2020-01-11
Il referendum taglia parlamentari si farà anche se nessuno lo vuole
Raggiunto il numero minimo di firme per chiamare gli italiani al voto sulla riforma che diminuirà le poltrone. Dopo il dietrofront della corrente che fa capo a Mara Carfagna, ci pensa la Lega a fornire i senatori mancanti.Cacciatori nella neve. Tutti avanzano stancamente, di spalle come nel capolavoro invernale di Bruegel il Vecchio, per non essere riconosciuti o per confondere le carte. Sono i nostri politici davanti al taglio dei parlamentari, un passo avanti e due indietro, un marcarsi a uomo sperando nel contropiede, un incedere lento verso il referendum confermativo con un dubbio che aleggia come la nebbia sui prati ghiacciati: per confermare la sforbiciata o per dilatarne i tempi? «È il gioco della politica, di cosa vi stupite?» sussurra un senatore di Forza Italia. È qualcosa di nuovo e di vecchio, forse di eterno, che ha a che vedere con le congiure di palazzo e con l'istinto di conservazione. La notizia intanto è di segno opposto rispetto a quella di ieri: le firme ci sono, i promotori Andrea Cangini e Nazario Pagano (Fi) e Tommaso Nannicini (Pd) sono entrati alle 15 in Cassazione per depositarle. Sono 71, sette in più del numero richiesto, e se i giudici non avranno niente a che ridire sulla forma, la consultazione si farà. Gli italiani decideranno come democrazia insegna. Tutto il resto riguarda altri mondi, cronache marziane di accordi trasversali e telefonate irritate perché solo 36 ore fa il referendum era carta straccia, incenerito dal dietrofront all'ultimo chilometro di quattro senatori azzurri capeggiati da Massimo Mallegni, molto vicini a Mara Carfagna. La mossa ha prima sorpreso e poi infastidito Silvio Berlusconi che aveva due dei suoi come promotori e che ha risolto il problema con il coinvolgimento dei fedelissimi Roberta Toffanin e Dario Damiani. Una toppa decisiva perché lo smarcamento dei carfagnani (e qui siamo alle correnti d'aria) aveva indotto anche una decina di parlamentari del Pd a smarcarsi per silurare l'iniziativa. Alla fine tutto è tornato a posto anche per l'intervento di Matteo Salvini che ha chiesto ad alcuni senatori della Lega di supportare il referendum. Il leader aveva chiarito la sua posizione parlando in generale: «Ritengo che quando i cittadini si possono esprimere è sempre meglio, farei referendum su tutto come in Svizzera accade ogni mese». Sempre molto attento all'umore della piazza, il numero uno della Lega sa che da almeno 25 anni le due richieste primarie degli italiani necessitano di forbici, motoseghe o ruspe: taglio delle tasse e taglio delle poltrone. E allora avanti, che l'ultima parola sia la loro. Così lo scenario è definitivo ma surreale e intricato come un gomitolo che ha preso prigioniero un gatto. Il referendum si farà perché a parole lo vogliono tutti. Come osare mettersi contro un intero Paese? Poi i distinguo interni si sprecano. Fratelli d'Italia, che per quattro volte si era espressa in aula per il taglio, non ritiene di dover dimostrare altro; Giorgia Meloni non ha firmato ma ha detto che inviterà «a votare sì». Il Movimento 5 stelle da una parte è contro la consultazione che teoricamente rischia di far saltare la legge approvata (è la posizione di Luigi Di Maio), dall'altra non osa alzare il volume della radio per non dare l'impressione di togliere agli italiani un gesto democratico di libertà. In generale i piccoli partiti sono diffidenti poiché rischiano, come si usa dire nel lessico postdemocristiano «una miniaturizzazione della rappresentatività». Traduzione, di andare a casa. Poi c'è la sinistra di lotta e di governo. Pd e Italia viva tentano, come spesso loro accade, di far la parte degli sposi, del prete e anche della torta di nozze ai matrimoni. Nicola Zingaretti e Matteo Renzi, all'inizio contrarissimi al provvedimento, alla fine lo hanno votato per non far cadere subito il Conte bis. Ma nella loro contorsione intellettuale hanno poi firmato perché la palla passasse ai cittadini. Nella speranza di un sì o di un no? Mistero buffo. Rimane scolpita nella pietra la posizione del renzianissimo Roberto Giachetti, che comincia con una strofa da Festival di Sanremo: «Voterò sì ma non finisce qui. Un secondo dopo il mio voto mi adopererò affinché ci sia il numero necessario, fra Camera e Senato, per ottenere lo svolgimento del referendum e sarò il primo a costituire un comitato per il No». Siamo dentro un labirinto, colpi di sponda come neanche a boccette, pallottole di rimbalzo, stanza degli specchi deformanti. Con la variabile della nuova legge elettorale che potrebbe far incartare tutto. Se dovessimo spiegare a un senatore americano ciò che sta accadendo, più che Alexis de Tocqueville dovremmo tirare in ballo Sigmund Freud. Anche perché c'è la netta sensazione che nessuno, ma proprio nessuno, in cuor suo voglia amputare un dito di potere, nel timore che non si tratti di quello del vicino ma del suo. In questo bailamme istituzionale che fa sembrare la Brexit un sereno e lungo picnic, risaltano tre piccole certezze. La prima è la maledizione della Costituzione: finora chi ha tentato anche solo di toccarla (Massimo D'Alema e Silvio Berlusconi con la Bicamerale, Matteo Renzi con il monocameralismo imperfetto) è rimasto fulminato. La seconda è che i comitati del No saranno guidati dalla Fondazione Einaudi. La terza è rappresentata dal fallimento dei Radicali nella raccolta popolare di firme per abrogare la legge: ne servivano 500.000, ne hanno messe insieme 669. Nell'era dei social, la motivazione del flop è la stessa che usava Marco Pannella negli anni Settanta: «La violenta censura dei media». Il segretario Maurizio Turco ha spiegato: «Siamo contrari alla riforma perché prevede la cessione di rappresentanza da parte dei cittadini in cambio del risparmio di un caffè all'anno». Rimangono pur sempre 400 deputati e 200 senatori, più che sufficienti per non far ripartire il Paese.