
Primo ortaggio a fregiarsi della denominazione Igp, è protagonista anche della cucina in Brasile, dove arrivò con gli emigranti nel Rio Grande do Sul, enclave veneta nel nuovo mondo. Celebrato da poeti e scrittori, si è imposto non solo nella ristorazione.Manca solo che qualcuno gli attribuisca misteriose proprietà afrodisiache e il quadro sarebbe completo a descrivere le straordinarie proprietà del radicchio di Treviso, il primo prodotto dell'orto a fregiarsi della prestigiosa denominazione Igp, che ne garantisce filiera produttiva e tecnica di preparazione, ottenuta sin dal lontano 1996. È una vicenda che parte da lontano, ammantata da un'origine in bilico tra storia e leggenda. La più romantica sostiene che i suoi semi siano stati deposti da uccelli migratori sul campanile di Dosson, piccolo borgo a pochi chilometri da Treviso. Delle sue pianticelle si presero cura i frati di un vicino convento e così la sua coltivazione. Altri propendono per una versione più internazionale, grazie all'ingegno dell'olandese Francesco Van Den Borre. Giunto a Treviso applicò al radicchio quelle tecniche di sbiancamento in uso da lui con la cicoria belga. Vi è poi la versione più ruspante. Che nell'economia locale del tempo, dove non si buttava via mai niente, cespi di radicchio venivano messi a riposare in un angolo della stalla, ricoperti di un telo, per prolungarne il consumo oltre il tempo della raccolta. Fu così che si scoprì come potenziali di crescita residua formavano nuove foglie che si sviluppavano dall'interno che, una volta rimosse quelle esterne e rovinate, assicuravano un gusto decisamente intrigante, a cavallo tra croccantezza del nerbo e delicato retrogusto amaro.Oramai il radicchio di Treviso era pronto per decollare. Già nell'inchiesta Jacini, verso gli anni Ottanta dell'Ottocento, il radicchio veniva descritto come coltivato su larga scala. Il Comitato agrario di Treviso attesta come stesse oramai uscendo dall'ambito locale, presente su vari mercati grazie al trasporto ferroviario. Ma pronto anche a solcare i mari, nei cesti della nostalgia degli emigranti, in particolar modo nel brasiliano Rio Grande do Sul, un'autentica enclave veneta nel nuovo mondo. Cibo di sussistenza, citato nel dizionario Riograndese-Talian, scritto dal frate Alberto Vittor Stawinskj, che consiglia di condire i radicchi con aceto, sale e ciccioli. Protagonista della saudade in salsa veneta, nei canti popolari, come quelli ad esempio del Gruppo teatrale miseri coloni, i cui versi erano scritti da un giovane Piero Parenti Neto, poi divenuto stimato avvocato: «Miseri coloni/radici ben consai, na feta de polenta/ e n'antra de formai». Il «debutto in società» nel dicembre del 1900, alla prima manifestazione dedicata, sotto la Loggia di Pazza dei Signori, voluta da Giuseppe Benzi, responsabile dell'Associazione agraria trevigiana che così la presentò sulla Gazzetta di Treviso: «se lo guardi egli è un sorriso, se lo mangi un paradiso, il radicchio di Treviso». Primo vincitore nell'albo d'oro dei produttori tale Antonio De Pieri, ovviamente di Dosson, considerata la patria nativa. Negli annali della civiltà rurale il consumo era molto semplice. Per esempio si bollivano le radici per ottenere un'acqua depurativa, specialmente per i disturbi digestivi. Perso il gusto amaro le radici stesse poi andavano a condire l'insalata. Le radici depurate venivano caramellate dalle nonne per premiare i nipoti ubbidienti, mentre i nonni le utilizzavano per distillare delle grappe ritenute buon digestivo dopo pasti generosi. Negli anni della guerra le stesse radici venivano tostate e macinate per essere usate quale surrogato del caffè. Ma oramai era tempo di diventare adulto. Vi è il radicchio precoce, dalla foglia larga e più amaro, la cui raccolta inizia a settembre, mentre per il tardivo, invece, bisogna aspettare novembre, con le prime brinature. La disciplinare prevede un iter complesso. Si inizia con la fase di preforzatura. Le piante vengono raccolte, subiscono una prima pulitura e vengono reimpiantate ricoperte da un tunnel che le preserva dalla luce assicurando una buona aereazione. Poi vi sono la forzatura e l'imbianchimento, che è la vera marcia in più di questo prodotto. I cespi vengono raccolti e le radici poste a bagno su acque di origine sorgiva a temperatura costante. Qui si sviluppa l'arma segreta di questo ortaggio, ovvero la crescita di nuove foglie al suo interno, con una nerbatura bianca e croccante, foglie dal colore rosso violaceo e un gusto meno amaro. Questa fase dura circa due settimane, dopo di che subentra l'ultima, ossia quella della toelettatura. Vengono tolte le foglie esterne, viene lavato e si lascia solo una parte della radice che serve al mantenimento della parte vitale della pianta durante la fase di stoccaggio che precede la vendita. La zona di produzione corrisponde al Veneto centrale, tra la provincia di Treviso e alcuni Comuni di Padova e Venezia ricchi di acque delle risorgive caratteristiche di queste zone. Radicchio dai vari testimonial che lo hanno imposto all'attenzione pubblica, da Giuseppe Mazzotti che così lo raccontava su Le Vie d'Italia del Touring club «vengono lavorati sotto i portici o nelle stalle in tempo di filò, le foglie aperte con l'arte consumata dei fiorai» o Bepi Maffioli, secondo cui «il radicchio di Treviso è l'estremo dono della natura, quando l'autunno si assopisce nell'inverno e, dall'umiltà verdognola del campo, si gonfiano di linfe trionfali che danno loro un colore ed una consistenza impareggiabili». A loro dà manforte Gian Luigi Secco «a far diventare cigno il radicchio non è solo madre natura, ma soprattutto le cure e il metodo messi a punto da intere generazioni di agricoltori e tecnici». Fin qui l'aspetto prettamente produttivo di una realtà attorno alla quale si è sviluppato uno straordinario gioco di squadra, in cui i protagonisti non sono solo nel mondo della ristorazione. Vi sono due circuiti dedicati. Quello del Cocoradicchio, nato nel 1988. Vi è poi quello del Consorzio dei ristoratori del radicchio, sorto qualche anno dopo, che, nel 1999, ha dato luogo al Radicchio d'oro. Una riuscita manifestazione che, premiando varie eccellenze in diversi settori, li rende una sorta di testimonial, a livello nazionale, di questa bella realtà, legata non solo al radicchio, ma al territorio che lo circonda. Ecco allora che, in vent'anni, troviamo nell'albo d'oro per la sezione imprenditoria nomi quali Ennio Doris o Vittorio Sgarbi per la cultura, oppure Toni Capuozzo per il giornalismo; Max Biaggi per lo sport; la famiglia Alajmo per l'enogastronomia. A premiarli non una valletta qualsiasi, ma Miss Italia e le sue colleghe, posto che dal 2001 i ristoratori del radicchio si sono gemellati con l'analogo concorso. Una ideale sintesi di bellezza che non ha eguali. Pochi prodotti come il radicchio hanno avuto una specifica editoria dedicata, con ricettari scritti da maestri dei fornelli quali Giancarlo Pasin o Armando Zanotto. Sedersi a tavola è puro ed eclettico piacere, data la sua estrema versatilità. Già Pellegrino Artusi lo consigliava gratinato con barbabietola grattugiata. Eccolo all'antipasto, con scaglie di Montasio e gherigli di noci. Grande classico il risotto mantecato con l'asiago, ma anche al forno oppure spadellato alla griglia, come accompagnamento di carne o pesce. Curioso nella versione in saor, dove il sale viene sostituito da un trito finissimo di acciughe. Presente pure al dessert, con crostate, marmellate e pure come gelato. Radicchio che ha quindi pazientemente scalato la gerarchia culinaria, da umile contorno delle cucine rurali a ricercata leccornia di tavole stellate, anche se il riscatto lo aveva già vissuto un secolo orsono, grazie ad Amedeo Pettini, cuoco di Vittorio Emanuele III che lo inserì, alla griglia, nel menù di Natale del 1917, vissuto nelle retrovie della Grande guerra a Villa Giusti, nei pressi di Padova, come ebbe mirabilmente a raccontare anni dopo sul primo numero di La Cucina Italiana, nel dicembre 1929.
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