2022-12-03
Il rischio è che la Costituzione diventi «intermittente»
La nota stampa della Consulta parla di obbligo vaccinale lecito perché introdotto «in periodo pandemico». In altri periodi non lo sarebbe stato? Se così fosse, si legittimerebbe uno «stato d’emergenza» non previsto.Totalmente immersi nella bolla polarizzante di un clima da tifo, il verdetto piuttosto scontato della Corte sui ricorsi contro gli obblighi vaccinali non ha fin qui suscitato commenti sulle possibili conseguenze ordinamentali e giuridiche che potrebbe avere. In parte il fatto è comprensibile: quel che abbiamo in mano al momento è un comunicato stampa, mentre i giudici costituzionali ovviamente parlano soprattutto con sentenze e motivazioni. In attesa di leggere queste ultime, tuttavia, alcune domande possono essere fatte, uscendo dalla comoda e falsante divisione irriducibile tra «integrati» convinti delle misure di Conte, Draghi e Speranza e generica galassia «no-vax» (etichetta in questo caso ancor più inadeguata, visto che a tema era la liceità degli obblighi e delle misure sanzionatorie).A suo modo, già il titolo apposto alla nota per i media diffusa nella serata di giovedì aveva un’involontaria «confessione» sull’orientamento generale, peraltro largamente trapelato anche dalle parole dell’ex portavoce della Consulta e fresca collaboratrice della Stampa: «Obbligo vaccinale a tutela della salute». Un’espressione a suo modo molto eloquente che ignora, per esempio, l’equilibrio tra «salute» e «lavoro», in una Repubblica democratica fondata sul secondo.Il primo nodo, quello legato al divieto apparentemente solo punitivo di svolgere anche attività a distanza per gli psichiatri non vaccinati, è stato sciolto con l’inammissibilità del ricorso «per ragioni processuali». Formula che rimanda al deposito della sentenza e delle motivazioni per qualunque commento o approfondimento. Più significativa e gravida di conseguenze è la frase successiva: «Sono state ritenute invece non irragionevoli, né sproporzionate, le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario». Anche qui, come logico, faranno testo - e soprattutto giurisprudenza - solo le parole sottoscritte dai togati. Però l’inciso «in periodo pandemico» non può non suscitare qualche perplessità. I primi commenti hanno registrato la presunta «vittoria contro i no vax», con una paradossale contraddizione: la sentenza è stata accolta contemporaneamente come una «sonante vittoria della scienza» (La Stampa) e brandita come arma da picchiare sulla zucca del governo di centrodestra. Repubblica ha infatti scritto che la mossa dell’esecutivo di anticipare la fine degli obblighi «non si può considerare “coperta” dalla Consulta», e ha rilevato la dissonanza della pronuncia dei giudici «mentre la maggioranza continua ad aprire alle istanze no vax». Quanto meno, delle due l’una. E invece no: quando fa comodo per blindarla, la sentenza è «scientifica» (mentre, e ci mancherebbe altro, le toghe non si improvvisano virologi) ed è espressione di un teorico organo «di garanzia», ma allo stesso tempo rappresenta un antidoto contro «l’inganno dello storytelling della destra», come ha scritto il 28 novembre - ancora sulla Stampa - Donatella Stasio, portavoce della Corte fino al mese prima e dunque - si suppone - bene informata sugli intenti della medesima.Riconducendo la pronuncia della Consulta all’alveo giuridico, cosa vuol dire quell’«in periodo pandemico» nel comunicato? Che in un altro periodo le stesse decretazioni e gli stessi obblighi sarebbero stati irragionevoli e sproporzionati? Come noto, la nostra Corte ha già ritenuto lecito - opponendosi al ricorso della Regione Veneto - l’obbligo vaccinale, ponendo alcune condizioni legate a sicurezza ed efficacia dei presidi medici. Quali riflessioni anticipa l’inciso relativo al «periodo pandemico»? Il rischio più profondo non è nel merito (era impensabile che gli obblighi venissero disarticolati), ma nel metodo. Se dietro quella perifrasi ci fosse una introduzione di una sorta di «stato di emergenza» che la Costituzione in sé non prevede, le preoccupazioni al riguardo non sarebbero peregrine. Estremizzando: si possono fare cose incostituzionali perché qualcuno decide che la situazione lo richiede? E chi lo stabilirebbe? «Sovrano», diceva Carl Schmitt, «è chi decide sullo stato di eccezione». Saremmo, allora, in presenza di una interpretazione molto «flessibile» del dettato: un passo in più nella direzione percorsa dall’ex ministro della Giustizia ed ex presidente della Consulta, Marta Cartabia, che teorizzava e applicava la «funzione dinamizzante dell’ordinamento» delle toghe supreme, «attraverso l’interpretazione sempre nuova dei principi costituzionali, a contatto con l’evoluzione sociale». In termini di cultura giuridica, una posizione agli antipodi dell’originalismo ma anche in potenziale attrito con la separazione dei poteri. L’ipotetica - in attesa delle motivazioni - creazione di un’area intermittente per l’applicazione espone infatti al rischio che il giudice adatti l’interpretazione a seconda delle inclinazioni del potere (esecutivo, dell’opinione pubblica, del consenso). Fare questo però altera l’ordinamento stesso in modo non reversibile: un’eterogenesi dei fini che può avere applicazioni ben oltre l’ambito sanitario e ben oltre quello degli obblighi vaccinali oggetto dei ricorsi. I quali, al lato pratico, sarebbero comunque finiti con l’anno corrente.Concentrarsi solo sul merito della faccenda, inseguendo la convenienza politica (pur evidentemente presente) rischia di far perdere di vista queste possibili conseguenze. Il resto si potrà capire solo con le motivazioni in mano.
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