelle liste del Pri, dal 1974 al 1976 ministro dei Beni culturali nel governo Moro. Nel 1979, per pochi mesi (marzo-agosto), ministro della Pubblica istruzione nel governo Andreotti, poi a settembre dopo la morte di La Malfa diventa segretario repubblicano, fino al 2 luglio 1987. Capo del governo dal 10 giugno 1981 al 30 novembre 1982. E ancora, ministro della Difesa nel governo Craxi (4 agosto 1983-18 aprile 1987). Presidente del Senato per la X e XI legislatura (1987-1994), poi - trionfo di Silvio Berlusconi - fu sconfitto per un solo voto da Carlo Scognamiglio. Il 2 maggio 1991 Francesco Cossiga lo aveva nominato senatore a vita. Molti pensano che la bocciatura subita dal governo Berlusconi fu il colpo di grazia per la sua salute e la psicologia di (quasi) eterno vincente. Si spense poco dopo a Roma, a causa di un tumore, il 4 agosto 1994. Molto giovane, a soli 69 anni.A proposito della sua trionfale ascesa politica Indro Montanelli raccontò: «La Malfa voleva che io entrassi in politica, ma non ne avevo voglia. C'erano le elezioni in vista e lui diventava pressante. Gli dissi: “Hai a disposizione un uomo popolarissimo a Milano, che è anche un cervello politico, mentre io non lo sono". “Spadolini?", rispose, “Non lo voglio, non lo voglio perché è un politico"». Lo persuasi, in cambio mi chiese di fare tre comizi. Li feci, due a Milano e uno a Genova, anche se per me fu una tortura. In realtà La Malfa non voleva nel partito qualcuno che potesse tenergli testa. Io non gli avrei dato noia, non sarei mai andato a Montecitorio». Fu un bersaglio fisso della satira. Prima, del perfido Fortebraccio che lo chiamava «Sciaboletta»; poi, di Giorgio Forattini che lo disegnava gigantesco, con un pisello minuscolo, a volte coperto da un'edera, simbolo repubblicano. Spadolini, vanitosissimo, era però fiero dell'attenzione ed esponeva in casa le vignette.Spadolini fu spesso indicato nel gossip come omosessuale, ma non c'è alcuna prova che lo fosse. Massimo Fini ha scritto che «non aveva senso della misura, delle proporzioni e del ridicolo. Si rimirava allo specchio, dall'alluce all'ombelico, provando quei brividi di piacere che non aveva mai conosciuto con una donna, ed era soddisfatto così». Era un uomo di straordinaria cultura ed erudizione, con una biblioteca privata di decine di migliaia di volumi. Era onesto. Amava il potere, come sublimazione delle sue numerose impotenze, non i quattrini. Non era un corrotto e nemmeno un corruttore. Sempre Fini: «Privo di affetti, tranne quello, fortissimo, per la madre (di cui seguì costantemente, in modo macabro, l'agonia fotografandone la decadenza e la decomposizione), che spiega molti lati del suo carattere e della sua inconsistenza virile».Al di là delle supposizioni, la sua vita sentimentale è del tutto misteriosa. Sul piano sessuale, da scommettitore, direi che non abbia avuto esperienze, passioni, coinvolgimenti. Quanto a eventuali idilli, platonici, si ha notizia di tre supposizioni. La prima: la tenerezza che provava per lui Mimma Mondadori, fino al punto di sostenerlo nella campagna elettorale, assicurandogli il favore dei salotti milanesi. La seconda, labile chiacchiera, riguardava una signora Brion, appartenente all'azienda veneta Brionvega, fino al 1992 (anno della cessione) importante nel settore dell'elettronica. La terza, che mi arrivò quando ero all'Informazione: Spadolini era un ammiratore fanatico di Ilaria Occhini, spesso in prima fila a teatro: nel posto a fianco (vuoto) portava con sé un bel pacco di bon bon, che consumava a ritmi frenetici. Ilaria, nipote di Giovanni Papini, era legata da un grande amore a Raffaele La Capria (lei lo chiamava Dudù, lui scassacazzi).A Palazzo Chigi, al governo, la comunicazione era affidata a Stefano Folli e Ugo Magri, che chiamava Jacopone da Todi. Ma gli era preziosa, per efficienza e simpatia, Maria Pia La Malfa, moglie di Alberto Dell'Utri, con il compito di tenere a bada, senza offenderli, i visitatori opportuni (Spadolini era umorale: trattava tutti per simpatia o antipatia, a pelle). Era perfezionista, rivedeva le virgole, dava i voti ai giornalisti «cani rabbiosi»: anche sette e otto, oppure due e zero. Il suo ristorante preferito era Fortunato al Pantheon, che gli faceva trovare montagne di ovoline di mozzarella. «Non era goloso», precisa Mario Pendinelli. «Aveva sempre una fame colossale, divorava tutto». E ricorda: «Quando fui nominato direttore del Messaggero, venne a trovarmi lo stesso giorno. Ci fece impazzire, cercava - senza esito - la sua camera di molti lustri prima. Alla fine si accomodò nella mia poltrona e fece fuori rapidamente le pizzette, i dolci e la frutta che avevamo preparato per lui».
Nadia e Aimo Moroni
Prima puntata sulla vita di un gigante della cucina italiana, morto un mese fa a 91 anni. È da mamma Nunzia che apprende l’arte di riconoscere a occhio una gallina di qualità. Poi il lavoro a Milano, all’inizio come ambulante e successivamente come lavapiatti.
È mancato serenamente a 91 anni il mese scorso. Aimo Moroni si era ritirato oramai da un po’ di tempo dalla prima linea dei fornelli del locale da lui fondato nel 1962 con la sua Nadia, ovvero «Il luogo di Aimo e Nadia», ora affidato nelle salde mani della figlia Stefania e dei due bravi eredi Fabio Pisani e Alessandro Negrini, ma l’eredità che ha lasciato e la storia, per certi versi unica, del suo impegno e della passione dedicata a valorizzare la cucina italiana, i suoi prodotti e quel mondo di artigiani che, silenziosi, hanno sempre operato dietro le quinte, merita adeguato onore.
Franz Botrè (nel riquadro) e Francesco Florio
Il direttore di «Arbiter» Franz Botrè: «Il trofeo “Su misura” celebra la maestria artigiana e la bellezza del “fatto bene”. Il tema di quest’anno, Winter elegance, grazie alla partnership di Loro Piana porterà lo stile alle Olimpiadi».
C’è un’Italia che continua a credere nella bellezza del tempo speso bene, nel valore dei gesti sapienti e nella perfezione di un punto cucito a mano. È l’Italia della sartoria, un’eccellenza che Arbiter celebra da sempre come forma d’arte, cultura e stile di vita. In questo spirito nasce il «Su misura - Trofeo Arbiter», il premio ideato da Franz Botrè, direttore della storica rivista, giunto alla quinta edizione, vinta quest’anno da Francesco Florio della Sartoria Florio di Parigi mentre Hanna Bond, dell’atelier Norton & Sons di Londra, si è aggiudicata lo Spillo d’Oro, assegnato dagli studenti del Master in fashion & luxury management dell’università Bocconi. Un appuntamento, quello del trofeo, che riunisce i migliori maestri sarti italiani e internazionali, protagonisti di una competizione che è prima di tutto un omaggio al mestiere, alla passione e alla capacità di trasformare il tessuto in emozione. Il tema scelto per questa edizione, «Winter elegance», richiama l’eleganza invernale e rende tributo ai prossimi Giochi olimpici di Milano-Cortina 2026, unendo sport, stile e territorio in un’unica narrazione di eccellenza. A firmare la partnership, un nome che è sinonimo di qualità assoluta: Loro Piana, simbolo di lusso discreto e artigianalità senza tempo. Con Franz Botrè abbiamo parlato delle origini del premio, del significato profondo della sartoria su misura e di come, in un mondo dominato dalla velocità, l’abito del sarto resti l’emblema di un’eleganza autentica e duratura.
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A rischiare di cadere nella trappola dei «nuovi» vizi anche i bambini di dieci anni.
Dopo quattro anni dalla precedente edizione, che si era tenuta in forma ridotta a causa della pandemia Covid, si è svolta a Roma la VII Conferenza nazionale sulle dipendenze, che ha visto la numerosa partecipazione dei soggetti, pubblici e privati del terzo settore, che operano nel campo non solo delle tossicodipendenze da stupefacenti, ma anche nel campo di quelle che potremmo definire le «nuove dipendenze»: da condotte e comportamenti, legate all’abuso di internet, con giochi online (gaming), gioco d’azzardo patologico (gambling), che richiedono un’attenzione speciale per i comportamenti a rischio dei giovani e giovanissimi (10/13 anni!). In ordine alla tossicodipendenza, il messaggio unanime degli operatori sul campo è stato molto chiaro e forte: non esistono droghe leggere!
Messi in campo dell’esecutivo 165 milioni nella lotta agli stupefacenti. Meloni: «È una sfida prioritaria e un lavoro di squadra». Tra le misure varate, pure la possibilità di destinare l’8 per mille alle attività di prevenzione e recupero dei tossicodipendenti.
Il governo raddoppia sforzi e risorse nella lotta contro le dipendenze. «Dal 2024 al 2025 l’investimento economico è raddoppiato, toccando quota 165 milioni di euro» ha spiegato il premier Giorgia Meloni in occasione dell’apertura dei lavori del VII Conferenza nazionale sulle dipendenze organizzata dal Dipartimento delle politiche contro la droga e le altre dipendenze. Alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a cui Meloni ha rivolto i suoi sentiti ringraziamenti, il premier ha spiegato che quella contro le dipendenze è una sfida che lo Stato italiano considera prioritaria». Lo dimostra il fatto che «in questi tre anni non ci siamo limitati a stanziare più risorse, ci siamo preoccupati di costruire un nuovo metodo di lavoro fondato sul confronto e sulla condivisione delle responsabilità. Lo abbiamo fatto perché siamo consapevoli che il lavoro riesce solo se è di squadra».





