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2019-06-18
Il regista trascurato come Oriana. Firenze è matrigna con i suoi geni
Ansa
Mentre esco dal museo che porta il suo nome, alle spalle di Palazzo Vecchio, mi sorprendo a pensare che vita meravigliosa sia stata la sua. Il viaggio dentro il mondo di Franco Zeffirelli, nelle stanze del Centro culturale delle arti e dello spettacolo dell'ex tribunale in piazza San Firenze, è una commozione interminabile. Eppure quel museo non è stato il naturale omaggio al celebre regista, l'ultimo grande figlio di Firenze. Nossignori.
Lo è diventato oggi , un onore doveroso e, vivaddio, sacrosanto. Ma quanta fatica, quante polemiche e quante minacce si sono intrecciate fra Roma e Firenze, fra il Maestro e il Comune, prima di trovare questa soluzione, che realizza il sogno dell'artista fiorentino di consegnare la sua storia alla città che lo ha visto nascere, e che, a sua volta, sancisce l'eterna riconoscenza di una comunità stizzosa e rissosa, nei confronti di questo grande personaggio amato in tutto il mondo ma non altrettanto qui, che rischiava di dover eleggere a Roma la cittadinanza delle sue memorie. Finché era nel pieno della sua dissacrante vocazione di genio fiorentino, gli hanno fatto la guerra, perché Zeffirelli è sempre andato controcorrente rispetto alla cultura dominante, cioè quella di sinistra. Stesso destino di Oriana Fallaci. Voi pensate che a Firenze, nella loro città, non fosse così? Che questi campioni fossero il vanto dei fiorentini, orgogliosi di condividere le comuni origini? Macché.
Da Dante Alighieri in giù, mai è accaduto che Firenze coccolasse i suoi figli illustri. Dicono sia l'invidia che la città secerne verso chiunque provi ad insidiarle il monopolio della bellezza. Sia essa rappresentata da un film, da un racconto per immagini o dalla capacità di descrivere il mondo, le grandi guerre, le personalità che hanno fatto la storia. Una città ingrata, ecco. Tanto, e viscerale, è stato l'amore di Zeffirelli e Oriana per Firenze, tanta è stata la ruvidezza dei sentimenti con cui molti loro concittadini li hanno ricambiati. Buttando spesso in politica un rapporto che era piuttosto antropologico e quasi carnale, prima ancora che culturale. E quando si butta in politica, i sentimenti degenerano.
Con Zeffirelli, il legame con Firenze si è consumato divorato dal suo anticomunismo, mai nascosto, semmai esibito fino alla sfida. La Fallaci ha pagato l'anti islamismo, anche questo un giardino velenoso coltivato dalla sinistra, che non accettò mai i rabbiosi segnali d'allarme da lei lanciati verso una civiltà che, oggi ne comprendiamo ancora di più la lungimiranza, vuole spazzarci via. E mentre loro gonfiavano il petto in tutto il mondo, orgogliosi della nativa fiorentinità, nella città matrigna erano ignorati o insultati. La Fallaci è morta nel 2006 senza che il Comune le avesse conferito il Fiorino d'oro, il massimo riconoscimento cittadino, che, come commentò Zeffirelli, avevano ricevuto «cani e porci».
E perciò corse al suo funerale per acquistare un fiorino qualunque in un negozio di via del Proconsolo e poi glielo fece scivolare nella tomba prima della sepoltura. Questo non impedì che quando il centrodestra propose di intitolare una strada a Oriana Fallaci, la sinistra si opponesse con le scuse più basse, compresa quella che dovevano passare 10 anni dalla morte per poter deliberare un cambiamento della toponomastica. Nel furore della contrapposizione ideologica (oggi parzialmente sopite) la etichettarono come reazionaria e fascista di ritorno, lei che era stata staffetta partigiana e aveva preso parte alla resistenza, aderendo però a Giustizia e libertà, anticamera della sua scelta socialista, quindi non propriamente allineata al fronte comunista.
Peggio ancora andò a Zeffirelli, al quale di fascista davano sistematicamente, colpevole di anticomunismo, ignorando che anche lui aveva combattuto con le brigate partigiane sul Monte Morello, alle quali si era unito su consiglio di Giorgio La Pira, che tutto si può dire che fosse, fuorché fascista. Due spiriti liberi che era impossibile ingabbiare. Infatti si ritrovarono insieme sulle fragili barricate che nel 2002 cercarono di tenere lontano da Firenze, il Social forum voluto dalle giunte rosso verdi. Si batterono per difendere la loro città, mai del tutto compresi.
Marcello Mancini
La colpa di Zeffirelli: essere omo ma non gay
Sembra quasi che vogliano ridurre il pensiero politico di Franco Zeffirelli a un fastidioso orpello. Come se un artista del suo calibro non potesse essere conservatore se non per posa, per vezzo o per colpa di una vena di follia. Anche ora che è defunto, continuano a rinfacciargli il peccato grave: essere stato omosessuale ma non gay. Lui lo ripeteva spesso: «La parola gay stessa è frutto della cultura puritana, una maniera stupida di chiamare gli omosessuali, per indicarli come fossero dei pazzerelli».
Essere omosessuale, argomentava, «è un impegno molto serio con noi stessi e con la società. Una tradizione antica e spesso di alto livello intellettuale, pensi solo al Rinascimento. Nella cultura greca l'esercito portava gran rispetto a due guerrieri che fossero amici e amanti, perché in battaglia non difendevano solo la patria, ma reciprocamente anche se stessi, offrendo una raddoppiata forza contro il nemico». Per questo ce l'aveva con i gay pride: «Esibizioni veramente oscene, con tutta quella turba sculettante».
Secondo Paolo Isotta, tutto ciò è da attribuire a falsità e cattiveria. «Se c'era una recchia, ma proprio una recchia, non un omosessuale era lui», ha scritto il critico sul Fatto quotidiano. E le professioni di fede cattolica? Tutte «panzane», insiste Isotta.
Lo liquidano così, come un pazzoide. Anche il suo viscerale anticomunismo viene confinato nel recinto della pazzia. Anzi, dell'«ossessione», come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Quasi che Zeffirelli fosse un'isterica, un megalomeno fissato con l'idea di non essere abbastanza amato dal suo Paese. Eppure, persino Natalia Aspesi, su Repubblica, lo ha riconosciuto: «La nostra critica cinematografica dichiarata di sinistra come tanti registi e cinefili, obbligava anche noi miti spettatori che oggi verremmo sbeffeggiati come radical chic a non amore le sue lussuose versioni di Romeo e Giulietta e La bisbetica domata, trascurando il fatto che quei film, amatissimi dal pubblico, portavano Shakespeare anche a chi non sapeva chi fosse». Forse, dopo tutto, non era tanto un'ossessione o una mania di persecuzione. Forse davvero al maestro non sono stati tributati i giusti onori.
Del resto, anche adesso, nell'ora delle celebrazioni postume e un po' appiccicose, si continua a mettere in ombra la parte sgradita del suo pensiero. Per esempio quella riguardante le «famiglie arcobaleno». «Conosco molti amici gay che vivono serenamente in coppia, magari da molti anni», disse in un'intervista. «Ma non c'è alcun bisogno di mettersi lì a creare una pseudofamiglia “legale" a vanvera, per me ridicola e inaccettabile. Basta sistemare le cose tra persone civili: se viviamo insieme e magari compriamo una casa, chiariamo anche le questioni delle quote, tra persone intelligenti che si vogliono bene. Basta un atto privato fatto come si deve. Punto e basta».
Omosessuale sì, eccome. Ma, dicevamo, non gay. Nel senso che non si adeguava allo stereotipo arcobaleno, che non faceva del suo orientamento sessuale una questione politica. Dimostrava, così, che si può essere omo senza per forza pensarla come gli attivisti Lgbt.
Ecco perché conviene, a molti, battere sul tasto della stravaganza, della mattana da creativo strampalato. Perché, se preso sul serio, il messaggio di Zeffirelli può risultare dirompente. Tra le altre cose, egli fu uno straordinario testimonial della lotta a favore della vita. Nella sua autobiografia, per dire, raccontò di come sua madre si ostinò a metterlo al mondo. Fu messa incinta da un uomo già sposato, e tutti - amici e parenti compresi - la invitavano a «liberarsi subito del “bastardino" che portava in grembo». Ma la donna s'intignò: «Mia madre sfidò i pregiudizi e le ostilità di una società ottusa per mettermi al mondo», scrisse Zeffirelli. «Per regalare la vita a me, rovinò la sua. Non c'è dunque da meravigliarsi che io sia tanto violentemente contrario all'aborto, e tanto grato per il coraggio di mia madre».
Successivamente, il regista ribadì il concetto: «Una madre che genera una vita è una donna premiata qualunque sia la sua situazione, qualunque siano i conti da pagare, qualunque siano i suoi problemi emozionali», spiegò nel 2002. E mentre oggi sentiamo parlare di «due padri» e vediamo madri surrogate cancellate con un tratto di penna, colpisce al cuore leggere ciò che diceva il genio fiorentino. E cioè che «il privilegio di portare la vita è un privilegio che gli uomini non hanno: noi siamo inferiori alle donne per questo. Il miracolo di sentir germogliare nel proprio ventre una nuova vita, il vederla sbocciare e vederla venir su rende voi donne più forti». Un'ode alla vita, dunque: non una falsità né un'ossessione. Un pensiero forte, dirompente. E quindi sgradito ai cantori del mondo arcobaleno, alla cultura ufficiale che lo ha sdegnato in vita e ancora oggi tenta di rimpicciolirlo.
Francesco Borgonovo
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Entrambi, in vita, sono stati incompresi e rifiutati dalla città che avevano nel cuore.Anche dopo la morte gli rimproverano la mancata adesione al pensiero unico. Non amava i pride: «Roba da carnevale» E ha sempre avuto idee pro life: «Sono violentemente contrario all'aborto». Ma questo suo lato lo dimenticano in troppi.Lo speciale contiene due articoli Mentre esco dal museo che porta il suo nome, alle spalle di Palazzo Vecchio, mi sorprendo a pensare che vita meravigliosa sia stata la sua. Il viaggio dentro il mondo di Franco Zeffirelli, nelle stanze del Centro culturale delle arti e dello spettacolo dell'ex tribunale in piazza San Firenze, è una commozione interminabile. Eppure quel museo non è stato il naturale omaggio al celebre regista, l'ultimo grande figlio di Firenze. Nossignori. Lo è diventato oggi , un onore doveroso e, vivaddio, sacrosanto. Ma quanta fatica, quante polemiche e quante minacce si sono intrecciate fra Roma e Firenze, fra il Maestro e il Comune, prima di trovare questa soluzione, che realizza il sogno dell'artista fiorentino di consegnare la sua storia alla città che lo ha visto nascere, e che, a sua volta, sancisce l'eterna riconoscenza di una comunità stizzosa e rissosa, nei confronti di questo grande personaggio amato in tutto il mondo ma non altrettanto qui, che rischiava di dover eleggere a Roma la cittadinanza delle sue memorie. Finché era nel pieno della sua dissacrante vocazione di genio fiorentino, gli hanno fatto la guerra, perché Zeffirelli è sempre andato controcorrente rispetto alla cultura dominante, cioè quella di sinistra. Stesso destino di Oriana Fallaci. Voi pensate che a Firenze, nella loro città, non fosse così? Che questi campioni fossero il vanto dei fiorentini, orgogliosi di condividere le comuni origini? Macché. Da Dante Alighieri in giù, mai è accaduto che Firenze coccolasse i suoi figli illustri. Dicono sia l'invidia che la città secerne verso chiunque provi ad insidiarle il monopolio della bellezza. Sia essa rappresentata da un film, da un racconto per immagini o dalla capacità di descrivere il mondo, le grandi guerre, le personalità che hanno fatto la storia. Una città ingrata, ecco. Tanto, e viscerale, è stato l'amore di Zeffirelli e Oriana per Firenze, tanta è stata la ruvidezza dei sentimenti con cui molti loro concittadini li hanno ricambiati. Buttando spesso in politica un rapporto che era piuttosto antropologico e quasi carnale, prima ancora che culturale. E quando si butta in politica, i sentimenti degenerano. Con Zeffirelli, il legame con Firenze si è consumato divorato dal suo anticomunismo, mai nascosto, semmai esibito fino alla sfida. La Fallaci ha pagato l'anti islamismo, anche questo un giardino velenoso coltivato dalla sinistra, che non accettò mai i rabbiosi segnali d'allarme da lei lanciati verso una civiltà che, oggi ne comprendiamo ancora di più la lungimiranza, vuole spazzarci via. E mentre loro gonfiavano il petto in tutto il mondo, orgogliosi della nativa fiorentinità, nella città matrigna erano ignorati o insultati. La Fallaci è morta nel 2006 senza che il Comune le avesse conferito il Fiorino d'oro, il massimo riconoscimento cittadino, che, come commentò Zeffirelli, avevano ricevuto «cani e porci». E perciò corse al suo funerale per acquistare un fiorino qualunque in un negozio di via del Proconsolo e poi glielo fece scivolare nella tomba prima della sepoltura. Questo non impedì che quando il centrodestra propose di intitolare una strada a Oriana Fallaci, la sinistra si opponesse con le scuse più basse, compresa quella che dovevano passare 10 anni dalla morte per poter deliberare un cambiamento della toponomastica. Nel furore della contrapposizione ideologica (oggi parzialmente sopite) la etichettarono come reazionaria e fascista di ritorno, lei che era stata staffetta partigiana e aveva preso parte alla resistenza, aderendo però a Giustizia e libertà, anticamera della sua scelta socialista, quindi non propriamente allineata al fronte comunista. Peggio ancora andò a Zeffirelli, al quale di fascista davano sistematicamente, colpevole di anticomunismo, ignorando che anche lui aveva combattuto con le brigate partigiane sul Monte Morello, alle quali si era unito su consiglio di Giorgio La Pira, che tutto si può dire che fosse, fuorché fascista. Due spiriti liberi che era impossibile ingabbiare. Infatti si ritrovarono insieme sulle fragili barricate che nel 2002 cercarono di tenere lontano da Firenze, il Social forum voluto dalle giunte rosso verdi. Si batterono per difendere la loro città, mai del tutto compresi. Marcello Mancini<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/il-regista-trascurato-come-oriana-firenze-e-matrigna-con-i-suoi-geni-2638893466.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-colpa-di-zeffirelli-essere-omo-ma-non-gay" data-post-id="2638893466" data-published-at="1766622731" data-use-pagination="False"> La colpa di Zeffirelli: essere omo ma non gay Sembra quasi che vogliano ridurre il pensiero politico di Franco Zeffirelli a un fastidioso orpello. Come se un artista del suo calibro non potesse essere conservatore se non per posa, per vezzo o per colpa di una vena di follia. Anche ora che è defunto, continuano a rinfacciargli il peccato grave: essere stato omosessuale ma non gay. Lui lo ripeteva spesso: «La parola gay stessa è frutto della cultura puritana, una maniera stupida di chiamare gli omosessuali, per indicarli come fossero dei pazzerelli». Essere omosessuale, argomentava, «è un impegno molto serio con noi stessi e con la società. Una tradizione antica e spesso di alto livello intellettuale, pensi solo al Rinascimento. Nella cultura greca l'esercito portava gran rispetto a due guerrieri che fossero amici e amanti, perché in battaglia non difendevano solo la patria, ma reciprocamente anche se stessi, offrendo una raddoppiata forza contro il nemico». Per questo ce l'aveva con i gay pride: «Esibizioni veramente oscene, con tutta quella turba sculettante». Secondo Paolo Isotta, tutto ciò è da attribuire a falsità e cattiveria. «Se c'era una recchia, ma proprio una recchia, non un omosessuale era lui», ha scritto il critico sul Fatto quotidiano. E le professioni di fede cattolica? Tutte «panzane», insiste Isotta. Lo liquidano così, come un pazzoide. Anche il suo viscerale anticomunismo viene confinato nel recinto della pazzia. Anzi, dell'«ossessione», come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Quasi che Zeffirelli fosse un'isterica, un megalomeno fissato con l'idea di non essere abbastanza amato dal suo Paese. Eppure, persino Natalia Aspesi, su Repubblica, lo ha riconosciuto: «La nostra critica cinematografica dichiarata di sinistra come tanti registi e cinefili, obbligava anche noi miti spettatori che oggi verremmo sbeffeggiati come radical chic a non amore le sue lussuose versioni di Romeo e Giulietta e La bisbetica domata, trascurando il fatto che quei film, amatissimi dal pubblico, portavano Shakespeare anche a chi non sapeva chi fosse». Forse, dopo tutto, non era tanto un'ossessione o una mania di persecuzione. Forse davvero al maestro non sono stati tributati i giusti onori. Del resto, anche adesso, nell'ora delle celebrazioni postume e un po' appiccicose, si continua a mettere in ombra la parte sgradita del suo pensiero. Per esempio quella riguardante le «famiglie arcobaleno». «Conosco molti amici gay che vivono serenamente in coppia, magari da molti anni», disse in un'intervista. «Ma non c'è alcun bisogno di mettersi lì a creare una pseudofamiglia “legale" a vanvera, per me ridicola e inaccettabile. Basta sistemare le cose tra persone civili: se viviamo insieme e magari compriamo una casa, chiariamo anche le questioni delle quote, tra persone intelligenti che si vogliono bene. Basta un atto privato fatto come si deve. Punto e basta». Omosessuale sì, eccome. Ma, dicevamo, non gay. Nel senso che non si adeguava allo stereotipo arcobaleno, che non faceva del suo orientamento sessuale una questione politica. Dimostrava, così, che si può essere omo senza per forza pensarla come gli attivisti Lgbt. Ecco perché conviene, a molti, battere sul tasto della stravaganza, della mattana da creativo strampalato. Perché, se preso sul serio, il messaggio di Zeffirelli può risultare dirompente. Tra le altre cose, egli fu uno straordinario testimonial della lotta a favore della vita. Nella sua autobiografia, per dire, raccontò di come sua madre si ostinò a metterlo al mondo. Fu messa incinta da un uomo già sposato, e tutti - amici e parenti compresi - la invitavano a «liberarsi subito del “bastardino" che portava in grembo». Ma la donna s'intignò: «Mia madre sfidò i pregiudizi e le ostilità di una società ottusa per mettermi al mondo», scrisse Zeffirelli. «Per regalare la vita a me, rovinò la sua. Non c'è dunque da meravigliarsi che io sia tanto violentemente contrario all'aborto, e tanto grato per il coraggio di mia madre». Successivamente, il regista ribadì il concetto: «Una madre che genera una vita è una donna premiata qualunque sia la sua situazione, qualunque siano i conti da pagare, qualunque siano i suoi problemi emozionali», spiegò nel 2002. E mentre oggi sentiamo parlare di «due padri» e vediamo madri surrogate cancellate con un tratto di penna, colpisce al cuore leggere ciò che diceva il genio fiorentino. E cioè che «il privilegio di portare la vita è un privilegio che gli uomini non hanno: noi siamo inferiori alle donne per questo. Il miracolo di sentir germogliare nel proprio ventre una nuova vita, il vederla sbocciare e vederla venir su rende voi donne più forti». Un'ode alla vita, dunque: non una falsità né un'ossessione. Un pensiero forte, dirompente. E quindi sgradito ai cantori del mondo arcobaleno, alla cultura ufficiale che lo ha sdegnato in vita e ancora oggi tenta di rimpicciolirlo. Francesco Borgonovo
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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